Nella determinazione del quantum della confisca per equivalente possono scomputarsi le somme che l’ente si è impegnato a versare

Nella decisione in commento la Corte di Cassazione si è occupata di definire i criteri di determinazione del quantum confiscabile a danno dei soggetti responsabili per i reati fiscali in ipotesi compiuti a vantaggio di una società.

Così la Corte di Cassazione, Sezione terza penale, con sentenza n. 29091/19 depositata il 3 luglio. Più precisamente si è domandato se nella determinazione del profitto” si dovesse tenere conto esclusivamente delle definizioni fiscali intervenute tra il contribuente la società e l’amministrazione finanziaria o comunque se tale definizione fiscale potesse in qualche modo essere considerata come elemento rilevante ai fini della determinazione del profitto” in questione e, dunque, dell’importo per equivalente confiscabile ai danni degli imputati. Il caso. Nella specie la società aveva, ex artt. 182- bis e 182- ter l.fall., definito un concordato fiscale indicando, ovviamente, l’importo dovuto. Il giudice di prima istanza, chiamato a definire il quantum sequestrabile in vista della confisca, aveva determinato il profitto” del reato e, dunque, le somme evase in una somma significativamente più alta rispetto a quella indicata nel concordato, ma aveva correttamente considerato che il concordato, prevedendo un versamento delle imposte in precedenza evase, non potesse ritenersi irrilevante e che dunque tali somme dovessero scomputarsi” al fine della determinazione del profitto. In sede di riesame, il tribunale aveva altresì riconosciuto che per talune annualità il concordato, essendo intervenuto prima della consumazione dei reati, impediva la sussistenza delle violazioni penali contestate tuttavia, diversamente dal giudice di prima istanza, aveva ritenuto che per la determinazione del profitto fosse irrilevante il quantum concordato in sede fiscale. La decisione. La Cassazione, nel definire il ricorso con annullamento senza rinvio, ha ovviamente avuto facile gioco nel cassare l’ordinanza del Tribunale della libertà, sia in ragione del fatto che si fosse operata una indebita reformatio in peiu s sia perché, data la capacità della società di far fronte al pagamento promesso, il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente può essere disposto solo quando all’esito di una valutazione allo stato degli atti sullo stato patrimoniale della persona giuridica, risulti impossibile il sequestro diretto del profitto del reato nei confronti dell’ente che ha tratto vantaggio dalla commissione del reato . Insomma, la confisca per equivalente è e rimane uno strumento efficace ma pur sempre residuale, che non può essere utilizzata per appropriarsi” di somme non dovute o comunque oltre misura. Ne discende che il concetto di profitto” va considerato non solo astrattamente ed in maniera fissa, ma concretamente e dinamicamente, in ragione degli sviluppi processuali e dei comportamenti che nel mentre le parti compiono. Del resto la legge dispone ragionevolmente che la confisca non opera per la parte che il contribuente si impegna a versare all’erario anche in presenza di sequestro” art. 12- bis d. lgs. n. 74/2000 . Dopo tutto, se è giusto impedire al reo il godimento del profitto del reato, non è bene che il reato costituisca un motivo di profitto” per lo Stato.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 4 aprile – 3 luglio 2019, n. 29091 Presidente Lapalorcia – Relatore Di Nicola Ritenuto in fatto 1. N.L. e S. ricorrono per cassazione avverso l’ordinanza con la quale il tribunale della libertà di Verbania, in parziale accoglimento dell’istanza di riesame avanzata dai ricorrenti, ha limitato il sequestro preventivo del profitto del reato, ovvero anche per equivalente, di altre somme, titoli, quote sociali o beni che fossero nella titolarità degli indagati sino alla concorrenza della somma di 901.392,36 Euro, per l’anno d’imposta 2014, laddove il sequestro - per il reato di cui al D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 10-bis - era stato disposto, anche in relazione ai periodi di imposta 2015 e 2016, per le ulteriori somme di 899.639,80 Euro e di 506.841,52 Euro. Ai ricorrenti era, infatti, contestato, in via provvisoria e cautelare, di avere, in qualità di componenti del Consiglio di Amministrazione N.S. , amministratore di fatto N.L. e soci N.S. e N.L. della Società N.R. S.p.A. , con altre persone per le quali si procedeva separatamente e in esecuzione di un medesimo disegno criminoso periodi d’imposta 2014, 2015 e 2016 , omesso il versamento entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta delle ritenute dovute sulla base delle stesse dichiarazioni per i periodi d’imposta 2014, 2015 e 2016, rispettivamente pari ad Euro 901.392,36 - Euro 899.639,80 ed Euro 506.841,32, pertanto, con riferimento alle singole annualità, per ammontare superiore ad Euro 150.000,00 soglia di punibilità . In omissis . 