Acquisti con provento di evasione tributaria? La confisca allargata è legittima

In tema di confisca, ex art. 12-sexies d.l. n. 306/21992, convertito con modificazioni, in l. n. 356/1992, l'interessato può dimostrare la proporzione tra redditi disponibili e valore degli acquisti e/o degli investimenti, fornendo la prova che l'acquisto è avvenuto con redditi ulteriori rispetto a quelli regolarmente dichiarati quali, ad esempio, lasciti ereditari, vincite di gioco o redditi provenienti da attività lecita prima della scadenza del termine per la dichiarazione , a condizione che gli stessi non costituiscano provento di evasione tributaria e che si tratti di provviste lecite e tracciabili.

Ne consegue che è, a tal fine, irrilevante l'adesione al condono tributario tombale di cui all' art. 9, comma 10, l. n. 289/2002, in quanto, pur configurandosi quale causa di non punibilità di alcuni reati tributari, lo stesso non incide sull'illiceità originaria della condotta. Lo ha stabilito la seconda sezione penale della Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 45105, depositata il 6 novembre 2019. La confisca per equivalente La pronuncia in esame richiama diffusamente la giurisprudenza di legittimità formatasi in merito all’istituto della confisca per equivalente, cioè a quella che è stata definita una vera e propria sanzione, disposta su somme di denaro, beni o altre utilità di cui il reo abbia la disponibilità per un valore corrispondente al prezzo, al prodotto e al profitto del reato. Mediante tale istituto, viene assolta una funzione sostanzialmente ripristinatoria della situazione economica, modificata in favore del reo dalla commissione del fatto illecito, mediante l'imposizione di un sacrificio patrimoniale di corrispondente valore a carico del responsabile. Essa è, pertanto, connotata dal carattere afflittivo, e da un rapporto consequenziale alla commissione del reato proprio della sanzione penale, mentre esula dalla stessa qualsiasi funzione di prevenzione, che costituisce la principale finalità delle misure di sicurezza. La misura in parola non può avere ad oggetto beni per un valore eccedente il profitto del reato, sicché si impone la valutazione relativa all’equivalenza tra il valore dei beni e l’entità del profitto. La confisca per equivalente può essere applicata unicamente con riguardo a somme percepite anteriormente all’entrata in vigore delle norme che la consentono. In altri termini, essa non può essere applicata retroattivamente, in quanto – come detto – ha natura sanzionatoria, e non di misura di sicurezza patrimoniale. Proprio su tali basi è stata ritenuta manifestamente infondata, dalla Corte Costituzionale sentenza n. 97/2009 , la questione di legittimità degli artt. 200, 322- ter c.p. e 1, comma 143, l. n. 244/2007, censurati, in riferimento all'art. 117, comma 1, Cost., nella parte in cui prevedono la confisca obbligatoria cosiddetta per equivalente di beni di cui il reo abbia la disponibilità, con specifico riguardo ai reati tributari commessi anteriormente all'entrata in vigore della citata legge del 2007. Il problema si era posto, nella giurisprudenza di legittimità, sulla base della duplice considerazione che il comma 2 dell'art. 25 Cost. vieta l'applicazione retroattiva di una sanzione penale, e che la giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell'uomo ha ritenuto in contrasto, con i principi sanciti dall'art. 7 CEDU, l'applicazione retroattiva di una confisca di beni, riconducibile proprio ad un'ipotesi di confisca per equivalente. Al riguardo, si è confermato che la mancanza di pericolosità dei beni che sono oggetto della confisca per equivalente, unitamente all'assenza di un rapporto di pertinenzialità tra il reato e detti beni, conferiscono all'indicata confisca una natura eminentemente sanzionatoria, che impedisce l'applicabilità, a tale istituto, del principio generale dell'art. 200 c.p., secondo cui le misure di sicurezza sono regolate dalla legge in vigore al tempo della loro applicazione, e possono essere, quindi, retroattive. Altra caratteristica fondamentale dell’istituto de quo è che la confisca non può avere ad oggetto beni per un valore eccedente il profitto del reato, il che sta a significare che la motivazione del provvedimento che la dispone dovrà dare atto della valutazione della equivalenza fra il valore dei beni confiscati e l’entità del profitto riveniente dal reato. l’ipotesi atipica di confisca ex art. 12 sexies d.l. n. 306/1992 La confisca prevista per i reati elencati all’art. 12- sexies d.l. n. 306/1992 costituisce misura ablativa, avente natura punitivo-repressiva, che viene disposta, in seguito a condanna, o ad applicazione concordata della pena, per determinati reati indicati dalla stessa norma, in relazione ai beni non direttamente collegati alla commissione dei reati, più specificamente per il denaro, i beni o le altre utilità di cui il condannato non può giustificare la provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulta essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica. In particolare, nella prassi investigativa, è frequente l’adozione del sequestro preventivo ex artt. 321 e seguenti c.p.p. e della confisca ex art. 12- sexies l. n. 356/1992, eseguito contestualmente o subito dopo l'esecuzione delle misure cautelari personali, nei confronti degli indagati appartenenti ad una organizzazione di stampo mafioso. e la posizione della giurisprudenza di legittimità. La sentenza in commento si pone nel solco del consolidato orientamento della giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione Sezioni Unite n. 920/2004 , secondo cui la condanna per uno dei reati indicati nell'art. 12- sexies, commi 1 e 2, d.l. n. 306/1992, convertito con modificazioni nella l. n. 356/1992 contenente modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa , comporta la confisca dei beni nella disponibilità del condannato, allorché, da un lato, sia provata l'esistenza di una sproporzione tra il reddito da lui dichiarato o i proventi della sua attività economica e il valore economico di detti beni e, dall'altro, non risulti una giustificazione credibile circa la provenienza di essi. Ne consegue che, essendo irrilevante il requisito della pertinenzialità del bene rispetto al reato per cui si è proceduto, la confisca dei singoli beni non è esclusa per il fatto che essi siano stati acquisiti in epoca anteriore o successiva al reato per cui è intervenuta condanna, o che il loro valore superi il provento del medesimo reato. Nella decisione in esame, la sesta sezione aderisce integralmente all’orientamento per cui, al fine di disporre la confisca allargata allorché sia provata l'esistenza di una sproporzione tra il reddito dichiarato dal condannato o i proventi della sua attività economica e il valore economico dei beni da confiscare, e non risulti una giustificazione credibile circa la provenienza di essi, è necessario, in primo luogo, che, ai fini della sproporzione , i termini di raffronto dello squilibrio, oggetto di rigoroso accertamento nella stima dei valori economici in gioco, siano fissati nel reddito dichiarato o nelle attività economiche non al momento della misura rispetto a tutti i beni presenti, ma nel momento dei singoli acquisti rispetto al valore dei beni di volta in volta acquisiti. In secondo luogo, occorre che la giustificazione credibile consista nella prova della positiva liceità della loro provenienza e non in quella negativa della loro non provenienza dal reato per cui è stata inflitta condanna.

Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 4 luglio – 6 novembre 2019, n. 45105 Presidente De Crescienzo – Relatore Pardo Ritenuto in fatto 1.1 Con sentenza in data 11 maggio 2018, la corte di appello di Bari, in parziale riforma della pronuncia del tribunale di Trani in data 20 ottobre 2010, dichiarava non doversi procedere nei confronti di D.S.D. in ordine al reato di usura allo stesso contestato al capo A della rubrica perché estinto per intervenuta prescrizione e rideterminava la pena allo stesso inflitta in ordine al rimanente reato di estorsione di cui al capo B in anni 5 di reclusione confermava la predetta pronuncia del tribunale quanto alla confisca di alcuni beni mobili ed immobili revocando invece in parte il vincolo reale su altri beni analiticamente indicati al punto n. 3 del dispositivo di cui disponeva la restituzione agli aventi diritto. 1.2 Avverso detta sentenza proponevano ricorso per cassazione T.R. , D.S.M. e Di.Su.Mi. deducendo, con unico motivo, violazione del D.L. n. 306 del 1992, art. 12 sexies, comma 4 quinques e art. 104 bis disp. att. c.p.p. poiché sebbene tali norme prevedevano la partecipazione al giudizio anche dei terzi sequestrati e fossero entrate in vigore prima della definizione dell’appello tutti i predetti ricorrenti non erano stati citati per tale fase del giudizio con conseguente nullità della impugnata pronuncia. 1.3 Gli avv.ti Di Terlizzi ed Alvisi proponevano ricorso per cassazione nell’interesse del D.S.D. lamentando, con distinti motivi - violazione dell’art. 606 lett. b e c c.p.p. per omessa osservanza dell’art. 157 c.p. in relazione alla mancata declaratoria di prescrizione anche del reato di estorsione di cui al capo B della rubrica che doveva ritenersi essere stato consumato nonostante la data di consumazione indicata fosse quella del 14-6-2005 posto che il fatto era avvenuto in data omissis al momento della stipula del preliminare di vendita dell’immobile di via già trasferito al D.S. in occasione del precedente rogito notarile dell’8 luglio 2003 poiché a quella data si era verificato l’evento ingiusto della definitiva perdita di tale immobile - totale assenza di motivazione in ordine alla sussistenza dei requisiti per disporre la confisca allargata in virtù dell’art. 240 bis c.p. disposta nei confronti di beni