Tre cinghiali catturati e posti in un recinto: condannato a pagare 5mila euro di ammenda

Condanna definitiva per l’uomo dichiaratosi proprietario degli animali. Decisiva l’applicazione della normativa che vieta di detenere mammiferi selvatici pericolosi per la salute e l’incolumità pubblica.

Costa carissimo il possesso di tre esemplari di cinghiali l’uomo dichiaratosi proprietario degli animali viene difatti condannato a pagare ben 5mila euro di ammenda. Evidente per i Giudici la violazione della normativa nazionale che vieta di tenere mammiferi di specie selvatica, pericolosi per la salute e l’incolumità pubblica”. Irrilevante, invece, il richiamo difensivo al fatto che alle Regioni e non allo Stato è affidata la disciplina dell’allevamento di fauna selvatica” Cassazione, sentenza n. 36706/19, sez. III Penale, depositata oggi . Allevamento. Scenario della vicenda è la provincia di Teramo. In quelle terre viene rinvenuto una sorta di allevamento non autorizzato di cinghiali. A finire sotto processo è l’uomo che si è dichiarato proprietario degli animali , avendone anche raccontato la cattura e la collocazione in apposito recinto . Gli elementi probatori a disposizione sono ritenuti sufficienti e così l’uomo viene condannato a pagare 5mila euro di ammenda. Per il giudice è evidente che egli ha violato la normativa che vieta anche di detenere esemplari vivi di mammiferi di specie selvatica , come i cinghiali, che costituiscono pericolo per la salute e l’incolumità pubblica . Pericolo. Inutile si rivela il ricorso proposto in Cassazione. Per i Giudici del ‘Palazzaccio’, difatti, non vi sono ragioni per mettere in discussione la condanna pronunciata in Tribunale. In sostanza, una volta ricostruita la vicenda, pare indiscutibile la colpevolezza dell’uomo, dichiaratosi proprietario dei tre cinghiali . Decisivo il richiamo al principio con cui si è stabilito che i cinghiali rientrano nel generale divieto di detenzione di mammiferi che costituiscano pericolo per la salute o l’incolumità pubblica , a meno che, viene aggiunto, non si sia in possesso di una autorizzazione all’allevamento di fauna selvatica a scopo alimentare, di ripopolamento, ornamentale ed amatoriale, rilasciata dalla Regione . Su questo fronte, peraltro, viene anche chiarito che la legislazione regionale non può costituire fonte diretta di norme penali, anche nella prospettiva della introduzione di fattispecie che rendano lecite una condotta penalmente sanzionata dall’ordinamento nazionale così viene respinta l’obiezione difensiva centrata sul fatto che alla luce della legge regionale la specie cinghiale non farebbe parte della fauna selvatica oggetto di tutela né rientrerebbe tra quelle particolarmente protette . Per chiudere il cerchio, infine, i giudici tengono a precisare che comunque il divieto di detenzione di animali che costituiscano pericolo per la salute o la pubblica incolumità prescinde da ogni valutazione sulla loro concreta nocività e sulle specifiche modalità della loro custodia .