2. I ricorsi, articolati con un unico atto affidato al difensore di fiducia dei ricorrenti, sono sostenuti da tre, comuni, motivi, qui enunciati, ai sensi dell’art. 173 disp. att. c.p.p., nei limiti strettamente necessari per la motivazione. 2.1. Con il primo motivo i ricorrenti lamentano l’inosservanza e l’erronea applicazione della legge penale processuale in ordine all’inutilizzabilità di prove poste a fondamento della decisione nonché l’omessa motivazione in ordine alla ritenuta utilizzabilità di dette prove art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c ed e . Sostengono che il tribunale cautelare ha inammissibilmente ritenuto utilizzabile la attività istruttoria integrativa, del tipo informativo e di acquisizione documentale svolta dal Pubblico Ministero tra il primo decreto di sequestro annullato e il secondo provvedimento ablativo solo parzialmente annullato con l’ordinanza impugnata. Avendo la difesa, in sede di udienza di riesame, dedotto l’inutilizzabilità delle indagini in questione, il primo profilo della doglianza s’incentra sul fatto che, in proposito, la sollevata eccezione sia rimasta del tutto priva di risposta. I ricorrenti sottolineano come una pronuncia in merito all’utilizzabilità degli atti versati dal pubblico ministero non fosse eludibile nell’economia della vicenda processuale e, in ogni caso, non fosse eludibile nell’economia del ragionamento contenuto nel provvedimento impugnato, tanto alla luce del fatto che il materiale probatorio, del quale è stata ritenuta la novità, rappresenta, secondo la ratio decidendi, l’unico elemento che avrebbe consentito di superare il valore preclusivo di un precedente pronunciamento non impugnato del Tribunale di Verbania in relazione agli stessi fatti e alle medesime persone. Peraltro, sotto un secondo ed assorbente profilo circa l’inutilizzabilità dei risultati istruttori conseguiti, i ricorrenti osservano che la difesa aveva evidenziato come il pubblico ministero avesse formulato una articolata delega al Commissario Giudiziale chiedendogli di svolgere ulteriori accertamenti e come quest’ultimo, depositando una relazione, avesse evaso l’incombente che tuttavia il Pubblico Ministero non poteva delegargli, atteso che il commissario giudiziale non è nè ufficiale, nè agente di polizia giudiziaria e, stando alla ricostruzione d’accusa, nemmeno poteva essere più commissario liquidatore essendo intervenuta revoca dell’omologa da parte della Corte di appello di Torino, con provvedimento successivamente impugnato con ricorso per cassazione. 2.2. Con il secondo motivo i ricorrenti deducono l’inosservanza e l’erronea applicazione della legge penale processuale per la violazione del principio del ne bis in idem per essere maturata la preclusione a un nuovo pronunciamento, rebus sic stantibus, anche in fase cautelare a causa della medesimezza del compendio istruttorio posto a base del provvedimento impugnato, rispetto a quello emesso dallo stesso Tribunale con provvedimento 6 settembre 2018 art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c , in relazione all’art. 649 c.p.p. . I ricorrenti premettono che, nell’arco di tempo intercorso tra il mese di agosto ed il mese di dicembre 2018, il pubblico ministero aveva richiesto il sequestro a carico dei due indagati con provvedimenti sovrapponibili per motivi e per oggetto dell’intera somma oltre due milioni di Euro corrispondente alle ritenute non versate per le tre annualità in contestazione 2014 - 2015 e 2016 . Il giudice per le indagini preliminari, a sua volta, aveva emesso conformi decreti di sequestro ed il Tribunale di Verbania, in sede di riesame, aveva annullato integralmente i decreti ma il Pubblico Ministero richiedeva nuovamente il provvedimento cautelare verso gli stessi indagati e nell’ambito del medesimo procedimento ed il giudice per le indagini preliminari disponeva in conformità con provvedimento parzialmente confermato dal Tribunale di Verbania mediante l’ordinanza impugnata. Obiettano i ricorrenti che il materiale istruttorio versato tra il primo ed il secondo provvedimento ablativo non fosse tale da permettere di superare gli elementi posti alla base della prima decisione, con la conseguenza che il pronunciamento era precluso dal giudicato cautelare che si era, sul punto, formato. Questo perché, nel caso in esame, la