immobili, mobili registrati e rapporti bancari intestati all’imputato ed ai suoi familiari non essendo stato accertato il requisito della intestazione fittizia dei beni dei familiari, non essendo stata operata una verifica compiuta della formazione nel tempo del patrimonio facente capo al prevenuto, non essendosi tenuto conto degli acquisiti e delle successive vendite effettuate dal 1973, non essendosi valorizzati i redditi provenienti dalla lecita attività di intermediazione ancorché non palesati al fisco. Presupposti questi che secondo l’interpretazione giurisprudenziale andavano verificati anche in caso di declaratoria di prescrizione del reato di estorsione al proposito veniva approfondito il tema della rilevanza dei redditi non dichiarati al fisco sottolineando come non dovesse farsi applicazione del disposto contenuto nell’ultima parte del comma 1 del nuovo art. 240 bis c.p. per la parte in cui esclude rilevanza ai redditi in nero e ciò perché al momento dell’adozione della confisca nel giudizio di primo grado tale principio non risultava avere vigore e non potendosi fare applicazione retroattiva di norme in relazione ad istituti dotati di carattere sanzionatorio. Con la conseguenza che poiché al momento della data del provvedimento di confisca in primo grado l’art. 12 sexies era interpretato dalle Sezioni Unite n. 33451/2014 secondo la quale va dato rilievo anche ai redditi non dichiarati da evasione fiscale occorreva tenere conto di tali importi nella valutazione della giustificazione offerta dal D.S. e dai figli circa gli acquisti effettuati. 1.4 L’avv.to Sisto, proponeva anch’egli ricorso per cassazione nella qualità di difensore di D.S.D. deducendo - violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. b in relazione al capo b della rubrica di cui doveva dichiararsi l’estinzione per prescrizione poiché il danno ingiusto e la consumazione del reato erano stati realizzati attraverso l’appropriazione del logo commerciale di Cristiano ed il rifiuto di restituirgli l’immobile di gran lunga antecedenti il suicidio della vittima dovendosi fissare le date di tali episodi al 2003 ed al omissis con conseguente decorso del termine ex art. 157 c.p. - violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. e quanto alla assenza di motivazione in ordine alla determinazione della pena. Considerato in diritto 2.1 Il ricorso proposto nell’interesse dei terzi T. , D.S.M. e Di.Su.Mi. è inammissibile perché avanzato da soggetti non legittimati invero la sentenza della corte di appello di Bari appare essere stata pronunciata nel maggio del 2018 e cioè in una data successiva l’entrata in vigore dell’art. 240 bis c.p., dell’art. 578 bis c.p.p. e dell’art. 104 bis disp. att. c.p.p. tutti oggetto di formulazione all’interno del D.Lgs. 1 marzo 2018, n. 21 che ha disposto la codificazione delle norme di legge speciale. In particolare le suddette disposizioni dettano la nuova disciplina integrale della c.d., confisca allargata già disciplinata dalla L. n. 203 del 1991, art. 12 sexies prevedendo - l’art. 240 bis c.p. i presupposti applicativi della norma, in particolare indicando le fattispecie dei c.d. reati spia e cioè di quelle imputazioni che possono giustificare l’ablazione del patrimonio dell’imputato indipendentemente dal profitto illecito del singolo reato, prevedendo che i beni possano appartenere a terzi intestatari fittizi, nonché prevedendo l’inversione dell’onere della prova a carico dello stesso imputato con esclusione della possibilità di difendersi eccependo la sussistenza di redditi da evasione fiscale - il successivo art. 104 bis disp. att. c.p.p. il procedimento da seguire in seguito al disposto sequestro, in relazione all’amministrazione dei beni sequestrati nella pendenza del procedimento e prevedendo in particolare al comma 1 quinquies che nel processo di cognizione devono essere citati i terzi titolari di diritti reali o personali di godimento sui beni in sequestro di cui l’imputato risulti avere la disponibilità a qualsiasi titolo - l’art. 578 bis c.p.p. la disciplina dell’ipotesi particolare della confisca disposta nel procedimento che in sede di impugnazione si sia concluso con la declaratoria di prescrizione imponendo, analogamente al precedente art. 578 c.p.p. che lo stabilisce in caso di accertamento della responsabilità civile, che la pronuncia che dichiara l’estinzione del reato ove accompagnata dalla conferma della confisca debba contenere una specifica motivazione dell’accertamento della responsabilità dell’imputato. Mentre tale ultima norma impone quindi un preciso obbligo di motivazione al giudice che dichiara la confisca unitamente alla declaratoria di prescrizione, l’art. 104 bis disp. att. c.p.p. tutela specificamente la posizione dei terzi interessati dal provvedimento di sequestro finalizzato alla confisca ex art. 240 bis c.p. prevedendo che gli stessi debbano necessariamente essere citati nel procedimento di