La sostituzione della marca da bollo sul certificato richiesto dal privato non vale una condanna

Funzionaria di cancelleria sostituisce le marche da bollo, consegnatele dai richiedenti il rilascio dei certificati del casellario giudiziale, con altre di importo inferiore. Non trattandosi di atti pubblici, annullata la sentenza di condanna per il reato di cui all’art. 490 c.p., perché il fatto non sussiste.

Sul punto si è espressa la Suprema Corte di Cassazione con sentenza n. 27708/19, depositata il 21 giugno. Il caso. La ricorrente, imputata di diverse condotte di peculato perché, in qualità di cancelliere in servizio presso la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Pistoia, avendo, per ragioni del suo ufficio, la disponibilità delle marche da bollo da 14,62 euro consegnatele dai soggetti richiedenti il rilascio dei certificati generali del casellario giudiziale, se ne appropriava, sostituendole con altre di importo inferiore, sulle quali, per impedire la lettura dell’importo, apponeva il timbro circolare dell’Ufficio cosicché la relativa impronta coincidesse al citato importo, giunge in Cassazione. In particolare, la ricorrente denuncia violazione dell’art. 490 c.p. in relazione alla qualificazione giuridica della richiesta di rilascio del certificato generale del casellario giudiziale o dei carichi pendenti, che non possono essere considerati atti pubblici ma mere scritture private, sicché la loro soppressione non è più prevista dalla legge come reato. Annullo della marca da bollo. Per la Suprema Corte tale motivo di ricorso è fondato, partendo dal presupposto che la semplice apposizione del timbro dell’ufficio, senza ulteriore annotazione o sottoscrizione da parte del pubblico ufficiale, sopra la marca da bollo posta sulla richiesta del privato, ossia su un atto redatto unicamente dal richiedente senza assistenza del pubblico ufficiale, non ha di per sé funzione certificativa della regolarità dell’istanza ma quella di annullo della marca da bollo. A ciò consegue che il suddetto documento costituisce una scrittura privata a tutti gli effetti, la cui soppressione non è più penalmente rilevante, dopo le modifiche apportate dall’art. 2 d.lgs. n. 7/2016 al comma 1 dell’art. 490 c.p Dunque, i Giudici di legittimità annullano senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente al reato di cui all’art. 490 c.p. perché il fatto non sussiste.

Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 3 aprile – 21 giugno 2019, n. 27708 Presidente Paoloni – Relatore Mogini Ritenuto in fatto 1. Il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di appello di Firenze e, per mezzo del suo difensore di fiducia, G.E. ricorrono avverso la sentenza in epigrafe, con la quale la Corte di appello di Firenze - in parziale riforma di quella di primo grado che aveva condannato la ricorrente per i contestati delitti di peculato continuato e di falso per soppressione alla pena di cinque anni di reclusione e alla interdizione perpetua dai pubblici uffici - ha, concesse alla G. le attenuanti generiche, rideterminato la pena in anni tre di reclusione e, revocata la pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici, ha applicato l’interdizione temporanea dai pubblici uffici, nonché, in accoglimento dell’appello del pubblico ministero, la pena accessoria dell’estinzione del rapporto di lavoro o di impiego di cui all’art. 32 quinquies c.p La ricorrente è imputata di plurime condotte di peculato perché, in qualità di cancelliere in servizio presso la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Pistoia, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, avendo, per ragioni del suo ufficio, la disponibilità delle marche da bollo da Euro 14,62 ciascuna consegnatele dai soggetti richiedenti il rilascio dei certificati generali del casellario giudiziale, se ne appropriava, sostituendole su detto certificato con altre di importo inferiore, sulle quali, per impedire la lettura del relativo importo, apponeva il timbro circolare dell’Ufficio in modo che la relativa impronta corrispondesse al citato importo capi da 1 a 4 e capo 6 . In due casi, descritti al capo 5, la Regini è stata anche imputata del reato di cui all’art. 61 c.p., n. 2, artt. 81 e 490 c.p. perché avrebbe staccato da due richieste di certificato del casellario giudiziale giacenti in archivio, che poi sopprimeva, le marche da 3,54 Euro necessarie per commettere due delle condotte di peculato di cui al capo 4. 