relazione/s.i.t. del curatore e il materiale alla stessa allegato erano meramente ripetitivi di quanto già si trovava versato in atti, contenendo esclusivamente lo svolgimento di una tesi consistente nella natura truffaldina della proposta concordataria che sarebbe stata avanzata solo per non pagare, almeno in parte, le ritenute omesse, con la conseguenza che il materiale nuovo nulla avrebbe modificato rispetto agli elementi di prova in atti, cosicché il Tribunale non avrebbe dovuto esaminare nuovamente le questioni dedotte in assenza di elementi nuovi perché, semplicemente, le aveva già decise e, ove la parte pubblica non avesse condiviso l’approdo, avrebbe potuto impugnare la decisione, opzione, invece, non coltivata. 2.3. Con il terzo motivo, sviluppato sulla base di due specifici profili, i ricorrenti denunciano l’inosservanza e l’erronea applicazione della legge penale in relazione alla nozione di profitto del reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10-bis, in presenza di un concordato preventivo ammesso dal tribunale fallimentare art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b . 2.3.1. Sotto un primo profilo, i ricorrenti osservano che la società N.R. s.p.a. aveva presentato un piano concordatario - omologato dal Tribunale di Verbania ed oggetto di reclamo ad opera dell’Agenzia delle entrate avanti la Corte di appello di Torino, con pronuncia impugnata con ricorso per cassazione - che prevedeva il pagamento dell’intero debito erariale in ciò considerando sia il debito per Irpef come sostituto di imposta, sia il debito per Irap, sia il debito per imposte comunali falcidiato in misura da garantire il pagamento della percentuale del 38,1% del debito totale, in aderenza a quanto stabilito dalla L. Fall., art. 160, comma 2. Ciò posto, osservano che l’oggetto del sequestro preventivo impugnato coinciderebbe con l’ammontare totale delle ritenute non versate dalla società N.R. s.p.a. per l’anno di imposta 2014, con la conseguenza che l’ordinanza impugnata avrebbe erroneamente individuato l’oggetto del profitto del delitto di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10-bis quanto all’anno di imposta 2014 che solo rileva nella presente vicenda cautelare . Ad avviso dei ricorrenti, l’oggetto del profitto non poteva essere parametrato all’ammontare totale delle ritenute non versate per l’anno di imposta 2014, ma doveva essere stimato di importo minore, pari a non più del 38,1% dell’ammontare delle dette ritenute, posto che il profitto del delitto di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10-bis è stato oggetto di un procedimento giurisdizionale - il concordato preventivo - che, in ossequio alla legge fallimentare, aveva rideterminato l’ammontare del debito tributario, con efficacia rilevante per i terzi creditori, compreso l’Erario. Questa tesi fonda sul rilievo che la procedura concordataria non produce effetti giuridicamente rilevanti soltanto quanto alla neo individuazione del termine penalmente rilevante ciò che il Tribunale di Verbania, in ossequio alla giurisprudenza di legittimità, ha riconosciuto quanto agli anni di imposta 2015 e 2016 ma anche quanto alla quantificazione del debito o, dal lato del creditore, del credito tributario, che l’imprenditore commerciale sia chiamato a corrispondere. Quest’ultimo effetto sarebbe frutto delle modifiche recentemente introdotte nella legge fallimentare, che consentono anche di ridurre l’ammontare del debito tributario per ritenute. I ricorrenti richiamano, a questo proposito, il principio affermato nella sentenza n. 5640 del 2012 della Corte di cassazione, in tema di accertamento con adesione, nel quale è stato stabilito che qualora, attraverso il procedimento di accertamento con adesione, il contribuente pervenga, d’intesa con l’Agenzia delle entrate, ad una quantificazione dell’imposta in misura inferiore rispetto a quella della soglia di punibilità, non si realizza un effetto preclusivo nei confronti dell’accertamento giudiziale in sede penale che, infatti, non sarebbe formalmente consentito dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 20 , derivando tuttavia da ciò un principio di natura probatoria, in forza del quale il giudice penale è facoltizzato a superare la rinnovata quantificazione del debito tributario conseguente all’accertamento con adesione, ma soltanto qualora sia in possesso di elementi di fatto che consentano di non ritenere pienamente attendibile la quantificazione consolidata in seno al procedimento di accertamento con adesione. In caso contrario - qualora, cioè, il giudice penale non sia in possesso di fatti diversi ed ulteriori rispetto a