cognizione che ha ad oggetto l’accertamento della responsabilità e ciò perché tale è la sede naturale per l’accertamento del presupposto della fittizia intestazione che i terzi possono contestare. Dal combinato disposto delle suddette norme di cui agli artt. 104 bis cit. e 578 bis cit. si evince, quindi, che la tutela dei terzi interessati dalla confisca allargata prevede la loro citazione nel corso del procedimento di merito e che, ove in sede di impugnazione il giudice di appello o di legittimità debba dichiarare l’estinzione del reato per prescrizione e debba disporre la confisca dei beni intestati ai suddetti terzi, è comunque obbligato a motivare l’affermazione di responsabilità dell’imputato in relazione al c.d, reato spia che viene dichiarato estinto oltre che i presupposti per l’ablazione dei beni intestati ai terzi e cioè la loro interposizione fittizia. Tuttavia, l’assenza di qualsiasi disposizione transitoria che preveda l’applicazione dell’obbligo di citazione dei terzi anche ai procedimenti pendenti, impedisce che nel giudizio di appello e di cassazione in corso di svolgimento alla data di entrata in vigore delle suddette disposizioni di cui all’art. 578 bis c.p.p. e art. 104 bis disp. att. c.p.p. debbano essere citati soggetti che non abbiano partecipato al giudizio di primo grado. La partecipazione dei terzi al giudizio di cognizione è prevista come forma di coinvolgimento del terzo interposto nella intestazione al fine di fare valere sin dalla fase di primo grado i propri diritti, anche mediante la partecipazione alla fase istruttoria, nel corso del quale lo stesso è titolare di analogo diritto alla prova rispetto all’imputato limitatamente agli aspetti di interesse specifico. Conseguentemente, deve essere escluso che il terzo interessato dal provvedimento ablatorio inizialmente disposto in forza dell’art. 12 sexies citato oggi 240 bis c.p. abbia un diritto di intervento anche nelle fasi di impugnazione, poiché si ammetterebbe una estensione dei giudizi di impugnazione a soggetti non coinvolti dall’accertamento del giudice di primo grado, estranea all’ordinamento processuale che vuole come limite del giudicato proprio l’accertamento compiuto nel corso del primo grado tale conclusione può agevolmente desumersi sia dal contenuto dell’art. 597 c.p.p. che regola la devoluzione delle questioni proponibili al giudice di appello stabilendo che questi è chiamato a pronunciarsi limitatamente ai punti della decisione impugnata e quindi soltanto su questioni già affrontate e coinvolgenti le parti del giudizio di primo grado che dell’art. 581 c.p.p. che stabilisce l’obbligo di specificità dei motivi e delle richieste correlandolo al contenuto della sentenza di primo grado che non può avere preso in considerazione la specifica posizione dei terzi rimasti estranei al giudizio e quindi anche al giudicato. Nè può ritenersi che tale interpretazione privi i terzi di tutela, valendo al proposito il previgente statuto frutto dell’orientamento giurisprudenziale di questa corte che ha già affrontato e risolto la questione della posizione del terzo interessato dalla confisca ex art. 12 sexies e che continua ad applicarsi anche ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore del citato art. 104 bis disp. att. c.p.p In particolare, le Sezioni Unite di questa corte, hanno affermato che in tema di misure cautelari reali, il terzo rimasto estraneo al processo, formalmente proprietario del bene già in sequestro, di cui sia stata disposta con sentenza la confisca, può chiedere al giudice della cognizione, prima che la pronuncia sia divenuta irrevocabile, la restituzione del bene e, in caso di diniego, proporre appello dinanzi al tribunale del riesame Sez. U, n. 48126 del 20/07/2017, Rv. 270938 . Così che secondo tale orientamento, il terzo intestatario del bene nella fase del sequestro può ottenere specifica tutela attivando il procedimento cautelare reale nel corso del quale può quindi fare valere le proprie ragioni indipendentemente dall’esito e dallo svolgimento del procedimento di merito nei confronti dell’imputato. E quanto al rimedio esperibile da parte del terzo successivamente l’adozione della confisca, vale l’ulteriore principio secondo cui in materia di confisca - sia quale misura di prevenzione reale, sia quale confisca atipica i terzi rimasti estranei al procedimento nel cui ambito è stato disposto il sequestro, possono proporre incidente di esecuzione per far valere i propri diritti sul bene oggetto di ablazione, a condizione che versino in buona fede e che abbiano trascritto il loro titolo anteriormente al sequestro Sez. 1, n. 27201 del 30/05/2013, Rv. 257599 . Sicché la posizione del terzo viene a trovare una completa tutela sia nella fase del procedimento che dopo l’adozione della confisca definitiva. E tale essendo lo statuto generale della tutela del terzo attinto da confisca ex art. 12 sexies oggi art. 240 bis c.p. deve essere esclusa, pertanto, l’obbligatoria citazione dei terzi intestatari di beni del D.S. nel giudizio di appello ben potendo gli stessi avanzare istanza al giudice della cognizione che ove respinta andava impugnata con il rimedio di cui all’art. 322 bis c.p.p. ovvero incidente di esecuzione in seguito alla definitività della pronuncia di confisca. 