La dipendenza da alcool non esclude l’imputabilità dell’agente

La cronica dipendenza da alcool non può essere assimilata ad un vizio parziale di mente - essendo caratterizzata dal venir meno dei fenomeni tossici negli intervalli di astinenza, durante i quali vi sarebbe di nuovo l’acquisto della capacità di intendere e di volere - ma può essere valorizzata al fine della concessione delle circostanze attenuanti generiche.

Così ha stabilito la Suprema Corte di Cassazione, Sezione Prima Penale, con la sentenza n. 26644/19, depositata il 17 giugno. La capacità di intendere e di volere. Nell’impostazione codicistica, la disciplina relativa all’imputabilità del reo è fondata su una serie di condizioni che, sulla base di regole di scienza ed esperienza, escludono la capacità di intendere e di volere al momento del fatto. Al loro verificarsi, quindi, la punibilità viene meno o la pena irrogata sarà ridotta significativamente. Le cause di non imputabilità sono tassativamente previste dal codice e spaziano dal vizio totale o parziale di mente, all’ubriachezza od intossicazione cronica derivante da sostanze stupefacenti, alla minore età del soggetto che non abbia compiuto i 14 anni di età. Per vero, tali condizioni – soprattutto quelle relative al vizio di mente o all’intossicazione cronica – andranno provate in giudizio attraverso una perizia o una consulenza tecnica, idonee ad accertare in concreto l’effettivo venir meno della capacità di intendere e di volere al momento del fatto. Nella prassi, si manifesta la tendenza difensiva di sostenere la non imputabilità del proprio assistito, accompagnata da una sovente restrizione da parte dei giudici di merito i quali, soprattutto dinanzi a reati particolarmente gravi, sono indotti ad escludere la sussistenza dell’incapacità dell’imputato. Il caso la dipendenza alcolica. Nella sentenza che ci accingiamo a commentare, la questione verte sullo stato di incapacità dell’imputato che, sotto l’evidente effetto di sostanze alcooliche, aveva proferito pesanti minacce e tentato di cagionare la morte delle persone presenti in una pizzeria, cercando di dare fuoco al locale. La perizia psichiatrica disposta dal Giudice di prime cure aveva diagnosticato una sindrome da dipendenza alcolica, caratterizzata dall’assenza dello stato di irreversibilità organica proprio della cronica intossicazione. Secondo la tesi difensiva, seppur era impossibile escludere in toto l’imputabilità del soggetto al momento del fatto, la patologia alcolica di cui è affetto il ricorrente era di tale intensità da scemare grandemente la capacità di intendere e di volere, con conseguente censura della motivazione della Corte territoriale che invece aveva escluso l’applicabilità della disciplina sulla non imputabilità derivante da intossicazione cronica. Intossicazione e cronica dipendenza da alcool la prima esclude la punibilità, la seconda attenua il trattamento sanzionatorio. La Suprema Corte disattende le censure avanzate dal ricorrente. In primo luogo, osserva come l’accertamento della capacità di intendere e di volere costituisca una questione di fatto la cui valutazione è interamente rimessa al giudice di merito, sottraendosi così al sindacato di legittimità se esaurientemente motivata, anche con il solo richiamo alle valutazioni peritali. In secondo luogo, la Cassazione rimarca la netta distinzione sussistente tra intossicazione cronica ed ubriachezza abituale mentre la prima comporta una alterazione fisica e psichica permanente, che perdura anche in assenza di nuove assunzioni di sostanze alcooliche o stupefacenti, la seconda altera solo temporaneamente la capacità del soggetto. La grave e cronica dipendenza da alcool dell’imputato, diagnosticata dal perito, non può essere ricondotta alla cronica intossicazione da alcool, non avendo determinato degli effetti irreversibili ovvero grandemente scemati tipici di una condizione patologica. Ciò in quanto tale dipendenza sarebbe caratterizzata dal venir meno dei fenomeni tossici negli intervalli di astinenza, duranti i quali vi sarebbe di nuovo l’acquisto della capacità di intendere e di volere. Pertanto, il gesto attribuito all’imputato va riferito all’esasperazione delle condotte dovute al volontario stato di ubriachezza abituale, non derivante né da caso fortuito né da forza maggiore. La cronica dipendenza da alcool di cui risulta affetto l’imputato, quindi, non può essere assimilata ad un vizio parziale di mente, potendo soltanto essere valorizzata al fine della concessione delle circostanze attenuanti generiche che, nel caso di specie, sono effettivamente state ritenute equivalenti rispetto alle numerose aggravanti contestate.

Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 10 aprile – 17 giugno 2019, n. 26644 Presidente Iasillo – Relatore Di Giuro Ritenuto in fatto 1. Con la pronuncia indicata in epigrafe la Corte di Appello di Trieste ha confermato la sentenza in data 1/04/2017 del Tribunale di Udine, che dichiarava S.F. , all’esito di giudizio abbreviato condizionato all’espletamento di perizia psichiatrica, responsabile in ordine ai reati di cui all’art. 612 c.p., commi 1 e 2, a e c artt. 56 e 423 c.p. b e artt. 56 e 575 c.p., art. 577 c.p., n. 2, d e, concesse le attenuanti generiche equivalenti alle aggravanti contestate, ritenuta la continuazione e considerato più grave il delitto di tentato omicidio, lo condannava alla pena di anni sei di reclusione. 1.1 Secondo il costrutto accusatorio fatto proprio dai Giudici di merito, S. , sotto l’evidente effetto di sostanze alcoliche, avrebbe profferito pesanti minacce e tentato di cagionare la morte delle persone presenti nella pizzeria di cui era titolare K.A. , cercando di dare fuoco al locale. In particolare, l’imputato si sarebbe presentato presso tale pizzeria in evidente stato di ebbrezza alcolica e, a seguito del rifiuto della titolare K. di servirgli bevande alcoliche, sarebbe andato in escandescenza, minacciando di morte i presenti. Successivamente, costretto ad allontanarsi, si sarebbe ripresentato al locale con un’intera tanica di benzina, iniziando a rovesciarne il contenuto sul pavimento per appiccare il fuoco nel locale l’azione sarebbe stata interrotta dagli avventori presenti nel locale, che avrebbero, poi, dichiarato agli inquirenti di avere prontamente strappato l’accendino a S. , neutralizzandolo. 1.2 Per quanto qui d’interesse, la Corte territoriale affronta preliminarmente la questione inerente alla parziale incapacità di intendere e di volere di S. al momento dei fatti e la ritiene infondata. 2. Avverso tale sentenza propone ricorso S. , tramite i propri difensori, deducendo violazione degli artt. 85 e 78 c.p., travisamento della prova e vizio di motivazione in relazione ai motivi di appello. La difesa si duole che la Corte territoriale abbia affermato, condividendo l’assunto del primo Giudice e non confrontandosi con i motivi di appello che lo censuravano, che S. verserebbe in una condizione di cronica dipendenza da alcol, ma non in uno status patologico ai sensi dell’art. 95 c.p., né comunque in una condizione di irreversibilità propria del vizio di mente. In ciò discostandosi delle conclusioni del perito sulla rilevanza della diagnosticata patologia alcol correlata della cronica dipendenza da alcool non curata , clinicamente incidente, sebbene non prevista normativamente, sia sulla capacità di intendere che sulla capacità di volere dell’imputato. Secondo la difesa, invece, i Giudici di merito avrebbero dovuto valorizzare le conclusioni del perito, laddove censurano, alla luce dell’inquadramento scientifico della diagnosticata sindrome da dipendenza alcolica, il totale anacronismo, rispetto alla migliore scienza ed esperienza medica, delle previsioni del codice penale e laddove evidenziano come, nonostante la assenza di quello stato di irreversibilità organica proprio della cronica intossicazione e, quindi, l’imputabilità sulla carta di S. , la condizione dello stesso, completamente obnubilato dall’alcol da non frenare i propri istinti criminosi, sia assimilabile, quanto agli effetti sull’agito, alla cronica intossicazione. Si dolgono i difensori che la Corte territoriale abbia intrapreso una scorciatoia argomentativa inaccettabile, laddove afferma che tutto sommato il perito ha concluso per l’imputabilità di S. , finendo