quelli considerati nel procedimento di accertamento con adesione - la quantificazione emersa dal procedimento amministrativo dovrà essere utilizzata ed accolta anche nel procedimento penale. Richiamando altre pronunzie della giurisprudenza di legittimità, i ricorrenti sostengono che, in buona sostanza, deve ammettersi che il giudice penale ben possa, sulla scorta di elementi di fatto, discostarsi dalla quantificazione del profitto come risultante dalla conclusione di accordi conciliativi con l’Agenzia delle entrate, ma nell’esercizio di tale autonomo potere deve darne congrua motivazione perché, diversamente ragionando, si perverrebbe alla introduzione di una pregiudiziale tributaria non prevista nell’ordinamento giuridico. Sulla scorta di ciò, ribadito il principio della piena autonomia del processo penale per l’accertamento del reato tributario e per l’accertamento dell’ammontare dell’imposta evasa, in presenza di accordi conciliativi del contribuente con l’erario, il giudice penale deve considerare l’intervenuto accordo sull’ammontare dell’imposta evasa, come individuato in sede amministrativa, pur potendo discostarsi da esso ma, nel fare ciò, deve fornire una congrua motivazione. Logico corollario di tali affermazioni è che la fattispecie concreta può essere affrontata muovendo, con maggiore consapevolezza, da questo schema interpretativo che, secondo i ricorrenti, sarebbe, legittimato, anche sul piano dell’approccio letterale e sistematico, dal dettato del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 13, il quale allude alle speciali procedure conciliative e di adesione previste dalle norme tributarie. Nè si vede, allora, per quale motivo l’art. 182-ter della legge fallimentare non possa e non debba essere ritenuto, a tal fine, una norma tributaria , nel momento in cui la disposizione è volta a disciplinare il trattamento dei crediti tributari e contributivi nel concordato preventivo. Vere queste premesse, trattandosi del frutto dell’esegesi della relativa disciplina di riferimento, deve giungersi, ad avviso dei ricorrenti, alla conclusione che anche alla rideterminazione del credito tributario, nei casi disciplinati dalla L. Fall., art. 182-ter, debba riconoscersi la medesima efficacia probatoria dell’accertamento con adesione, quanto alla rideterminazione del quantum del debito tributario del quale debba essere onerato l’imprenditore-contribuente. Peraltro, lo stesso decreto di sequestro emesso dal giudice per le indagini preliminari prendeva le mosse dalla corretta nozione di profitto del reato tributario, laddove chiariva che l’oggetto del sequestro disposto a carico delle persone sottoposte alle indagini non riguardasse l’ammontare complessivo delle ritenute non versate negli anni di interesse 2014, 2015 e 2016 , ma soltanto quello che è stato definito lo stralcio-profitto del reato dal debito non pagato per ritenute d’acconto . In sostanza, l’importo totale del sequestro era stato determinato quale risultante della quota parte di ritenute non pagate, per ciascun anno di imposta, detratto quanto già compreso nel piano concordatario. Perciò, con specifico riferimento all’anno di imposta 2014, il debito totale sarebbe pari ad Euro 901.392,00 ma la quota - da pagarsi in ossequio al piano concordatario - è pari ad Euro 518.592,00 cosicché la quota da sequestrare doveva, fermo quanto in precedenza precisato, essere pari alla differenza fra l’ammontare totale delle ritenute non versate Euro 901.392,00 e la quota oggetto del piano concordatario Euro 518.592,00 , ossia pari ad Euro 382.800,00 e non pari all’intero ammontare 901.392,00 Euro , cosicché risulta, anche per questa via, dimostrato come il Tribunale di Verbania abbia erroneamente interpretato la nozione di profitto del reato di omesso versamento di ritenute certificate. 2.3.2. Sotto altro aspetto, riprendendo le argomentazioni da ultimo formulate, i ricorrenti deducono l’erronea applicazione del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 12-bis quanto alla ritenuta incapienza del patrimonio societario rispetto all’individuazione del profitto del reato considerato. Sostengono che l’ordinanza del Tribunale di Verbania si dimostra illegittima, in quanto, se non riformata, consentirebbe alla persona offesa di godere di un indebito arricchimento, di una duplicazione della pretesa, in quanto legittimerebbe il sequestro del totale delle ritenute non versate per l’anno 2014 Euro 901.392,00 e, in più, il pagamento della quota concordataria da pagare per le ritenute di quello stesso anno di imposta Euro 518.592,00 . Nel caso in esame, come evidenziato chiaramente dal decreto di sequestro