2.2 Il primo motivo dei ricorsi proposti nell’interesse del D.S.D. , e con il quale si deduce vizio della sentenza impugnata per omessa declaratoria di prescrizione del reato di estorsione di cui al capo B è proposto per motivi non consentiti ed, in ogni caso, appare anche manifestamente non fondato. Quanto al primo profilo va infatti evidenziato come nel caso in esame il ricorrente tramite tutti i propri difensori reclami la declaratoria di prescrizione di un reato pur avendo rinunciato in fase di appello ai motivi attinenti la responsabilità con conseguente formazione del giudicato interno sul punto a tale proposito valgono i precedenti giurisprudenziali di questa corte secondo cui è inammissibile il ricorso per cassazione avverso la decisione del giudice di appello che, rilevata la rinuncia dell’imputato ai motivi di appello diversi da quelli relativi alla riduzione di pena, dichiari, in virtù dell’art. 589 c.p.p., commi 2 e 3 e art. 591 c.p.p., comma 1, lett. d , l’inammissibilità sopravvenuta dei motivi oggetto di rinuncia, omettendone l’esame ai fini dell’applicazione dell’art. 129 c.p.p., considerato che la rinuncia ha effetti preclusivi sull’intero svolgimento processuale, ivi compreso il giudizio di legittimità. Pertanto, poiché, ex art. 597 c.p.p., comma 1, l’effetto devolutivo dell’impugnazione circoscrive la cognizione del giudice del gravame ai soli punti della decisione ai quali si riferiscono i motivi proposti, una volta che essi costituiscano oggetto di rinuncia, non può il giudice di appello prenderli in considerazione, nè può farlo il giudice di legittimità sulla base di un’ipotetica implicita revoca di tale rinuncia, stante l’irrevocabilità di tutti i negozi processuali, ancorché unilaterali Sez. 2, n. 3593 del 03/12/2010, Rv. 249269 . Ancora si è affermato come la rinuncia parziale ai motivi d’appello determina il passaggio in giudicato della sentenza gravata limitatamente ai capi oggetto di rinuncia, di talché è inammissibile il ricorso per cassazione con il quale si propongono censure attinenti ai motivi d’appello rinunciati e non possono essere rilevate d’ufficio le questioni relative ai medesimi motivi Sez. 4, n. 9857 del 12/02/2015, Rv. 262448 . E sul caso analogo del tema del c.d. patteggiamento in appello che comporti anche esso la rinuncia ai motivi sulla responsabilità si è in particolare affermato in tema di rilievo della prescrizione che è inammissibile il ricorso per cassazione avverso la decisione pronunciata in sede di concordato in appello, ex art. 599 c.p.p., comma 4, al fine di ottenere la declaratoria di estinzione del reato per prescrizione, considerato che la concessione in tale sede delle attenuanti generiche - che fanno parte integrante dell’accordo e sono unicamente finalizzate alla rideterminazione in concreto del trattamento sanzionatorio - non ha alcun rilievo ai fini della prescrizione e non spiegano altro effetto se non quello di ridurre la pena con coessenziale rinunzia da parte dell’imputato patteggiante a far valere la prescrizione, non essendo consentito, in virtù del principio di lealtà processuale, l’utilizzazione dell’accordo per finalità incompatibile con gli scopi cui è preordinato Sez. 5, n. 15547 del 19/03/2008, Rv. 239489 . L’applicazione dei sopra esposti principi al caso in esame deve portare ad escludere che rinunciati i motivi sulla responsabilità in fase di appello possa poi essere devoluta alla corte di cassazione la questione della intervenuta prescrizione del reato del resto la rinuncia è un negozio unilaterale abdicativo che determina l’immediato passaggio in giudicato del reato sul quale interviene e determina pertanto l’effetto di precludere qualsiasi successiva questione sul punto dell’affermazione di responsabilità. Ne consegue che a seguito della rinuncia sulla responsabilità si determina l’immediato passaggio in giudicato del punto sul quale la stessa cade senza possibilità per il giudice di pronunciare sentenza di estinzione del reato per prescrizione nè tanto meno diritto della parte rinunciante a proporre impugnazione di legittimità sul punto. Nè assume rilevanza alcuna la dichiarazione espressa dai difensori in sede di giudizio di appello e riportata dalla impugnata pronuncia a pagina 8 della motivazione e con la quale gli stessi contestualmente alla rinuncia ai motivi sulla responsabilità dichiaravano di non rinunciare a quelli sulla prescrizione invero dall’analisi degli atti di appello non risulta che alcun motivo di gravame avverso la sentenza di primo grado era stato avanzato facendo valere l’estinzione del