L’effettiva lesione dell’interesse protetto nel reato di illecito trattamento dei dati personali

Per la configurabilità del necessario requisito del nocumento richiesto nel reato di cui all’art. 167 d.lgs. n. 196/2003, è necessaria la presenza di elementi fattuali oggettivamente indicativi di una lesione effettiva dell’interesse protetto.

Questo è il principio affermato dalla Corte di Cassazione con sentenza n. 23808/19, depositata il 29 maggio. La Corte d’Appello assolveva l’imputato dal reato di utilizzo dei dati personali, relativi allo stato di salute, senza il consenso dell’interessato delitto di cui all’art. 167 d.lgs. n. 196/2003 . Quest’ultimo, avverso tale decisione propone ricorso per cassazione, denunciando la mancanza del suo consenso alla diffusione dei propri dati personali e ciò avrebbe comportato un danno di natura sia non patrimoniale sia patrimoniale. I riferimenti normativi. Innanzitutto occorre ricordare la disposizione dell’art. 167, comma 2, d.lgs. n. 196& amp 2003, come modificato dal d.lgs. n. 101/2018, prevede che, salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, al fine di trarre per sé o per altri profitto ovvero arrecare danno all’interessato, procedendo al trattamento dei dati personali di cui sugli articoli 9 e 10 del Regolamento in violazione delle disposizioni di cui agli articoli 2-sexies e 2-octies, o delle misure di garanzia di cui all’articolo 2-septies ovvero operando in violazione delle misure adottate ai sensi dell’articolo 2-quinquiesdecies arreca nocumento all’interessato, è punito con la reclusione da uno a tre anni . Per la Suprema Corte il nocumento arrecato alla persona deve essere inteso come un pregiudizio giuridicamente rilevante di qualsiasi natura, patrimoniale e non patrimoniale, subito dalla persona a cui si riferiscono i dati o le informazioni protetti. E tale principio è stato correttamente applicato dalla Corte territoriale nel caso in esame. Il principio di diritto e l’inammissibilità del ricorso. Conclusivamente, i Giudici di legittimità dichiarano il ricorso inammissibile sulla base dell’affermazione del nuovo principio secondo cui, il requisito necessario del nocumento richiesto per la realizzazione del reato sopradetto non si ritiene sussistente in caso di produzione in giudizio civile di documenti contenenti dati personali ancorché effettuata al di fuori dei limiti consentiti per il corretto esercizio del diritto di difesa, in assenza di elementi fattuali oggettivamente indicativi di una effettiva lesione dell’interessato protetto, trattandosi di informazioni la cui cognizione è normalmente riservata e circoscritta ai soli soggetti professionalmente coinvolti nella vicenda processuale, sui quali incombe un obbligo di riservatezza .

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 29 marzo – 29 maggio 2019, n. 23808 Presidente Izzo – Relatore Ramacci Ritenuto in fatto 1. La Corte di Appello di Firenze, con sentenza del 20 aprile 2018 ha riformato la decisione del Tribunale di Arezzo in data 26 febbraio 2014, appellata da A.P. , assolvendolo dal delitto di cui al D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 167, contestatogli per avere utilizzato dati personali, concernenti lo stato di salute, senza il consenso di A.C. in omissis . Avverso tale pronuncia A.C. propone ricorso per cassazione tramite il proprio difensore di fiducia, deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, ai sensi dell’art. 173 disp. att. c.p.p 2. Con un unico motivo di ricorso, premessa una ricostruzione della vicenda storica e processuale, deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione, evidenziando che, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte territoriale, la diffusione della documentazione nell’ambito di un procedimento civile, senza il consenso dell’avente diritto alla riservatezza, di dati sensibili, avrebbe integrato il necessario presupposto del nocumento della persona offesa, determinando un danno di natura non patrimoniale conseguente alla diffusione di dati afferenti alla sfera intima, nonché un danno patrimoniale, per avere indotto il convenuto opposto ad addivenire ad una transazione al fine di evitare la inevitabile soccombenza processuale. Aggiunge che la diffusione di dati sensibili riguardava una platea indefinita di soggetti, quali