originariamente impugnato, il vincolo si sarebbe dovuto dirigere non sul valore equivalente al complesso delle ritenute non versate negli anni di imposta considerati, ma soltanto sulla quota parte che era stata oggetto di falcidia nella procedura concordataria. Del tutto diversa è invece la decisione che è stata assunta dal Tribunale di Verbania che, abbandonando l’impostazione accusatoria recepita dal G.i.p., ha autonomamente rielaborato la primigenia contestazione, obliterando, però, la valenza della procedura concordataria sui reati di omesso versamento delle imposte, che pure era stata considerata sia dal P.M. nella richiesta, sia dal G.i.p. nel decreto di sequestro. Obiettano i ricorrenti che non sarebbe però consentito al Giudice del riesame modificare l’impostazione accusatoria recepita dal G.i.p., ma semplicemente convalidarla o meno, eventualmente integrando la motivazione del provvedimento impugnato. Conseguentemente, il Tribunale, erroneamente intendendo la nozione di profitto del reato, sarebbe incorso nell’erronea applicazione del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 12-bis, affermando l’incapienza del patrimonio della società N.R. s.p.a. a sostenere il peso del vincolo cautelare, laddove, allo stato degli atti, il patrimonio della società N.R. s.p.a. sarebbe sufficiente al soddisfacimento di tutti i crediti, fra i quali quelli erariali. I crediti erariali, dal canto loro, dovevano essere considerati nella dimensione risultante dalla loro falcidia e, quindi, per l’anno 2014, non nell’ammontare di Euro 901.392,00. 3. Questi ultimi due aspetti sono stati oggetto anche di motivi nuovi presentati con atto depositato in data 19 marzo 2019, evidenziandosi come la procedura concorsuale, avente natura giurisdizionale, sia pacificamente facoltizzata, consentendolo la legge, a rideterminare il debito del contribuente, con la conseguenza che il sequestro non può avere ad oggetto l’integralità del debito stesso come se non fosse intervenuta una sua rideterminazione in sede concordataria, dovendosi considerare che - rispetto alla somma di Euro 518.592,00 - sarebbe la stessa procedura concorsuale a garantire il futuro pagamento, con conseguente inconfigurabilità del periculum in mora. Ad identica conclusione, sebbene sulla base di percorso diverso, deve giungersi, secondo i ricorrenti, quanto alla quota residua di Euro 382.800,00 costituente la somma oggetto di falcidia e che quindi non sarà pagata ove il concordato giunga alla sua naturale conclusione, cosicché non può sussistere periculum in mora in relazione ad un importo che non è dovuto e non sarà dovuto in caso di esito positivo della procedura concorsuale. Considerato in diritto 1. I primi due motivi di ricorso sono infondati mentre è fondato, per quanto di ragione, il terzo motivo sulla base delle considerazioni che seguono. 2. Quanto al primo motivo di ricorso, occorre partire dal presupposto che il R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 165 stabilisce, rispettivamente al primo e all’ultimo comma, che, per quanto attiene all’esercizio delle sue funzioni, il commissario giudiziale è pubblico ufficiale e comunica senza ritardo al pubblico ministero i fatti che possono interessare ai fini delle indagini preliminari in sede penale e dei quali viene a conoscenza nello svolgimento delle sue funzioni. Ne consegue che il commissario giudiziale - in quanto organo che esercita funzioni di controllo e di consulenza, quale ausiliario del giudice, nonché di vigilanza sull’esecuzione del concordato - può essere legittimamente richiesto dal pubblico ministero di fornire, sia oralmente che per iscritto, tutte le informazioni riguardanti la procedura concordataria, fermo restando l’obbligo da parte sua di comunicare, senza alcuna necessità di specifica richiesta in proposito, i fatti che possano interessare ai fini delle indagini preliminari e dei quali sia venuto a conoscenza nello svolgimento delle sue funzioni. La doglianza sollevata dai ricorrenti è perciò destituita di fondamento perché, a prescindere dalle precedenti ed assorbenti considerazioni, la disciplina processuale è orientata al principio dell’atipicità degli atti di indagine, dovendo tanto il pubblico ministero, quanto la polizia giudiziaria, compiere, nell’ambito delle proprie attribuzioni, le indagini necessarie per le determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale argumenta artt. 55, 326, 348 e 358 c.p.p. , con la conseguenza che è legittima ogni attività del pubblico ministero art. 358 c.p.p. o della polizia giudiziaria art. 55 c.p.p. che non sia espressamente vietata dalla legge o invalida per violazione di norme la cui inosservanza sia sanzionata con la nullità. 