Ospita un capo clan: non configurabile l’agevolazione dell’associazione mafiosa

Condannati per il delitto di favoreggiamento, non è sufficiente la semplice ospitalità di un esponente di vertice dell’associazione camorristica per applicare l’aggravante della finalità agevolatrice di tale associazione, poiché la stessa deve costituire l’obiettivo diretto della condotta criminosa.

Questo il principio contenuto nella sentenza della Corte di Cassazione n. 26230/19, depositata il 13 giugno. Il caso. La Corte d’Appello di Napoli rideterminava le pene inflitte agli imputati dal Tribunale di Napoli per il delitto di favoreggiamento personale di un latitante, aggravato dall’agevolazione dell’associazione camorristica di cui questo ultimo era a capo. Contro tale decisione, propongono ricorso per cassazione gli imputati, contestando, tra i motivi di ricorso, il riconoscimento dell’anzidetta circostanza aggravante, affermando di avere solamente ospitato il latitante, senza essere a conoscenza di questa sua condizione, e senza che tale ospitalità potesse in qualche modo favorire l’associazione di cui era parte. L’aggravante della finalità di agevolazione dell’attività di un’associazione mafiosa. La Corte di Cassazione dichiara il motivo di ricorso fondato, confermando l’insufficienza della motivazione dell’impugnata sentenza, laddove ha ritenuto configurabile l’aggravante della finalità agevolatrice dell’associazione mafiosa per il solo fatto che la condotta favoreggiatrice era stata posta in essere a vantaggio di una figura di vertice del clan. Per questo motivo, la Corte annulla la sentenza impugnata, limitatamente al riconoscimento della suddetta aggravante, affermando il seguente principio di diritto per la configurabilità della circostanza aggravante prevista dall’art. 7, d.l. n. 152 del 1991 [] oggi dall’art. 416-bis, c.p. , nella forma della finalità di agevolazione dell’attività di un’associazione di tipo mafioso, tale scopo deve costituire l’obiettivo diretto della condotta, non rilevando possibili vantaggi indiretti, né il semplice scopo di favorire un esponente di vertice della cosca, indipendentemente da ogni verifica in merito all’effettiva ed immediata coincidenza degli interessi di un esponente o del capomafia con quelli dell’organizzazione .

Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 5 marzo – 13 giugno 2019, n. 26230 Presidente Petruzzellis – Relatore Rosati Ritenuto in fatto 1. R.A. e M.S. , per il tramite dei loro difensori, ricorrono per cassazione, invocando l’annullamento della sentenza della Corte di appello di Napoli del 22 gennaio 2018, che, in parziale accoglimento dell’impugnazione da essi proposta, ha rideterminato le pene loro inflitte dal Tribunale di Napoli, con sentenza del 17 gennaio 2011, per il delitto di favoreggiamento personale del latitante P.G. , aggravato a norma dell’art. 378 c.p., comma 2, e D.L. n. 152 del 1991, art. 7, conv. dalla L. n. 203 del 1991, nella forma dell’agevolazione dell’associazione camorristica di cui quegli era figura di vertice. 2. La difesa di R. , con il proprio ricorso, articola due motivi di doglianza. 2.1. Con il primo, lamenta la violazione dell’art. 597 c.p.p., commi 3 e 4, per avere la Corte proceduto ad una non consentita reformatio in peius, in assenza d’impugnazione da parte del pubblico ministero, in quanto ha determinato la pena nella stessa misura stabilita in primo grado, ma ha conteggiato anche la continuazione che era stata esclusa dal primo giudice , erroneamente ritenendo che questi fosse incorso in un mero errore materiale di calcolo. 2.2. Con il secondo, invece, contesta il riconoscimento delle anzidette circostanze aggravanti, ritenendo la sentenza viziata, sul punto, da violazione di legge e carenze motivazionali. Dagli elementi di prova raccolti in giudizio, infatti, emergerebbe soltanto che R. avrebbe dato ospitalità a P. , senza però conoscerne la condizione di latitante, poiché altrimenti - si sostiene - avrebbe fatto intestare a quest’ultimo, e non a se stesso, il contratto di comodato dell’abitazione da quegli utilizzata come rifugio. Per altro verso, si evidenzia che l’ospitalità è stata talmente breve, da non aver potuto determinare un ausilio anche per l’associazione di cui P. era parte. 3. Con un unico motivo di ricorso, invece, la difesa di M. denuncia la violazione del già ricordato art. 7, rilevando che questi si è limitato ad aiutare P. esclusivamente per ragioni di amicizia, senza compiere altra attività ausiliarie, ed osservando, con corredo di giurisprudenza, che l’ausilio prestato in favore del singolo affiliato, quantunque collocantesi al vertice di un’organizzazione di tipo mafioso, non può tradursi ex se in un’agevolazione dell’intera compagine. Considerato in diritto 1. Il primo motivo del ricorso avanzato nell’interesse di R. è manifestamente infondato. Nessuna reformatio in peius ha compiuto la Corte e nessun conteggio della continuazione, esclusa dal Tribunale, essa ha operato. La sentenza d’appello, infatti, si è limitata ad emendare l’errore materiale in cui è incorsa quella di primo grado la quale, a fronte di una pena stabilita nel dispositivo in due anni, due mesi e venti giorni di reclusione confermata in appello , aveva indicato in motivazione una pena di due anni e sei mesi, tuttavia per un evidente refuso, agevolmente rilevabile dai vari passaggi intermedi ivi pure indicati. 2. È fondato, invece, il secondo motivo di ricorso, sussistendo il denunciato vizio motivazionale in ordine alla ritenuta sussistenza dell’aggravante dell’agevolazione mafiosa. 2.1. Tanto dicasi, tuttavia, non già con riferimento all’invocata inconsapevolezza, da parte dell’indagato, della qualità di capoclan del P. e della condizione di latitante di quest’ultimo. Sul punto, infatti, la motivazione della Corte fa leva sul fatto che essi fossero concittadini, che quella condizione del P. fosse nota a tutti in paese e che, infine, R. si sia adoperato per procurarsi l’appartamento proprio in concomitanza con l’inizio della latitanza di costui. La stringente concludenza logica di tali circostanze non può ritenersi neppure scalfita dall’osservazione difensiva per cui, se R. fosse stato a conoscenza di tale stato del P. , non avrebbe intestato a se stesso ma a costui il contratto dell’abitazione messagli a disposizione durante la latitanza. La fallacia logica di un tale argomento, infatti, è di solare evidenza, essendo ragionevole, piuttosto, proprio la considerazione opposta ovvero che, se R. fosse stato all’oscuro della condizione di latitanza di P. , non avrebbe avuto alcun motivo di far intestare a se stesso, e non al diretto utilizzatore, il contratto per l’uso dell’immobile. 2.2. La motivazione della sentenza impugnata è insufficiente, invece, nella parte in cui ritiene configurabile la circostanza aggravante prevista dal D.L. n. 152 del 1991, art. 7, conv. dalla L. n. 203 del 1991 oggi dall’art. 416-bis.1 c.p., a seguito del D.Lgs. 1 marzo 2018, n. 21 , sub specie della finalità agevolatrice dell’associazione mafiosa, per il sol fatto che la condotta favoreggiatrice sia stata posta in essere a vantaggio di un capo-clan. Sebbene non siano mancate in passato, anche nella giurisprudenza di legittimità, affermazioni in tal senso una delle quali è richiamata dalla Corte distrettuale in sentenza , si va accreditando come maggioritario l’indirizzo per cui l’aggravante in discorso, in quanto connotata dal profilo del dolo specifico, richiede che il soggetto abbia agito con lo scopo di agevolare l’attività dell’associazione o, comunque, abbia fatto propria tale finalità occorre, cioè, che questo fine costituisca l’obiettivo diretto della condotta, non rilevando possibili vantaggi indiretti, nè il semplice scopo di favorire un esponente di vertice della cosca, indipendentemente da ogni verifica in merito all’effettiva ed immediata coincidenza degli interessi di un esponente o del capomafia con quelli dell’organizzazione in questi termini, tra varie altre Sez. 1, n. 54085 del 15/11/2017, Rv. 271641 Sez. 6, n. 31874 del 09/05/2017, Rv. 270590 Sez. 5, n. 28648 del 17/03/2016, Rv. 267300 Sez. 6, n. 44698 del 22/09/2015, Rv. 265359 . Si tratta, invero, di una lettura più aderente al dato normativo, oltre che coerente, sotto il profilo assiologico, al consistente aumento di pena che la norma prevede ed alla conseguente necessità che esso sia giustificato da un significativo incremento qualitativo dell’offesa criminale. 3. Considerazioni sostanzialmente identiche valgono per il ricorso dell’imputato M. . Anche per lui non vi può esser dubbio sulla piena consapevolezza del ruolo criminale e della condizione di latitanza di P. del resto, le intercettazioni dei loro dialoghi, richiamate in sentenza, rivelano la sua deferenza verso quest’ultimo e la particolare cautela nell’incontrarlo. Ma, pure nei suoi confronti, l’anzidetta aggravante ad effetto speciale è stata ritenuta sulla base della sola posizione verticistica del soggetto favorito all’interno del sodalizio mafioso. 4. Con riferimento, dunque, alla ritenuta sussistenza dell’aggravante prevista dal D.L. n. 152 del 1991, art. 7, conv. dalla L. n. 203 del 1991 oggi dall’art. 416-bis.1 c.p. , l’impugnata sentenza dev’essere annullata ed il processo dev’essere rinviato alla Corte d’appello emittente, perché proceda ad un nuovo giudizio, nel rispetto del seguente principio di diritto per la configurabilità della circostanza aggravante prevista dal D.L. n. 152 del 1991, art. 7, conv. dalla L. n. 203 del 1991 oggi dall’art. 416-bis.1 c.p. , nella forma della finalità di agevolazione dell’attività di un’associazione di tipo mafioso, tale scopo deve costituire l’obiettivo diretto della condotta, non rilevando possibili vantaggi indiretti, nè il semplice scopo di favorire un esponente di vertice della cosca, indipendentemente da ogni verifica in merito all’effettiva ed immediata coincidenza degli interessi di un esponente o del capomafia con quelli dell’organizzazione . P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata, limitatamente al riconoscimento dell’aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7 e rinvia per nuovo giudizio sul punto ad altra sezione della Corte d’appello di Napoli. Rigetta i ricorsi nel resto.