giudice, cancellieri, avvocati e praticanti avvocati ed aveva determinato l’impossibilità di reinserirsi nel mondo del lavoro. Insiste, pertanto, per l’accoglimento del ricorso. Considerato in diritto 1. Il ricorso è inammissibile 2. Risulta dalla sentenza impugnata che il procedimento penale ha tratto origine da una denuncia querela proposta da A.C. contro il padre P. , perché, nell’ambito di un giudizio civile relativo a crediti rivendicati dal figlio, al fine di giustificare l’infondatezza della pretesa creditoria con il profondo risentimento nutrito nei confronti dei genitori, produceva documentazione sanitaria relativa a grave patologia psichiatrica, ritenuta causa di tale atteggiamento. La Corte territoriale, con argomentazioni giuridicamente corrette e scevre da cedimenti logici o manifeste contraddizioni ha negato che la sussistenza del reato fosse da ritenersi esclusa per avere l’imputato legittimamente esercitato il proprio diritto alla difesa nel giudizio civile, ma ha però ritenuto insussistente il necessario requisito del nocumento. In particolare, i giudici del gravame hanno posto in evidenza come la produzione della documentazione medica fosse avvenuta esercitando il diritto di difesa senza il rispetto dei doveri di correttezza, pertinenza e non eccedenza stabiliti dalla legge, in quanto ultronea rispetto agli altri argomenti spesi per negare la sussistenza del credito, perché finalizzata a dimostrare quelle che, secondo l’imputato, sarebbero state le reali ragioni per le quali era stato promosso il giudizio civile. Nondimeno, la Corte del merito, richiamando correttamente la giurisprudenza di legittimità, ha escluso la sussistenza del nocumento richiesto dalla legge. 3. Invero, il D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 167, comma 2 stabiliva, nella formulazione vigente all’epoca dei fatti salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, al fine di trarne per sé o per altri profitto o di recare ad altri un danno, procede al trattamento di dati personali in violazione di quanto disposto dagli artt. 17, 20 e 21, art. 22, commi 8 e 11 e artt. 25, 26, 27 e 45, è punito, se dal fatto deriva nocumento, con la reclusione da uno a tre anni . Il D.Lgs. n. 196 del 2003 è stato poi modificato dal D.Lgs. 10 agosto 2018, n. 101, recante Disposizioni per l’adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del regolamento UE 2016/679 del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la direttiva 95/46/CE regolamento generale sulla protezione dei dati . In particolare, l’art. 167, comma 2 dispone ora salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, al fine di trarre per sé o per altri profitto ovvero di arrecare danno all’interessato, procedendo al trattamento dei dati personali di cui agli artt. 9 e 10 del Regolamento in violazione delle disposizioni di cui agli artt. 2-sexies e 2-octies, o delle misure di garanzia di cui all’art. 2-septies ovvero operando in violazione delle misure adottate ai sensi dell’art. 2-quinquiesdecies arreca nocumento all’interessato, è punito con la reclusione da uno a tre anni . Il requisito del nocumento è tuttora richiesto, con l’ulteriore specificazione, rispetto al passato, che lo stesso deve essere arrecato all’interessato. 4. Ciò posto, occorre ricordare che, come chiarito dalla giurisprudenza di questa Corte, nel reato di trattamento illecito di dati personali previsto dall’art. 167 in esame il nocumento è costituito dal pregiudizio, anche di natura non patrimoniale, subito dalla persona cui si riferiscono i dati quale conseguenza dell’illecito trattamento Sez. 3, n. 29549 del 7/2/2017, F, Rv. 270458, citata in sentenza . Nella citata pronuncia viene ricordato come, in un primo tempo, la giurisprudenza abbia qualificato il verificarsi del nocumento quale condizione oggettiva di punibilità intrinseca , che attualizza l’offesa dell’interesse tutelato già realizzata dal fatto tipico Sez. 3, n. 7504 del 16/7/2013, dep. 2014 , Pontillo, Rv. 259261 Sez. 5, n. 44940 del 28/9/2011, C. e altro, Rv. 251448 Sez. 3, n. 16145 del 5/3/2008, P.C. in proc. Amorosi e altro, Rv. 239898 Sez. 3, n. 28680 del 26/3/2004, Modena, Rv. 229465 , il quale costituirebbe una fattispecie di pericolo concreto, integrata dalla condotta di trattamento assistita dal dolo specifico, punibile solo a condizione