2. G.E. deduce i seguenti motivi di ricorso. 2.1. Violazione degli artt. 314 e 640 c.p. e vizi di motivazione con riferimento alla qualificazione delle condotte di cui ai capi da 1 a 4 e 6 come peculato, anziché come truffa, posto che nei casi in esame l’impossessamento delle marche da bollo conseguiva agli artifici e raggiri coi quali la ricorrente rinviava la consegna del certificato richiesto, che avrebbe potuto avvenire in pochi attimi, ad un momento successivo, così ottenendo dagli interessati la consegna delle marche da bollo che avrebbero dovuto essere apposte sugli stessi certificati. 2.2. Violazione dell’art. 490 c.p. e vizi di motivazione in relazione alla qualificazione giuridica della richiesta di rilascio del certificato generale del casellario giudiziale o dei carichi pendenti, che non possono essere ritenute atti pubblici, bensì mere scritture private, sicché la loro soppressione non è più prevista dalla legge come reato. Il reato, poi, si sarebbe in ogni caso prescritto, come indicato nella stessa sentenza impugnata, il 28/9/2018. 2.3. Violazione dell’art. 323 bis c.p. e art. 62 c.p., n. 4 e vizi di motivazione in relazione al mancato riconoscimento delle relative attenuanti, poiché l’indebita appropriazione delle marche da bollo non ha comportato danno al buon andamento della pubblica amministrazione e allo Stato, bensì ai privati che quelle marche da bollo avevano regolarmente acquistato. 3. Il Procuratore Generale ricorrente deduce inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 29 e 317 bis c.p. perché, essendo la G. stata condannata per il delitto di peculato alla pena di anni tre di reclusione, essa avrebbe dovuto essere condannata alla pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Considerato in diritto 1. Il ricorso proposto nell’interesse di G.E. è fondato, nei limiti e termini di seguito indicati. 1.1. Il primo motivo di ricorso è manifestamente infondato e meramente reiterativo di analoga censura in fatto, alla quale la sentenza impugnata ha già offerto idonea risposta. L’elemento distintivo tra il delitto di peculato e quello di truffa aggravata, ai sensi dell’art. 61 c.p., n. 9, va individuato infatti con riferimento alle modalità del possesso del denaro o di altra cosa mobile altrui oggetto di appropriazione, ricorrendo la prima figura quando il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio se ne appropri avendone già il possesso o comunque la disponibilità per ragione del suo ufficio o servizio, e ravvisandosi invece la seconda ipotesi quando il soggetto attivo, non avendo tale possesso, se lo procuri fraudolentemente, facendo ricorso ad artifici o raggiri per appropriarsi del bene Sez. 6, n. 46799 del 20/06/2018, Pieretti, Rv. 274282 Sez. 6, n. 35852 del 06/05/2008, Savorgnano, Rv. 241186 . Orbene, come correttamente chiarito nel provvedimento in esame, il possesso da parte della ricorrente delle marche da bollo oggetto di appropriazione è conseguito alla normale presentazione delle richieste di certificato del casellario generale e quindi in base all’ordinario esercizio delle pubbliche funzioni, in mancanza quindi di qualsivoglia attività decettiva da parte del pubblico ufficiale operante. Sicché esatta deve ritenersi la qualificazione giuridica delle contestate condotte di appropriazione nella fattispecie di cui all’art. 314 c.p 1.2. È invece fondato, nei termini di seguito descritti, il secondo motivo di ricorso. La contestazione si riferisce alla soppressione di richieste dei privati, peraltro non individuate, volte al rilascio dei certificati del casellario e indica che tale soppressione sarebbe stata successiva all’asportazione delle marche da bollo di minore importo poi apposte sui due certificati di nuova emissione indicati nel capo 5. La sentenza impugnata, da un lato, evidenzia motivazione del tutto inidonea a supportare il relativo giudizio di penale responsabilità, poiché