Niente domiciliari per il detenuto obeso

Confermato il carcere, nonostante i problemi di salute lamentati dall’uomo. Per i Giudici è evidente l’afflizione aggiuntiva da lui subita, ma ciò non è sufficiente a considerare il trattamento penitenziario disumano.

Carcere confermato per il detenuto in condizione di obesità. Respinta legittimamente, secondo i giudici, la sua richiesta di vedersi riconosciuta la detenzione domiciliare alla luce del precario stato di salute. Sia chiaro, è evidente la “sofferenza aggiuntiva” sopportata dall’uomo che è costretto in carcere e soffre di obesità, ma, secondo i giudici, questo dato non rende il trattamento penitenziario disumano Cassazione, sentenza numero 28536/19, sez. I Penale, depositata oggi Salute. A ‘marchiare’ la prima tappa della vicenda giudiziaria è il pronunciamento del Tribunale di sorveglianza, pronunciamento con cui viene respinta «l’istanza presentata da un detenuto e finalizzata ad ottenere la misura alternativa della detenzione domiciliare». Decisiva per il giudice è l’esame delle «relazioni sanitarie», da cui non emerge una condizione di incompatibilità tra «le condizioni di salute» dell’uomo – affetto da obesità – e «il regime carcerario». Identica visione viene adottata dai giudici della Cassazione, che respingono definitivamente l’ipotesi della «detenzione domiciliare». Irrilevante la relazione presentata dal consulente di parte e centrata soprattutto sulla «condizione di obesità del detenuto». Per il legale questa documentazione dimostra che il problema di salute dell’uomo «genera a suo carico una afflizione ulteriore, non necessaria ed aggiuntiva, che rende il trattamento penitenziario contrario al senso di umanità». Questa osservazione viene respinta dai magistrati del ‘Palazzaccio’, i quali riconoscono sì «un profilo di sofferenza aggiuntiva» per il detenuto affetto da una condizione di obesità, ma aggiungono che «ciò non può valere a fare del trattamento in carcere una espiazione» disumana. Di conseguenza, va respinta la richiesta di ottenere una misura meno gravosa, ossia la «detenzione domiciliare». Tirando le somme, per i Giudici «la condizione di obesità» non rende il carcere «non conforme al senso di umanità», anche perché «la sofferenza aggiuntiva è comunque inevitabile ogni qualvolta la pena debba essere eseguita nei confronti di soggetto che», come in questa vicenda, «non risulti in perfette condizioni di salute». Fondamentale perciò è che «l’espiazione, in rapporto alla gravità delle condizioni cliniche» del detenuto, non superi «i limiti dell’umana tollerabilità».

Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 17 gennaio – 1 luglio 2019, numero 28536 Presidente Bonito – Relatore Cairo Ritenuto in fatto 1. Il Tribunale di sorveglianza di Milano con l'ordinanza in epigrafe ha respinto l'istanza presentata nell'interesse di Fa. Anumero , finalizzata a ottenere la misura alternativa della detenzione domiciliare. Rilevava come dall'esame delle relazioni sanitarie non emergesse una condizione di compatibilità tra le condizioni di salute del Fa. e il regime carcerario in atto. 2. Ricorre per cassazione Fa. Anumero , a mezzo del suo difensore di fiducia, e lamenta che il Tribunale non aveva compiuto una approfondita valutazione dello stato di salute, né si era premurato di eseguire un bilanciamento tra la tutela dell'anzidetto diritto alla salute e la salvaguardia delle esigenze di difesa sociale e della collettività. L'ordinanza del Tribunale di sorveglianza, poi, si era limitata semplicemente a richiamare le relazioni dell'istituto e non aveva spiegato le ragioni per le quali non avesse inteso procedere ad una perizia. 3. Il ricorso è manifestamente infondato e deve essere dichiarato inammissibile. Il Tribunale di sorveglianza ha dato atto di quanto emergeva dalle relazioni sanitarie ed ha spiegato che non si evinceva una condizione di incompatibilità tra la situazione clinica del detenuto e la sua restrizione carceraria. In questa logica si è, appunto, evidenziato come pur a fronte di talune patologie le condizioni cliniche dell'interessato non subissero pregiudizio per il protrarsi del regime carcerario. Questa Corte ha avuto modo di spiegare anche in altre occasioni che ai fini del differimento facoltativo dell'esecuzione della pena per infermità fisica, il grave stato di salute va inteso come patologia implicante un serio pericolo per la vita o la probabilità di altre rilevanti conseguenze dannose, eliminabili o procrastinabili con cure o trattamenti tali da non poter essere praticati in regime di detenzione inframuraria, neppure mediante ricovero in ospedali civili o in altri luoghi esterni di cura ai sensi dell'articolo 11 della legge 26 luglio 1975 numero 354 Sez. 1, numero 37216 del 05/03/2014, Carfora, Rv. 260780 in senso non diverso, in tema di differimento facoltativo dell'esecuzione della pena, Sez. 1, numero 26540 del 04/07/2016 c.c. dep. 2017 , Rv. 270269 . Nella specie si è osservato che le risultanze delle relazioni sanitarie non erano confutate dalla relazione di consulenza di parte che si era, piuttosto, soffermata sulla condizione di obesità del detenuto che, secondo il ricorrente, avrebbe generato a suo carico una afflizione ulteriore non necessaria ed aggiuntiva che rendeva il trattamento penitenziario contrario al senso di umanità. Contrariamente si è annotato come, pur enucleandosi indubbiamente un profilo di sofferenza aggiuntiva nei confronti del detenuto in condizioni di salute particolari, come quelle indotte da una condizione di obesità, ciò non valeva a fare del relativo trattamento in essere una espiazione contraria al senso di umanità. Questa Corte ha spiegato che la sofferenza aggiuntiva è, comunque, inevitabile ogni qual volta la pena debba essere eseguita nei confronti di soggetto che non risulti in perfette condizioni di salute. L'espiazione può, tuttavia, assumere rilievo solo quando si appalesi, presumibilmente, di entità tale in rapporto appunto alla particolare gravità delle condizioni cliniche da superare i limiti dell'umana tollerabilità Sez. 1, numero 5949 del 28/10/1999, Rv. 214590 in senso analogo, Sez. 1, numero 3262 del 01/12/2015 c.c. dep. 2016 , Rv. 265722 . In questa logica, dunque, si è ritenuto di non disporre perizia, poiché non si trattava di verificare la consistenza obiettiva di un quadro clinico, su cui al contrario concordavano le diverse relazioni, ma di verificare, con un giudizio in fatto, se quelle condizioni fossero o meno compatibili con il regime in atto e se la enunciata condizione di obesità fosse tale da rendere il trattamento non conforme al senso di umanità. Alla luce di quanto premesso il ricorso deve essere dichiarato inammissibile. Segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di Euro tremila alla cassa delle ammende non ricorrendo ipotesi di esonero. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della cassa delle ammende.