reato per decorso del tempo sicché i difensori non potevano non rinunciare a motivi che non erano stati proposti. La rinuncia ai motivi di appello sulla responsabilità determina pertanto l’applicazione del principio secondo il quale è inammissibile l’impugnazione relativa a questioni, anche rilevabili d’ufficio, alle quali l’interessato abbia espressamente rinunciato, il che ha effetti preclusivi sull’intero svolgimento processuale, ivi compreso il giudizio di legittimità, analogamente a quanto avviene nella rinuncia all’impugnazione o all’analoga ipotesi dell’accordo sulla pena in appello in forza dell’art. 599 bis c.p.p., cfr., su tale analoga evenienza, Cass. Sez. 1, n. 43721 del 15.11.2007, dep. 23.11.2007 Cass. n. 40767 del 2001 rv. 220427, n. 94 del 2003 rv. 224239, n. 16965 del 2003 rv. 224241, n. 20477 del 2003 rv. 224924, n. 21358 del 2003 rv. 224505, n. 28831 del 2003 rv. 225771, n. 29699 del 2003 rv. 225896, n. 39663 del 2004 rv. 231109, n. 1754 del 2005 . 2.3 In ogni caso, il motivo proposto in tema di prescrizione del delitto di estorsione di cui al capo B è pure manifestamente non fondato difatti fondamentalmente errate sono le ricostruzioni operate da parte del ricorrente nei distinti ricorsi e con i quali si deduce che dovendo essere anticipata la data di consumazione dei fatti al momento della stipula del preliminare di retrocessione, il reato doveva ritenersi prescritto al momento della pronuncia della sentenza di appello. In primo luogo, infatti, appare evidente che intervenuta la rinuncia ai motivi di impugnazione in tema di responsabilità il giudice di appello e tanto meno il giudice di legittimità possono operare ex officio una modifica del capo di imputazione individuando una diversa data di consumazione dei fatti rispetto a quella indicata poiché tale invocata decisione ancora una volta esulerebbe dalle questioni oggetto di devoluzione e comunque involgerebbe aspetti di puro fatto preclusi al giudizio di legittimità. In ogni caso la prospettiva si rivela errata anche in punto ricostruzione dei fatti difatti dalla lettura del capo di imputazione di cui alla lettera B risulta che la minaccia e la condotta intimidatoria del D.S. finalizzate a realizzare l’ingiusto profitto costringevano il C. a dare esecuzione alle pattuizioni usurarie . Stante pertanto lo stretto collegamento tra usura ed estorsione secondo la lettera dell’imputazione, la data di consumazione del secondo reato risulta strettamente connessa a quella della esazione dei crediti usurari sicché proseguita la condotta di versamento di somme da parte della vittima C. la fattispecie estorsiva veniva ad essere ugualmente consumata. E poiché dalla stessa lettura del capo di imputazione, oltre che dagli accertamenti in fatto contenuti nella impugnata pronuncia, risulta espressamente che ancora a marzo del 2005 e cioè pochi mesi prima del suicidio, il C. era costretto a cedere il proprio motociclo proprio all’imputato in adempimento dei precedenti accordi e che dopo l’intervenuta tragica morte della persona offesa, D.S. veniva rinvenuto addirittura in possesso di ulteriori assegni per complessivi 48.000 Euro del C. , appare evidente che sino al momento del suo suicidio la vittima subiva l’estorsione del D.S. finalizzata ad ottenere il pagamento di crediti usurari. Con la conseguenza di dovere certamente escludere la possibilità di ritenere anticipata la data di consumazione dei fatti rispetto a quella indicata nel capo di imputazione. 2.4 Manifestamente non fondati sono poi i motivi proposti in punto di determinazione della pena e formulazione del giudizio di bilanciamento la corte di appello ha infatti adeguatamente motivato il già pur generoso giudizio di concessione delle attenuanti generiche a fronte di fatti gravissimi e la valutazione di equivalenza rispetto alla riconosciuta aggravante con valutazione non sindacabili nella presente sede di legittimità, riducendo la pena del minimo edittale assoluto. 2.5 Manifestamente non fondati appaiono altresì i motivi dedotti in punto di statuizione di confisca adottata dalla corte di appello innanzi tutto non vanno esaminate le doglianze pagina 11 del ricorso avv.to Di Terlizzi con le quali ci si dilunga sul tema del rapporto tra confisca e declaratoria di prescrizione posto che nel caso in esame la definitiva conferma della responsabilità per il capo B conseguente la declaratoria di inammissibilità dei motivi priva di efficacia tale prospettazione difensiva. Quanto agli altri aspetti devoluti con il ricorso, va in primo luogo richiamato il precedente di questa corte pronunciato nella fase cautelare del presente procedimento con il quale sono state riconosciute le condizioni dell’intestazione fittizia di beni ai familiari e della evidente sproporzione dei redditi, quali elementi costitutivi del provvedimento ablatorio L. n. 203 del 1992, ex art. 12 sexies oggi art. 240 bis c.p. difatti nella predetta pronuncia