si limita a ritenere del tutto verosimile che la soppressione delle non individuate richieste di certificato sia stata realizzata dalla ricorrente. Dall’altro, ricava la natura pubblica degli atti soppressi dalla funzione, ritenuta essere certificativa della regolarità della procedura prodromica all’acquisizione dell’istanza, assolta dall’apposizione, da parte del p.u. ricevente, del timbro dell’ufficio sulla marca da bollo affissa all’istanza del privato. Ritiene al contrario il Collegio che la semplice apposizione del timbro dell’ufficio - che la sentenza in esame assume non essere accompagnata da ulteriore annotazione o sottoscrizione da parte del pubblico ufficiale - sopra la marca da bollo attaccata alla richiesta del privato, atto questo redatto dal richiedente senza alcuna assistenza del pubblico ufficiale, non abbia di per sé funzione certificativa della regolarità dell’istanza, quanto quella, di natura esclusivamente materiale, di annullo del valore bollato. Sicché quel documento, formato dal privato e privo di ogni intervento o attestazione del pubblico ufficiale che ne muti la qualifica, costituisce una scrittura privata, la cui soppressione, a seguito delle modifiche apportate dal D.Lgs. n. 7 del 2016, art. 2 all’art. 490 c.p., comma 1, non è più penalmente rilevante. 1.3. L’ultimo motivo del ricorso G. è aspecifico e manifestamente infondato. Il ricorso non si confronta con la congrua motivazione della sentenza impugnata, che correttamente rileva che le ripetute condotte di appropriazione poste in essere dalla ricorrente sono state caratterizzate da dolo di forte intensità ed hanno arrecato alla pubblica amministrazione un danno economico di non speciale tenuità, avendo esse avuto ad oggetto l’appropriazione continuativa di valori bollati detenuti dalla P.A., per un controvalore complessivo di circa 5.000 Euro, che, a seguito della loro sottrazione, erano suscettibili di ulteriore utilizzo da parte della stessa ricorrente o di terzi. 1.4. Sicché la sentenza impugnata va annullata senza rinvio limitatamente ai reati di cui all’art. 490 c.p. contestati al capo 5 perché il fatto non sussiste, con trasmissione degli atti ad altra Sezione della Corte di appello di Firenze per nuova determinazione della pena - ivi comprese le necessarie valutazioni circa le pene accessorie di cui agli artt. 29, 31 e 32 quinquies c.p. - in ordine ai residui delitti di peculato, per i quali va dichiarato definitivo l’accertamento della penale responsabilità della ricorrente. Nel resto, il ricorso proposto nell’interesse di G.E. è inammissibile. 2. È del pari inammissibile, perché manifestamente infondato, il ricorso proposto dal Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di appello di Firenze. La sentenza impugnata ha rideterminato in complessivi anni tre di reclusione la pena principale indistintamente inflitta, a seguito riconoscimento del vincolo della continuazione, per le plurime condotte di peculato contestate ai capi da 1 a 6 e per quelle di falso per soppressione di atto pubblico di cui al capo 5 nel quale sono pure contestate condotte di peculato . Pur non essendo possibile stabilire quale sia la pena inflitta per i delitti di peculato ed anche ipotizzando che i due reati di falso per soppressione tra l’altro oggetto di condanna annullata senza rinvio in questa sede siano stati sanzionati dalla Corte territoriale con minimo aumento per la ritenuta continuazione, la pena per le condotte di peculato è certamente inferiore al limite di cui all’art. 317 bis c.p., essendo stata in appello inflitta complessiva pena pari ad anni tre di reclusione. Pertanto, già la condanna inflitta all’imputata in appello per i reati di cui all’art. 314 c.p. non poteva importare l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di G.E. limitatamente ai reati di cui all’art. 490 c.p. perché il fatto non sussiste. Dichiara inammissibile nel resto il ricorso della G. . Rinvia per nuova determinazione della pena ad altra Sezione della Corte di appello di Firenze. Dichiara definitiva la responsabilità della G. per i fatti di peculato continuato ascrittile. Dichiara inammissibile il ricorso del pubblico ministero.