L’amministratore di fatto della società (parte in causa del processo civile) può testimoniare

L’interesse di fatto non è ostativo all’obbligo di testimoniare e non comporta incapacità a testimoniare neppure in sede di processo civile, dove non possono essere sentite come testimoni solo le persone aventi un interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio .

Così la Suprema Corte con sentenza n. 38242/19, depositata il 16 settembre. La ricorrente, condannata nei precedenti gradi di giudizio per il reato di falsa testimonianza art 372 c.p. e al risarcimento danni in favore della parte civile, in quanto sentita come testimone in una causa di lavoro promossa da quest’ultima contro la società datrice di lavoro, rendeva false dichiarazioni in relazione alle modalità con cui venivano erogati i compensi che spettavano a questa per l’attività svolta, propone ricorso in Cassazione. L’interesse a testimoniare. Con il motivo di ricorso si denuncia vizio motivazionale per aver la Corte territoriale ritenuto motivo nuovo inammissibile la questione relativa alla capacità di testimoniare dell’imputata ex art. 246 c.p.c. nella causa di lavoro poiché amministratrice della società convenuta, omettendo di considerare che si trattava di una questione di responsabilità penale e doveva essere oggetto dei motivi di gravame. Al riguardo, tale questione per la S.C. è infondata, poiché l’interesse di fatto non è ostativo all’obbligo di testimoniare e non determina incapacità a testimoniare neppure nella sede del processo civile. Infatti l’amministratore di fatto è un soggetto che non dispone della legittimazione formale, attiva o passiva per conto della società, parte nella causa del processo civile, e quindi questa sua posizione non può comportare incompatibilità con la qualità di testimone. Inoltre, i giudici di legittimità ben richiamano il principio secondo cui, per l’esclusione della punibilità ai sensi all’art. 384, ultimo comma, c.p. della falsa testimonianza commessa nella causa civile, l’interesse che rende una persona incapace a deporre si identifica, in virtù dell’art. 246 c.p.c., con l’interesse giuridico, personale, concreto ed attuale a proporre una domanda o a contraddirvi . Sulla base di ciò è irrilevante un interesse di mero fatto, come risulta esserci nel caso in esame, e pertanto il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.

Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 14 giugno – 16 settembre 2019, n. 38242 Presidente Tronci – Relatore Amoroso Ritenuto in fatto 1. Con il provvedimento in epigrafe, la Corte d’appello di Lecce, ha confermato la sentenza del Tribunale di Lecce emessa in data 03/11/2014, con cui la ricorrente è stata condannata per il reato di falsa testimonianza di cui all’art. 372 c.p., alla pena di anni uno e mesi quattro di reclusione, nonché al risarcimento dei danni in favore della parte civile, perché sentita come testimone in una causa di lavoro promossa da G.M. contro la società di cui il predetto era stato dipendente, all’udienza dell’8/10/2010, rendeva false dichiarazioni in merito alle modalità con cui venivano erogati i compensi allo stesso spettanti per l’attività da questi svolta per conto della società. 2. Con atto a firma del difensore di fiducia, P.E.M. ha proposto ricorso, articolando i motivi di seguito indicati. 2.1. Con il primo motivo si deduce vizio della motivazione ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. e per avere la Corte territoriale ritenuto motivo nuovo inammissibile perché non inerente i punti ed i capi della decisione investiti dall’appello principale la questione relativa alla capacità di testimoniare dell’imputata ex art. 246 c.p.c. nella causa di lavoro in quanto amministratrice di fatto della società parte convenuta, omettendo di considerare che trattandosi di una questione che investe la responsabilità penale si trattava di un punto oggetto dei motivi di gravame ritualmente dedotti, con la conseguente omessa verifica della ricorrenza della causa di non punibilità prevista dall’art. 384 c.p., comma 2, dedotta con una memoria integrativa depositata in cancelleria. 2.2. Con il secondo motivo si deduce il vizio della motivazione in relazione all’omessa motivazione in merito alla richiesta di applicazione della causa di non punibilità prevista dall’art. 131-bis c.p. avanzata sia con la memoria difensiva depositata il 25 settembre 2018, sia in sede di discussione e non dedotta con la proposizione dell’atto di appello perché depositato in data 26 febbraio 2015, prima dell’entrata in vigore della novella legislativa di cui al D.Lgs. 16 marzo 2015, n. 28 con cui è stata introdotta la predetta causa di non punibilità. 2.3. Con il terzo motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione per avere la corte territoriale confermato le statuizioni civili senza considerare l’atto di transazione contenente la rinuncia espressa della parte civile sia alla costituzione di parte civile nel procedimento penale sia all’esercizio dell’azione civile per avvenuto soddisfacimento di ogni pretesa. In particolare si duole il ricorrente dell’erronea decisione con cui è stata ritenuta per il principio di immanenza ancora valida la costituzione di parte civile, sebbene assente nel giudizio di appello, sull’errato presupposto che all’atto di transazione non avrebbe fatto seguito una formale manifestazione di rinuncia nel procedimento penale. Considerato in diritto 1. Tutti i motivi di ricorso sono manifestamente infondati, e conseguentemente deve essere dichiarata l’inammissibilità del ricorso. Con riguardo al primo motivo si osserva che la questione della capacità di testimoniare della ricorrente in sede civile è manifestamente infondata. L’interesse di fatto non è ostativo all’obbligo di testimoniare e non determina alcuna incapacità a testimoniare neppure nella sede del processo civile, in cui è previsto che non possono essere assunte come testimoni solo le persone aventi nella causa un interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio. L’amministratore di fatto è soggetto che per definizione non dispone della legittimazione formale, attiva o passiva per conto della società, parte in causa del processo civile, e quindi non può tale sua posizione, contraddistinta da un interesse non qualificato giuridicamente, determinare una incompatibilità con la qualità di testimone e con gli obblighi conseguenti di deporre e di dire la verità. Si deve ribadire che ai fini della esclusione della punibilità ai sensi dell’art. 384 c.p., u.c., della falsa testimonianza commessa nella causa civile, l’interesse che rende una persona incapace a deporre si identifica, secondo il disposto dell’art. 246 c.p.c., con l’interesse giuridico, personale, concreto ed attuale a proporre una domanda o a contraddirvi, sia sotto l’aspetto di una legittimazione primaria, sia sotto l’aspetto di una legittimazione secondaria, mediante intervento adesivo dipendente. Non è rilevante, pertanto ai fini sopra specificati, un interesse di mero fatto, non sorretto da una posizione di diritto sostanziale giuridicamente tutelabile. Pertanto, attesa la manifesta infondatezza della doglianza, è inammissibile, per carenza d’interesse, anche il ricorso per cassazione rivolto a censurare la sentenza di secondo grado che non abbia preso in considerazione un motivo di appello inammissibile ab origine per manifesta infondatezza, in quanto l’eventuale accoglimento del motivo non sortirebbe alcun esito favorevole in sede di giudizio di rinvio Sez. 6, n. 47722, 06/10/2015 Rv. 265878 . 2. Anche il secondo motivo è manifestamente infondato. Rileva il Collegio che l’art. 131-bis c.p., comma 1 delimita preliminarmente il suo ambito di applicazione ai soli reati per i quali è prevista una pena detentiva non superiore, nel massimo, a cinque anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena. Pertanto, non può trovare applicazione la invocata causa di non punibilità, essendo il reato di falsa testimonianza punito con pena superiore ad anni cinque di reclusione, considerato che l’originaria pena da sei mesi a tre anni è stata aumentata con l’attuale pena da due a sei anni, con il D.L. 8 giugno 1992, n. 306, convertito nella L. 7 agosto 1992, n. 356, e che quindi si tratta di un delitto punito con una pena più elevata di quella considerata dall’art. 131-bis c.p. in forza della normativa penale già vigente al momento del fatto ottobre 2010 . 3. Con riferimento all’ultimo motivo si deve rilevare che la Corte di appello ha fatto corretta applicazione del principio di immanenza della costituzione della parte civile, che conserva efficacia anche nei successivi gradi di impugnazione, ove non formalmente revocata ex art. 82 c.p.p Si deve considerare che la parte civile costituita, che non partecipi al giudizio di appello personalmente e non presenti conclusioni scritte ai sensi dell’art. 523 c.p.p., deve ritenersi comunque presente nel processo e le sue conclusioni, pur rassegnate in primo grado, restano valide in ogni stato e grado in virtù del principio di immanenza previsto dall’art. 76 c.p.p Dalla lettura dell’atto di transazione prodotto in udienza si evince come in tale atto non sia affatto contenuta la formale dichiarazione di revoca espressa della costituzione di parte civile prevista dall’art. 82 c.p.p., comma 1, ma solamente un obbligo di rinunciare a reclamare ogni ulteriore risarcimento del danno a fronte dell’intervenuto pagamento dell’importo di Euro 5.000,00, comprensivo delle spese legali. Pertanto, il giudice dell’appello non avrebbe potuto revocare le statuizioni civili e la condanna alle spese relative al primo grado di giudizio. Peraltro, il motivo è inammissibile anche per carenza di interesse, perché se la parte civile dovesse eventualmente azionare il titolo giudiziario, la ricorrente potrebbe sempre eccepire di avere adempiuto alla transazione, a dimostrazione dell’intervenuto adempimento degli obblighi risarcitori. 4. Dalla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue, a norma dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente, oltre che al pagamento delle spese del procedimento, anche a versare una somma, che si ritiene congruo determinare in duemila Euro. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila in favore della Cassa delle Ammende.