3. Anche il secondo motivo non è fondato. La giurisprudenza di legittimità ha già affermato che il principio del ne bis in idem cautelare non è ostativo alla reiterazione o alla nuova emanazione del provvedimento di sequestro preventivo su beni in relazione ai quali il vincolo reale sia stato, secondo i casi, già disposto oppure negato, allorquando il nuovo decreto si fondi su una esigenza cautelare diversa da quella inizialmente ipotizzata oppure quando l’autorità procedente sia chiamata a valutare elementi precedentemente non esaminati Sez. 3, n. 24963 del 18/02/2015, Aprovitola, Rv. 264095 - 01 . La ratio dell’effetto preclusivo sta infatti nell’impedire che, immutate le condizioni legittimanti l’applicabilità o meno di una misura cautelare, vi sia una mera rivalutazione degli stessi elementi, dovendosi evitare, in assenza di un quid novi, che venga emessa una misura cautelare in precedenza negata o che venga revocata una misura cautelare in precedenza adottata, con la conseguenza che, in assenza di elementi di novità, non è consentito al pubblico ministero di richiedere, attraverso una rivalutazione degli stessi elementi, il sequestro e, per converso, non è consentito all’indagato di ottenere, senza un quid novi, la revoca di un vincolo in precedenza imposto. Perciò non ricorre, nel caso di specie, alcuna violazione del principio che regola la preclusione endoprocessuale, dal momento che il vincolo reale sul bene è stato richiesto ed adottato, come la stessa ordinanza impugnata dà atto pag. 2 , sulla base di elementi ontologicamente e cronologicamente nuovi ossia sulla base degli esiti contenuti nella relazione del commissario giudiziale del 3 ottobre 2018, evasa su richiesta di chiarimenti del pubblico ministero del 24 settembre 2018 e che i ricorrenti mirano apoditticamente a svalutare, omettendo di considerare che, in conseguenza di tale nuovo elemento, è stato ampliato il corredo processuale ed è stato colmato il vizio motivazionale incapienza o meno del patrimonio societario ai fini dell’adozione di un sequestro per equivalente che il Tribunale del riesame aveva posto a fondamento del primo annullamento del 6 settembre 2018 . 4. È invece fondato, per quanto di ragione, il terzo motivo. Il Tribunale del riesame ha correttamente condiviso l’orientamento espresso recentemente dalla giurisprudenza di legittimità in forza del quale, in tema di reati tributari, va esclusa la configurabilità del delitto di omesso versamento delle ritenute d’imposta dovute e certificate, in presenza di una transazione fiscale concordata ai sensi della L. Fall., art. 182-ter, ove omologata prima della consumazione del reato coincidente con la data di scadenza prevista per il versamento omesso Sez. 3, n. 39696 del 08/06/2018, Grifi, Rv. 273838 Sez. 4, n. 52542 del 17/10/2017, Marchionni, Rv. 271554 Sez. 3, n. 6591 del 26/10/2016, dep. 2017, Taccone, Rv. 269146 . Ha pertanto annullato il decreto di sequestro, quanto alle annualità 2015 e 2016, sul rilievo che il termine per il versamento delle somme all’erario era scaduto dopo l’ammissione della società al concordato preventivo. In relazione all’annualità 2014, per la quale il debito tributario era maturato entro il 21 settembre 2015, epoca antecedente alla richiesta di ammissione al concordato preventivo, il Tribunale ha invece ritenuto perfezionata la fattispecie di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10-bis, ricordando come, a differenza di quanto accaduto con i decreti di sequestro preventivo del 3 e 10 agosto 2018, la questione della incapienza del patrimonio societario fosse stata, con il decreto del 3 novembre 2018, sufficientemente argomentata e ciò a dimostrazione del novità della successiva iniziativa cautelare. Ciò posto, il tribunale, pur nella consapevolezza che il concordato preventivo fosse ancora sub iudice, ha osservato come il patrimonio della società, dato dal compendio immobiliare e dall’aumento di capitale, a fronte di una esposizione debitoria complessivamente maggiore nel caso di mancata conferma del concordato con le riduzioni di soddisfacimento ivi contemplate, fosse insufficiente recte parzialmente insufficiente al pagamento del debito maturato di Euro 901.392,00 imponendosi, pertanto, il sequestro per equivalente, ai fini cautelari, nei confronti degli amministratori, in quanto, all’esito di una valutazione allo stato degli atti sullo stato patrimoniale della persona giuridica, risultava impossibile il sequestro diretto del profitto del reato nei confronti dell’ente che aveva tratto vantaggio dalla commissione del reato. I