in tal modo per travisare il risultato probatorio ben più complesso e facendosi condizionare nel giudicare la capacità del ricorrente esclusivamente dall’assenza di inquadramento nosografico della patologia alcol correlata da cui il suddetto è affetto, poiché diversa da quella prevista dall’art. 95 c.p Con la conseguenza di non affrontare il problema dell’effettivo quadro clinico di capacità grandemente scemata in cui versava l’imputato al momento del fatto, come sarebbe stato doveroso alla luce dell’insegnamento della sentenza delle Sezioni Unite Raso e di discostarsi dalle conclusioni del perito senza fornire un’analitica motivazione tecnico-scientifica delle ragioni del dissenso. I difensori lamentano che la Corte abbia ancorato le proprie valutazioni allo stato di ubriachezza abituale, condizione auto-asserita e inesistente agli atti processuali, escludendo invece di confrontarsi con la dipendenza cronica da sostanze alcoliche inquadrata alternativamente dal perito che, anche se non prevista normativamente, avrebbe, invece, clinicamente influito sulle capacità mentali dell’imputato, e dunque sull’esito del giudizio. Evidenziano, infine, i difensori come, secondo una lettura costituzionalmente orientata dagli artt. 85, 88 e 89 c.p., debbano rientrare nel concetto di infermità anche le patologie alcol correlate, seppure diverse da quella prevista dall’art. 95 c.p., se e in quanto, come per l’odierno ricorrente, se ne accerti la gravità e intensità tali da scemare grandemente la capacità di intendere e di volere ed ovviamente il nesso eziologico con le specifiche azioni criminose e come, a ragionare diversamente, si ponga un problema di compatibilità costituzionale degli artt. 85, 88, 89 e 95 c.p., rispetto agli artt. 3 e 27 Cost Considerato in diritto 1. Il ricorso è inammissibile. L’accertamento della capacità di intendere e di volere dell’imputato costituisce questione di fatto la cui valutazione compete al giudice di merito e si sottrae al sindacato di legittimità se esaurientemente motivata, anche con il solo richiamo alle valutazioni delle perizie, se immune da vizi logici e conforme ai criteri scientifici di tipo clinico e valutativo Sez. 1, n. 32373 del 17/01/2014 – dep. 22/07/2014, Secchiano, Rv. 261410 . Orbene, nel caso di specie, la Corte territoriale, invitata dalla difesa in appello a pronunciarsi sulla capacità di intendere e di intendere e di volere dell’imputato al momento della commissione dei fatti, in sintonia col primo Giudice, ritiene che il suddetto non possa considerarsi cronicamente intossicato da alcol e dunque in una condizione di infermità mentale ai sensi del art. 95 c.p. e che piuttosto il suo gesto vada riferito all’esasperazione delle condotte dovute al volontario stato di ubriachezza abituale, non derivante, dunque, né da caso fortuito né da forza maggiore, e non riconducibile ad una patologia. Difatti il quadro clinico di S. assieme alla dinamica dei fatti, secondo la Corte a qua, inducono a ritenere che il suddetto, in preda ad uno stato di abituale alterazione, e dato l’odio e il rancore nei confronti della K. , soprattutto dopo il suo rifiuto di vendergli bevande alcoliche, abbia sfogato la propria impulsività attuando le gravi condotte per cui si procede. Sul punto la Corte, sulla scia del primo Giudice, evidenzia come la grave e cronica dipendenza da alcol di S. , diagnosticata dal neuropsichiatra S. , incaricato della perizia dal G.u.p., e definita dal medesimo di problematica collocazione rispetto a quella che è la normativa attuale , non essendo riconducibile alla cronica intossicazione da alcol ex art. 95 c.p., non abbia determinato