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 4 luglio – 30 agosto 2019, n. 36706 Presidente Di Nicola – Relatore Noviello Ritenuto in fatto 1. Il tribunale di Teramo condannava Ru. Pi. alla pena di Euro 5000,00 di ammenda in relazione al reato di cui agli art. 110 cod. pen. e 6 comma 4 L. 150/92, per avere detenuto tre esemplari vivi di mammifero di specie selvatica, pericolosi per la salute e l'incolumità pubblica ai sensi del D.M. 19/04/1996 e in violazione dell'art. 30 lett. h ed I della medesima legge. 2. Avverso la predetta sentenza propone ricorso Ru. Pi., mediante il proprio difensore, deducendo tre motivi di impugnazione. 2. Con il primo motivo deduce il vizio ex art. 606 comma 1 lett. b cod. proc. pen. avendo il giudice - a fronte di una condanna a pena pecuniaria - applicato il beneficio della sospensione condizionale della pena per una durata di anni 5 anziché 2. 3. Con il secondo motivo deduce il vizio ex art. 606 comma 1 lett. b cod. proc. pen. per l'inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dall'imputato, siccome non qualificabili come spontanee bensì sollecitate e rese in assenza delle garanzie costituzionalmente previste e senza interruzione delle medesime, al momento dell'insorgere di indizi di reità, con conseguenti avvisi di legge. Nella stessa sentenza si darebbe atto del fatto per cui l'imputato dichiarò di essere proprietario degli animali in contestazione su domanda. 4. Con il terzo motivo, deduce il vizio ex art. 606 comma 1 lett. e cod. proc. pen. per contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione. Dopo avere contestato la tesi del giudicante in ordine alla configurabilità del reato ascritto, si evidenzia che, alla luce della legge regionale 10/2014 e della circostanza per cui, ai sensi dell'art. 2 della L. 157/92 la specie cinghiale non farebbe parte della fauna selvatica oggetto di tutela né rientrerebbe tra quelle particolarmente protette, laddove peraltro l'art. 17 della stessa legge affiderebbe alle Regioni la disciplina dell'allevamento di fauna selvatica, il giudice avrebbe dovuto tenere conto sul piano fattuale e psicologico del comportamento dell'imputato, improntato al rispetto della legge regionale quale applicazione della legge 157/92. Considerato in diritto 1. E' fondato il primo motivo di impugnazione, avendo il giudice erroneamente stabilito una durata di sospensione della esecuzione della pena per un periodo pari ad anni cinque, a fronte della condanna intervenuta per un reato di tipo contravvenzionale. In violazione, quindi, dell'art. 163 comma 1 prima parte cod. pen., secondo cui in tali casi la durata deve ritenersi pari a due anni. 2. E' manifestamente infondato il secondo motivo. Come si evince dalla lettura della sentenza, l'imputato, in assenza di originari elementi indiziari a suo carico ha risposto ad una sola iniziale domanda, sostenendo di essere il proprietario degli animali. Per poi invece proseguire, spontaneamente, nella illustrazione della personale cattura delle scrofe e della loro collocazione in apposito recinto, così rendendo per questa parte dichiarazioni espressamente e correttamente individuate dal giudice come utilizzabili secondo il rito prescelto. Si tratta infatti, quanto a queste ultime dichiarazioni, di affermazioni distinte dalla originaria domanda e come tali rese spontaneamente, così da essere pienamente utilizzabili. E' noto infatti che nel giudizio abbreviato sono utilizzabili a fini di prova le dichiarazioni spontanee rese dalla persona sottoposta alle indagini alla polizia giudiziaria, perchè l'art. 350, comma 7, cod. proc. pen. ne limita l'inutilizzabilità esclusivamente al dibattimento cfr. Sez. 5, n. 32015 del 15/03/2018 Rv. 273642 - 01 Carlucci . 3. Anche il terzo motivo è manifestamente infondato. Sono al riguardo corrette, innanzitutto, le motivazioni espresse dal giudice di merito. La suprema Corte ha già stabilito che i cinghiali rientrano nel generale divieto di detenzione di mammiferi che costituiscano pericolo per la salute o la pubblica incolumità, a meno che non si sia in possesso di una autorizzazione all'allevamento di fauna selvatica a scopo alimentare, di ripopolamento, ornamentale ed amatoriale rilasciata dalla regione ai sensi dell'art. 17 legge 11 febbraio 1992 n. 157 cfr. Sez. 3, n. 16674 del 20/02/2003 Rv. 224071 - 01 D'Andrea . Tanto discende dalle previsioni di cui all'art. 6 della legge 157/1990 e del DM 16 aprile 1996 all. B secondo tale allegato i cinghiali rientrano tra le specie animali che possono costituire pericolo per la salute e l'incolumità pubblica e per le quali è proibita la detenzione di cui alla generale citazione riportata nel suindicato art. 6. Inoltre, sempre secondo l'allegato B del predetto decreto, il genere sus scrofa, dei cinghiali, rientra tra le specie allevabili ai sensi dell'art. 17 della legge 157/92, e solo per tali animali, secondo l'art. 3 del DM 19/4/1996 citato, può sussistere l'esclusione del divieto di detenzione di cui al precedente art. 2, ove appartenenti ad allevamenti autorizzati ai sensi dell'art. 17 della legge 11 febbraio 1992, n. 157. Il giudice di legittimità ha anche precisato che il divieto di detenzione di animali che costituiscano pericolo per la salute o la pubblica incolumità prescinde da ogni valutazione sulla loro concreta nocività e sulle specifiche modalità della loro custodia cfr. Sez. 3, n. 26127 del 19/05/2005 Rv. 231999 - 01 Allegri . E' corretto anche il rilievo per cui la legislazione regionale non può costituire fonte diretta di norme penali, anche nella prospettiva della introduzione di fattispecie che rendano lecite una condotta penalmente sanzionata dall'ordinamento nazionale. Invero la giurisprudenza della Corte costituzionale ex multis, Corte cost., sent. n. 309 del 1990 è ferma nel ritenere che la fonte del potere punitivo risiede solo nella legislazione statale e le Regioni, anche nelle materie di loro competenza, non hanno la possibilità di comminare, rimuovere o variare con proprie leggi le pene previste nelle medesime materie dalla legislazione nazionale non possono cioè interferire negativamente con il sistema penale statale considerando pienamente lecita un'attività che, invece, è penalmente sanzionata nell'ordinamento dello Stato e neppure possono sostituire, in ordine ad un medesimo fatto, la sanzione penale, prevista dalla legge dello Stato e quindi valida ed efficace in tutto il territorio nazionale, con una sanzione amministrativa, valida ed efficace esclusivamente all'interno del territorio regionale cfr. in motivazione Sez. 3, n. 6584 del 23/11/2016 dep. 13/02/2017 Rv. 269155 - 01 Zanetti . A fronte di tale cornice normativa, si osserva che la censura proposta è inammissibile sotto plurimi profili. Innanzitutto è generica in quanto, da una parte, non specifica quale sia il passaggio motivazionale in cui si sarebbe concretizzato il ritenuto difetto di contraddittorietà e illogicità lamentato e, dall'altra, si dilunga, piuttosto, in critiche formulate sul piano giuridico, peraltro palesemente infondate, come sopra evidenziato. Per terminare in un altrettanto generica invocazione di buona fede, che attiene al piano della rivalutazione fattuale della vicenda, coerentemente inquadrata dal giudice di merito e come tale insindacabile in questa sede. 4. Sulla base delle considerazioni che precedono, consegue, ai sensi dell'art. 620 lett. L cod. proc. pen., l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata limitatamente alla durata di sospensione dell'esecuzione della pena condizionalmente sospesa. Da rideterminarsi in anni due. Il ricorso da dichiarato inammissibile nel resto. P.Q.M. annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla durata di sospensione dell'esecuzione della pena condizionalmente sospesa che ridetermina in anni due. Dichiara inammissibile nel resto il ricorso.