ricorrenti, utilizzando come tertium comparationis l’accertamento per adesione, obiettano che il Tribunale avrebbe, nel caso di specie, erroneamente quantificato il profitto del reato tributario, perché avrebbe omesso di considerare che, con il concordato preventivo, si era giunti alla rideterminazione dell’obbligazione tributaria, sicché, nei casi disciplinati dalla L. Fall., art. 182-ter, si doveva riconoscere a tale rideterminazione la medesima efficacia probatoria dell’accertamento con adesione, rettificabile soltanto qualora il giudice penale fosse in possesso di elementi di fatto che consentissero di non ritenere pienamente attendibile la quantificazione consolidata in seno al procedimento di accertamento con adesione. Tanto più che lo stesso decreto di sequestro, emesso dal giudice per le indagini preliminari, prendeva le mosse dalla corretta nozione di profitto del reato tributario, laddove chiariva che l’oggetto del sequestro disposto a carico delle persone sottoposte alle indagini non riguardasse l’ammontare complessivo delle ritenute non versate negli anni di interesse 2014, 2015 e 2016 , ma soltanto quello che era stato definito lo stralcio-profitto del reato dal debito non pagato per ritenute d’acconto . In sostanza, l’importo totale del sequestro era stato determinato quale risultante della quota parte di ritenute non pagate, per ciascun anno di imposta, detratto quanto già compreso nel piano concordatario. Perciò, con specifico riferimento all’anno di imposta 2014, il debito totale sarebbe pari ad Euro 901.392,00 ma la quota - da pagarsi in ossequio al piano concordatario - era stata determinata in Euro 518.592,00 cosicché la quota da sequestrare doveva essere pari alla differenza fra l’ammontare totale delle ritenute non versate Euro 901.392,00 e la quota oggetto del piano concordatario Euro 518.592,00 , ossia pari ad Euro 382.800,00 e non pari all’intero ammontare 901.392,00 Euro , risultando, anche per questa via, dimostrata, ad avviso dei ricorrenti, l’erronea interpretazione della nozione di profitto del reato di omesso versamento di ritenute certificate. Osserva il Collegio come la doglianza diretta a delineare una nozione del profitto del reato tributario completamente accessoria rispetto alle procedure concorsuali o a quelle di accertamento tributario sia del tutto non condivisibile. Il profitto del reato tributario, confiscabile anche nella forma per equivalente, è costituito, nei casi di omesso versamento di imposte, di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10-bis, dal risparmio di spesa derivante dal mancato pagamento del tributo, interessi e sanzioni v. Sez. U, n. 18374 del 31/01/2013, Adami, Rv. 255036 - 01 . Perciò il compito di accertare l’ammontare dell’imposta evasa è rimesso al giudice penale, al quale spetta di compiere una verifica che, privilegiando il dato fattuale reale rispetto ai criteri di natura meramente formale che caratterizzano l’ordinamento fiscale, può sovrapporsi ed anche entrare in contraddizione con quella eventualmente effettuata in sede amministrativa o dinanzi al giudice tributario v. Sez. 3, n. 38684 del 04/06/2014, Agresti, Rv. 260389 - 01 . Ne consegue che il giudice penale non è vincolato, nella determinazione del profitto confiscabile, all’imposta risultante a seguito dell’accertamento con adesione o del concordato fiscale tra l’amministrazione finanziaria ed il contribuente, anche se, per potersi discostare dal dato quantitativo convenzionalmente accertato e tener invece conto dell’iniziale pretesa tributaria dell’erario, occorre che risultino concreti elementi di fatto che rendano maggiormente attendibile l’iniziale quantificazione dell’imposta dovuta Sez. 3, n. 5640 del 02/12/2011, dep. 2012, Manco, Rv. 251892 - 01 . Siffatta situazione è comunque estranea alla procedura disciplinata dalla L. Fall., art. 182-ter sul fondamentale rilievo che detta procedura deve essere esperita ogniqualvolta si intenda proporre il pagamento ridotto o dilazionato dei debiti tributari, inclusi quelli relativi all’IVA e alle ritenute. In altri termini, l’imprenditore in stato di crisi o di insolvenza che intenda definire, d’intesa con le agenzie fiscali, il trattamento dei crediti tributari deve farlo attraverso la domanda di concordato preventivo o nell’ambito delle trattative che precedono la stipula dell’accordo di ristrutturazione di cui alla L. Fall., art. 182-bis, seguendo la procedura dettata dall’art. 182-ter, in forza della quale, nell’ambito del piano di concordato preventivo di cui alla L. Fall., art. 160, il debitore può proporre il pagamento, parziale o dilazionato, dei tributi e dei relativi