Sez. 2 n. 6458 del 2011 non massimata è stato già rilevato che i ricorrenti, a fronte della riscontrata insufficienza della capacità reddituale ad accantonare ricchezza, non avevano fornito la prova positiva della lecita provenienza dei beni sequestrati. Nè appare conducente il rilievo che i beni sono nella disponibilità dei figli e delle loro famiglie la giurisprudenza di questa Corte, nell’interpretare la disposizione di cui all’art. 321 c.p.p. con riferimento al sequestro di beni D.L. n. 306 del 1992, ex art. 12 sexies, ha chiaramente avvertito che il legislatore, nella specifica materia, ha creato una presunzione relativa di illecita accumulazione patrimoniale, trasferendo sul soggetto che ha la titolarità o la disponibilità del bene l’onere di giustificarne la provenienza tale presunzione è peraltro inoperante con riferimento alla titolarità o alla disponibilità da parte dell’imputato di beni formalmente intestati a terzi, nel qual caso trova applicazione la consueta ripartizione dell’onere probatorio, che grava sull’accusa. Ha rilevato tuttavia questa Corte che siffatta prova, concernendo il rapporto tra la persona ed il bene, coincide con quella incentrata sulla esistenza di una intestazione fittizia del bene stesso, di talché sarà sufficiente dimostrare che il titolare apparente, sulla base del reddito dichiarato, non svolgeva un’attività in grado di procurargli il bene, per comportare l’inversione dell’onere della prova, spettando a lui dimostrare una titolarità del reddito non dichiarato adeguato ad assicurargli la titolarità del bene, la cui intestazione, dunque, non è reale ma fittizia . Deve pertanto essere escluso che i presupposti della intestazione fittizia e della sproporzione possano essere nuovamente censurati posto che le emergenze difensive hanno già portato alla riduzione del sequestro e della rispettiva confisca operato in sede cautelare attraverso la parziale restituzione dei beni come motivata dalla corte di appello. 2.6 Quanto al tema della rilevanza dei redditi da evasione fiscale, suggestiva, seppure anch’essa manifestamente infondata, appare la prospettiva adottata nel ricorso la tesi difensiva reclama l’applicabilità al caso in esame dell’interpretazione ricavabile da una pronuncia delle Sezioni Unite di questa corte Sez. U, n. 33451 del 29/05/2014, Rv. 260247 che attribuisce rilievo ai redditi da evasione fiscale ai fini di escludere la confisca allargata ex art. 12 sexies cit. oggi 240 bis c.p. e secondo cui la confisca di prevenzione e la confisca cosiddetta allargata , di cui al D.L. 8 giugno 1992, art. 12 sexies, convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 1992, n. 356, presentano presupposti applicativi solo in parte coincidenti, atteso che per entrambe è previsto che i beni da acquisire si trovino nella disponibilità diretta o indiretta dell’interessato e che presentino un valore sproporzionato rispetto al reddito da quest’ultimo dichiarato ovvero all’attività economica dal medesimo esercitata, tuttavia solo per la confisca di prevenzione è prevista la possibilità di sottrarre al proposto i beni che siano frutto di attività illecita ovvero ne costituiscano il reimpiego. In sostanza, il ricorrente, sostenendo la natura essenzialmente sanzionatoria della confisca c.d. allargata, e la conseguente non applicabilità retroattiva di una disciplina meno favorevole ai reo, reclama l’impossibilità di applicare al caso in esame il più recente testo dell’art. 240 bis c.p. che nel penultimo periodo del comma 1 come riformulato dal D.Lgs. 1 marzo 2018, n. 21, art. 6, comma 1 espressamente prevede che in ogni caso il condannato non può giustificare la legittima provenienza dei beni sul presupposto che il denaro utilizzato per acquistarli sia provento o reimpiego dell’evasione fiscale . e deduce quindi che ha errato la corte di appello di Bari nel confermare la confisca di parte dei beni mobili ed immobili del nucleo familiare D.S. non avendo tenuto conto dei c.d. redditi in nero. Orbene tale soluzione non può trovare alcun accoglimento e si profila anche essa inammissibile per manifesta infondatezza per almeno un duplice ordine di ragioni innanzi tutto va ricordato un differente orientamento giurisprudenziale di questa corte successivo la già indicata pronuncia delle Sezioni Unite, in tema di confisca D.L. 8 giugno 1992, n. 306, ex art. 12 sexies, convertito in L. 7 agosto 1992, n. 356, secondo cui l’interessato può dimostrare la proporzione tra redditi disponibili e valore degli acquisti e/o degli investimenti, fornendo la prova che l’acquisto è avvenuto con redditi ulteriori rispetto a quelli regolarmente dichiarati quali, ad esempio, lasciti ereditari, vincite di gioco o redditi provenienti da attività lecita prima della scadenza del termine per la dichiarazione , a condizione che gli stessi non costituiscano provento di evasione tributaria e che si tratti di provviste lecite e tracciabili ne