gli effetti irreversibili ovvero grandemente scemati di una condizione patologica. E ciò perché tale dipendenza sarebbe caratterizzata dal venire meno dei fenomeni tossici negli intervalli di astinenza, durante i quali vi sarebbe di nuovo l’acquisto della capacità di intendere e volere. Al riguardo rileva la Corte territoriale come la Corte costituzionale, con la sentenza n. 114 del 9/04/1998, chiarisca le differenze tra cronica intossicazione e ubriachezza abituale. La cronica dipendenza da alcol da cui risulta affetto S. , secondo i Giudici di merito, non può essere assimilata ad un vizio parziale di mente, come invece proposto dal perito, in considerazione della rilevante compromissione nella resistenza volitiva all’irrazionale potere dell’impulso , quale seconda opzione rispetto alla soluzione di perfetta capacità di intendere e di volere secondo l’impostazione codicistica, ma può essere valorizzata al fine della concessione delle circostanze attenuanti generiche, ritenute, pertanto, nella valutazione di detti Giudici, equivalenti alle numerose aggravanti contestate. Trattasi di argomentazioni logiche e scevre da vizi giuridici, nelle quali si evidenzia come dallo stesso elaborato peritale emerga la capacità di intendere e di volere di S. secondo l’impostazione codicistica e come la grave e cronica dipendenza da alcol diagnosticata dal perito, diversa dalla cronica intossicazione da alcol ex art. 95 c.p., proprio per la non irreversibilità degli effetti che, quindi, la differenzierebbero anche dai disturbi della personalità , contemplati dalla pronuncia delle Sezioni Unite di questa Corte richiamata nel ricorso – n. 9163 del 25/01/2005 – dep. 08/03/2005, Raso, Rv. 230317 - che per essere rilevanti ai fini dell’imputabilità devono essere di consistenza, intensità e gravità tali da poter essere ricondotti alla nozione di infermità” presa in considerazione dal codice penale non sia riconducibile alla non imputabilità normativamente prevista, se non in una futura prospettiva di ampliamento normativo. A tali solide argomentazioni, il ricorrente oppone l’omessa valorizzazione delle conclusioni peritali critiche dell’attuale inquadramento normativo dell’imputabilità e con esse del deficit inibitorio connesso alla dipendenza cronica da sostanze alcoliche”, ritenuto dal perito in grado di incidere su una capacità di intendere e di volere intesa in maniera più ampia di quella strettamente codicistica. Dà, in tal modo, vita a censure non solo manifestamente infondate, ma aspecifiche in quanto ripercorrono quelle oggetto di appello senza confrontarsi adeguatamente con le argomentazioni della sentenza di secondo grado che le affrontano e le risolvono, e non consentite in quanto finalizzate ad una lettura alternativa di elementi fattuali vietata in questa sede. 2. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, non ricorrendo ipotesi di esonero, al versamento di una somma alla Cassa delle ammende, determinabile in tremila Euro. S. va, altresì, condannato alla rifusione delle spese sostenute nel presente grado di giudizio dalle parti civili, che, in considerazione altresì dell’impegno professionale profuso, ritiene equo liquidare come da dispositivo Euro 2.750,00 per la prima delle parti civili, con la maggiorazione del 20 %, pari a 550,00 Euro, per ciascuna delle ulteriori cinque come da richiesta difensiva, pari a complessivi 2.750,00 . P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Condanna, altresì, S.F. alla rifusione delle spese del grado sostenute dalle parti civili che liquida in complessivi Euro 5.500,00 oltre spese generali nella misura del 15 %, C.P.A. e I.V.A