accessori esclusivamente mediante proposta presentata ai sensi del presente articolo ovvero il debitore può effettuare la proposta di cui al comma 1 anche nell’ambito delle trattative che precedono la stipulazione dell’accordo di ristrutturazione di cui all’art. 182-bis . Da ciò deriva che il profitto confiscabile in relazione al reato di omesso versamento delle ritenute per l’anno di imposta 2014 è pari ad Euro 901.392,00 e la somma di Euro 518.592,00 costituisce esclusivamente la quota oggetto del piano concordatario. Sotto tale aspetto, il motivo di ricorso non è fondato. Tuttavia i ricorrenti, con fondamento, reclamano che la somma da sequestrare doveva essere pari ad Euro 382.800,00 ossia alla differenza fra l’ammontare totale delle ritenute non versate Euro 901.392,00 e la somma Euro 518.592,00 costituente la quota oggetto, appunto, del piano concordatario. In effetti, una volta che la società aveva trattato il credito tributario in sede di piano concordatario, impegnandosi ad un pagamento parziale di 518.592,00 Euro somma della quale non è controversa la disponibilità in capo alla società, la quale aveva beneficiato del profitto del reato tributario ossia del risparmio di spesa derivato direttamente dal mancato versamento delle ritenute per l’anno d’imposta 2014 , il sequestro per equivalente nei confronti degli indagati, persone fisiche, doveva tenere necessariamente conto di tale somma ed essere disposto per la differenza, ossia per una somma pari a 382.800,00 Euro e non corrispondente invece all’intero ammontare di 901.392,00 Euro. Sul punto, lo stesso Tribunale si è mostrato avvertito del principio affermato dalla giurisprudenza di legittimità, ma in concreto assertivamente disatteso, secondo il quale, in caso di reati tributari commessi dall’amministratore di una società, il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente può essere disposto, nei confronti dello stesso, solo quando, all’esito di una valutazione allo stato degli atti sullo stato patrimoniale della persona giuridica, risulti impossibile il sequestro diretto del profitto del reato nei confronti dell’ente che ha tratto vantaggio dalla commissione del reato Sez. 4, n. 10418 del 24/01/2018, Rubino, Rv. 272238 - 01 Sez. 3, n. 43816 del 01/12/2016, dep. 22/09/2017, Di Florio, Rv. 271254 - 01 Sez. 3, n. 35330 del 21/06/2016, Nardelli, Rv. 267649 - 01 Sez. 3, n. 41073 del 30/09/2015, Scognamiglio, Rv. 265028 - 01 Sez. 3, n. 1738 del 11/11/2014, dep. 2015, Bartolini, Rv. 261929 - 01 . Inoltre, a prescindere dall’esito definitivo del procedimento di concordato la Corte d’appello di Torino, per come risulta dagli atti allegati al ricorso e dal testo dell’ordinanza impugnata, aveva revocato il decreto di omologa del concordato preventivo e il provvedimento era stato gravato con ricorso per cassazione , il decreto di sequestro preventivo, emesso dal giudice per le indagini preliminari, aveva disposto, per l’anno d’imposta 2014, il sequestro, anche per equivalente, nei confronti dei ricorrenti soltanto della somma di 382.800,00 Euro pag. 23 del decreto , con la conseguenza che l’ordinanza impugnata, pur avendo ridotto, nell’importo, la somma oggetto del vincolo per effetto della ritenuta insussistenza del fumus criminis in ordine agli anni d’imposta 2015 e 2016 ma disponendo nel contempo il sequestro sino alla concorrenza della somma di 901.392,36 Euro somma oggetto di specifica impugnazione sul punto , ha determinato, rispetto alla pronuncia impugnata con il riesame, anche una reformatio in peius . L’art. 309 c.p.p., comma 9, richiamato dall’art. 324 c.p.p., comma 7, chiarisce infatti che il provvedimento gravato con l’istanza di riesame può essere riformato solo in senso favorevole per l’impugnante, a conferma che, quando ricorre, come nella specie, il solo imputato o indagato, il divieto di reformatio in peius costituisce principio di portata generale e si applica anche in materia di riesame di provvedimenti cautelari reali v. Sez. 1, n. 1805 del 27/04/1993, Zazza, Rv. 195647 - 01 per analogo principio affermato in tema di cautele personali . 5. Sulla base delle considerazioni che precedono, ritiene il Collegio che l’ordinanza impugnata vada annullata senza rinvio limitatamente all’ammontare del sequestro per equivalente emesso nei confronti dei ricorrenti, sequestro che deve essere perciò rideterminato in 382.800,00 Euro. Il ricorso va conseguentemente rigettato nel resto. P.Q.M. Annulla senza rinvio l’ordinanza impugnata limitatamente all’ammontare del sequestro che ridetermina in 382.800,00 Euro. Rigetta nel resto il ricorso. Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 626 c.p.p