Sorveglianza speciale, restrizione territoriale e pericolosità generica

Ai fini dell’applicazione delle misure di prevenzione ai cosiddetti pericolosi generici, occorre che l’attività del proposto sia qualificata come delitto e non come un qualsiasi illecito e che essa sia abituale e non episodica.

Sul tema torna ad esprimersi la Corte di Cassazione con sentenza n. 27854/19, depositata il 24 giugno. La vicenda. La Corte d’Appello confermava la decisione di primo grado che aveva disposto nei confronti del prevenuto la misura di prevenzione della sorveglianza speciale, con obbligo di soggiorno nel comune di residenza per 2 anni per numerose condanne per reati in tema di cessione di stupefacenti e reati contro il patrimonio. Il difensore del prevenuto ricorre in Cassazione avverso la decisione della Corte territoriale denunciando violazione di legge, in particolare dell’art. 6, comma 3, d.lgs. n. 159/2011 testo unico in materia di misure di prevenzione e antimafia per l’inconciliabilità della restrizione territoriale imposta con lo stato nomade del prevenuto. La pericolosità generica e l’applicazione delle misure di prevenzione. È proprio con riferimento al contenuto della fattispecie di pericolosità generica che la Suprema Corte ribadisce che essa deve essere apprezzata nel suo prevedibile significato, poiché alla base della verifica deve esserci il riscontro di condotte sussumibili in fattispecie corrispondenti a delitti e il riscontro del carattere non episodico di tali condotte, in modo che il profilo sintomatico desumibile da esse possa essere correlato alla configurazione di traffici delittuosi. Tale principio non solo ha trovato conferma anche nella Corte Costituzionale, la quale ha precisato che sono costituzionalmente legittime le misure di prevenzione dei soggetti cosiddetti pericolosi generici che per la condotta e il tenore di vita deve ritenersi vivano abitualmente con i proventi di attività delittuose, ma è stato anche correttamente applicato nel caso in esame dalla Corte di merito. Per tali ragioni il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.

Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 22 marzo -24 giugno 2019, n. 27854 Presidente Cervadoro – Relatore Perrotti Ritenuto in fatto 1. Con il provvedimento impugnato, la Corte di appello di Milano ha confermato il decreto emesso il 4 maggio 2018 dal tribunale di Pavia con cui era stata disposta, nei confronti di M.M. , la misura di prevenzione della sorveglianza speciale, con obbligo di soggiorno nel comune di residenza, per la durata di due anni. 1.1. A carico del prevenuto la Corte della revisione ed il Tribunale di prima istanza hanno valorizzato la ricorrenza di numerose condanne per reati in tema di cessione di stupefacenti, e reati contro il patrimonio, intervenute dal 1997 al 2015, oltre alle contravvenzioni al foglio di via obbligatorio, alla inanità sortita dagli avvisi orali del Questore emessi nel 2000 e nel 2008, alla abituale frequentazione di pregiudicati ed alla sorte infausta del tentativo di recupero sociale in comunità terapeutica e, da ultimo, all’assenza di fissa dimora. Circostanze di fatto che, complessivamente considerate, hanno indotto a ritenere che il ricorrente sia abitualmente dedito a traffici delittuosi, dai cui proventi trae, almeno in parte, abituale sostentamento. 1.2. La Corte ha altresì valorizzato lo stato nomade del prevenuto per rigettare il motivo di gravame proposto dalla difesa teso alla revoca della restrizione territoriale imposta. L’obbligo di fissare la propria dimora in un determinato comune potrebbe infatti sortire, ad avviso della Corte, effetti risocializzanti e responsabilizzanti, potenzialmente idonei ad arginare la spinta verso il crimine produttivo di reddito illecito ed indurre invece il prevenuto alla ricerca di un lavoro stabile. 2. Avverso tale provvedimento ha proposto ricorso per cassazione il difensore del M. , articolando due motivi di ricorso, con i quali lamenta 2.1. violazione di legge D.Lgs. n. 159 del 2011, art. 6, comma 3, Testo Unico in materia di misure di prevenzione e antimafia per la ontologica inconciliabilità della restrizione territoriale imposta con lo stato nomade del prevenuto, attestato anche dalle annotazioni dei c.c. allegate ai motivi di ricorso 2.2. carenza e/o illogicità della motivazione, per non aver indicato la Corte la assoluta necessità di applicazione della restrizione territoriale in ragione della inidoneità delle altre misure di prevenzione alla tutela della sicurezza pubblica. 3. Il Procuratore generale presso questa Corte, in data 4 febbraio 2009, ha depositato conclusioni scritte ed ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso. Considerato in diritto 1. In tema di ricorso per cassazione - avverso le decisioni in tema di prevenzione - è l’art. 10, comma 3, del citato T.U., a prevedere che il ricorso è ammesso per sola violazione di legge, con esclusione dei vizi di contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione. Da tale assetto normativo, per costante orientamento di questa Corte, deriva che è sindacabile in sede di legittimità la sola mancanza del percorso giustificativo della decisione, nel senso di redazione di un testo del tutto privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e logicità motivazione apparente o di un testo del tutto inidoneo a far comprendere l’itinerario logico seguito dal giudice tra le altre, Sez. 1, 26.2.2009, Rv. 242887 . In tali casi, infatti, non è la congruità logica delle singole affermazioni probatorie ad essere valutata, quanto la mancata osservanza del generale obbligo di motivazione imposto dall’art. 125, comma 3, del codice di rito Sez. 5, n. 19598, del 8.4.2010, Rv. 247514 . Mentre nel caso qui in esame la Corte territoriale ha congruamente motivato la scelta operata in tema di condotte qualificanti la pericolosità sociale attuale, per indirizzarle nel paradigma normativo di settore e tale percorso giustificativo non risulta sindacabile nella presente sede di legittimità. 1.1. Come più volte ha osservato questa Corte Sez. U, n. 13426 del 25/03/2010, Cagnazzo, Rv. 246271 e Sez. 1, n. 31209 del 24/03/2015, Scagliarini, Rv. 264321 gli elementi di fatto evocati dalla norma, offrono il destro per un’analisi dettagliata delle modalità e dei termini con cui il giudice della prevenzione può attingere alle acquisizioni probatorie del procedimento penale, delimitando l’ambito del suo potere discrezionale. È, inoltre, possibile ricostruire il contenuto delle fattispecie di pericolosità previste dal D.Lgs. n. 159 del 2011, art. 1, lett. b , con riferimento alla realizzazione abituale o, comunque, non episodica di delitti fonte di illeciti arricchimenti destinati al mantenimento del proposto. Deve conclusivamente ritenersi che, in base alla più corretta interpretazione della disciplina vigente, la figura di pericolosità generica art. 1, lett. b , fatta salva dalla recente censura costituzionale sent. n. 24/2019 deve essere apprezzata nel suo prevedibile significato e non in relazione ad un’indecifrabile connotazione soggettiva, giacché alla base della verifica deve pur sempre esserci il riscontro di condotte sussumibili in fattispecie corrispondenti a delitti e l’ulteriore riscontro del carattere non episodico di tali condotte, in modo che il profilo sintomatico da esse desumibile possa essere con nitidezza correlato alla configurazione di traffici delittuosi i cui proventi siano destinati, almeno in parte, alla diretta fruizione da parte del soggetto per le sue esigenze di vita. Tali principi hanno trovato conferma nella recente pronuncia della Corte costituzionale, appena sopra indicata, nella quale si è precisato che sono costituzionalmente legittime le misure di prevenzione dei cd. pericolosi generici che per la condotta ed il tenore di vita deve ritenersi, sulla base di elementi di fatto, vivano abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose D.Lgs. n. 159 del 2011, art. 1, lett. b , e art. 4, lett. c . Valorizzando per tal via la lettura tassativizzante offerta da tempo dalla Corte di cassazione, che consente di riconoscere la prevedibilità richiesta dalla Corte EDU. La richiesta prevedibilità può infatti essere soddisfatta anche sulla base dell’interpretazione, fornita da una giurisprudenza costante e uniforme, di disposizioni legislative pure caratterizzate dall’uso di clausole generali, o comunque da formule connotate in origine da un certo grado di imprecisione. La Corte costituzionale indica pertanto i criteri che rendono tassativizzante la categoria di pericolosità in esame. Occorre che l’attività del proposto debba qualificarsi come delitto e non come un qualsiasi illecito. L’avverbio abitualmente richiede una realizzazione di attività delittuose non episodica, ma almeno caratterizzante un significativo intervallo temporale della vita del proposto, in modo che si possa attribuire al soggetto proposto una pluralità di condotte passate, talora richiedendosi che esse connotino in modo significativo lo stile di vita del soggetto, che quindi si deve caratterizzare quale individuo che abbia consapevolmente scelto il crimine come pratica comune di vita per periodi adeguati o comunque significativi in questi precisi termini già Sez. 2, n. 11846, del 19 gennaio 2018 . Occorre ancora la realizzazione di attività delittuose che siano produttive di reddito illecito e dalle quale sia scaturita un’effettiva derivazione di profitti illeciti e tale accertamento va effettuato sulla base di elementi di fatto , fatti accertati non meri indizi, relativi alla pericolosità qualificata . 2. Di tali principi la Corte territoriale ha fatto prudente e corretto uso, giustificando la restrizione territoriale giustapposta alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale proprio in ragione della necessità di imporre al prevenuto di stabilizzarsi sul territorio al fine di arginare la spinta criminosa e favorire l’accesso al lavoro lecito e stabile. Senza che sia riscontrabile nel provvedimento impugnato veruna violazione della legge che disciplina la materia della prevenzione. 3. Consegue la pronuncia di inammissibilità del ricorso. 4. Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso consegue di diritto la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, in mancanza di elementi atti ad escludere la colpa nella determinazione della causa di inammissibilità Corte Cost., sent. n. 186 del 2000 , al versamento a favore della Cassa delle ammende di sanzione pecuniaria, che pare congruo determinare in Euro duemila, ai sensi dell’art. 616 c.p.p P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila in favore della Cassa delle ammende.