consegue che è, a tal fine, irrilevante l’adesione al condono tributario tombale di cui al L. 27 dicembre 2002, n. 289, art. 9, comma 10, Sez. 6, n. 10765 del 06/02/2018, Rv. 272719 . Soluzione questa che può ritenersi conforme a quelle maggioritarie pronunce che escludono la natura sanzionatoria della confisca allargata affermando espressamente che l’ipotesi di confisca prevista dal D.L. 8 giugno 1992, n. 306, art. 12 sexies, convertito nella L. 7 agosto 1992, n. 356, può essere disposta anche in relazione a cespiti acquisiti in epoca anteriore all’entrata in vigore delle disposizioni che l’hanno istituita, in quanto il principio di irretroattività opera solo con riguardo alle confische aventi sicura natura sanzionatoria e non anche in relazione alle misure di sicurezza, tra cui va ricompresa la confisca in questione Sez. 6, n. 10887 del 11/10/2012, Rv. 254786 . Con l’evidente conseguenza che anche il reddito da evasione fiscale non potrebbe essere invocato stante l’applicabilità dell’art. 240 bis c.p. ultima formulazione. In ogni caso, però, se anche dovesse accedersi alla soluzione esposta nel ricorso, deve essere sottolineato come la semplice allegazione della esistenza di redditi da evasione fiscale non è elemento sufficiente ad eludere l’applicabilità della confisca dei beni sproporzionati al reddito di soggetto condannato per uno dei reati di cui all’elenco contenuto nell’art. 240 bis c.p. appare evidente infatti che in tali casi deve essere fornita prova specifica della consistenza dei redditi ad effettuare proprio quegli acquisti. Con la conseguenza che il soggetto condannato per estorsione nei cui confronti viene disposta la confisca allargata ha l’onere preciso di provare il giro di affari dallo svolgimento del quale è stata ricavata la provvista per gli acquisti immobiliari o per gli investimenti bancari e finanziari altrimenti deducendosi una circostanza solamente e meramente generica che demanderebbe al giudice del merito un onere esplorativo totalmente estraneo al giudizio di confisca ed all’inversione dell’onere della prova che esso comporta ex art. 240 bis c.p Deve quindi essere richiamato il sempre valido orientamento di questa sezione della corte di cassazione e secondo cui in tema di sequestro preventivo finalizzato alla confisca, la presunzione di illegittima provenienza di risorse patrimoniali accumulate da un soggetto condannato per il reato di cui alla L. n. 356 del 1992, art. 12-sexies deve escludersi in presenza di fonti lecite e proporzionate di produzione, sia che esse siano costituite dal reddito dichiarato ai fini fiscali sia che provengano dall’attività economica svolta, benché non evidenziate, in tutto o in parte, nella dichiarazione dei redditi, con la conseguenza che è onere dell’interessato dimostrare che i beni sequestrati sono stati acquistati con il provento di attività economiche non denunciate al fisco Sez. 2, n. 49498 del 11/11/2014, Rv. 261046 . E quindi, se anche dovesse ritenersi che per le confische adottabili anteriormente la più recente previsione dell’art. 240 bis c.p. rilevino i redditi in nero, non basta però allegare o provare genericamente che nell’esercizio dell’attività professionale cui si è dediti si è usufruito di redditi non dichiarati perché i beni sequestrati al soggetto condannato per uno dei c.d. reati-spia ex art. 240 bis c.p. siano esenti da confisca allargata, occorrendo invece una specifica prova dell’ammontare di tali redditi e del reinvestimento proprio negli acquisti dei beni poi sequestrati e confiscati altrimenti apparendo la deduzione evidentemente generica e priva di rilievo decisivo non potendo certo ammettersi che la semplice dimostrazione dell’avvenuta realizzazione di redditi da evasione fiscale assuma un effetto sanante generalizzato di tutti gli acquisti effettuati da un soggetto condannato per gravi fatti di reato. L’applicazione dei sopra esposti principi deve proprio fare concludere per l’inammissibilità anche di questo motivo di ricorso e per manifesta infondatezza e per genericità poiché anche a volere ritenere i redditi in nero del D.S. rilevanti a fronte di un così cospicuo patrimonio mobiliare ed immobiliare acquisito nel tempo, gli stessi non paiono in alcun modo decisivi non essendo neppure stati indicati anno per anno nel ricorso introduttivo della presente fase di legittimità ed essendo comunque totalmente privi di qualsiasi ricostruzione adeguata. In conclusione, le impugnazioni devono ritenersi inammissibili a norma dell’art. 606 c.p.p., comma 3 alla relativa declaratoria consegue, per il disposto dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché al versamento in favore della Cassa delle ammende di una somma che, ritenuti e valutati i profili di colpa emergenti dal ricorso, si determina equitativamente in Euro 2.000,00 ciascuno. P.Q.M. dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila ciascuno a favore della Cassa delle ammende.