del verificarsi del predetto accadimento, mentre, più recentemente, il nocumento è stato ritenuto un elemento costitutivo del reato, avuto riguardo alla sua omogeneità rispetto all’interesse leso e alla sua diretta derivazione causale dalla condotta tipica, con conseguente necessità che esso sia previsto e voluto o, comunque, accettato dall’agente come conseguenza della propria azione, indipendentemente dal fatto che costituisca o si identifichi con il fine dell’azione stessa Sez. 3, n. 40103 del 5/2/2015, Ciulla, Rv. 264798 . La medesima sentenza evidenzia anche che, indipendentemente dalla sua qualificazione, il nocumento deve essere inteso come un pregiudizio giuridicamente rilevante di qualsiasi natura, patrimoniale o non patrimoniale, subito dalla persona alla quale si riferiscono i dati o le informazioni protetti Sez. 3, n. 30134 del 28/5/2004, Barone, Rv. 229472 Sez. 3, n. 23798 del 24/5/2012, Casalini e altro, in motivazione Sez. 5, n. 44940 del 28/9/2011, C. e altro, in motivazione o anche da terzi quale conseguenza dell’illecito trattamento Sez. 3, n. 7504 del 16/7/2013, dep. 2014 , Pontillo, Rv. 259261 Sez. 3, n. 17215 del 17/2/2011, L., Rv. 249991 . 5. Si tratta di principi che il Collegio condivide e che la Corte territoriale ha correttamente applicato, escludendo la sussistenza dei nocumento sulla base del fatto che non risulta essere stata dimostrata e neppure prospettata la diffusione dei dati personali al di fuori della ristretta cerchia di soggetti che ne erano venuti a conoscenza per ragioni professionali, restando a loro volta assoggettati al dovere di riservatezza, come riscontrabile anche dal fatto che il primo giudice non aveva offerto alcuna motivazione sul punto, rimettendo la questione del risarcimento del danno al giudice civile in separato giudizio, fissando una provvisionale senza alcuna indicazione circa le ragioni sulla sussistenza del presunto pregiudizio. Va inoltre considerato che, proprio con riferimento al giudizio civile, sebbene con riferimento a fattispecie diversa, questa Corte ha avutòmodo di precisare che la produzione di un CD contenente foto e filmati ritraenti altre persone non costituisce una forma di diffusione , bensì di comunicazione di dati destinata a circolare e ad essere conosciuta tra persone determinate. Sez. 3, n. 35553 del 11/5/2017, P.C. in proc. Fumagalli, Rv. 271240 . Quanto alla facoltà di difendersi in giudizio utilizzando gli altrui dati personali, la Corte di appello ha giustamente ricordato che, secondo quanto affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, essa va esercitata nel rispetto dei doveri di correttezza, pertinenza e non eccedenza stabiliti dalla legge, sicché la legittimità della produzione di documenti contenenti tali dati va valutata in base al bilanciamento tra il contenuto del dato, cui va correlato il grado di riservatezza, e le esigenze di difesa Sez. 3, n. 35296 del 20/4/2011, Cozzolino e altri, Rv. 250852 con richiami ai prec. ponendo in luce, nella motivazione, l’irrilevanza del fatto che gli addetti all’Ufficio giudiziario interessato siano potuti venire a conoscenza del contenuto del ricorso, essendo gli stessi tenuti al relativo segreto. Del tutto correttamente, dunque, i giudici del gravame hanno posto in rilievo come il particolare contesto entro il quale era avvenuta la produzione del documento recante dati sensibili era tale da far ritenere, in assenza di dati fattuali significativi di segno contrario, che le informazioni in esso contenute sarebbero restate confinate nel ristretto ambito dei soggetti coinvolti, per motivi professionali, nel procedimento civile. 6. In conclusione, il necessario requisito del nocumento richiesto per la configurazione del reato dal D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 167 non può ritenersi sussistente, in caso di produzione in un giudizio civile di documenti contenenti dati personali, ancorché effettuata al di fuori dei limiti consentiti per il corretto esercizio del diritto di difesa, in assenza di elementi fattuali oggettivamente indicativi di una effettiva lesione dell’interesse protetto, trattandosi di informazioni la cui cognizione è normalmente riservata e circoscritta ai soli soggetti professionalmente coinvolti nella vicenda processuale, sui quali incombe un obbligo di riservatezza. 7. Ciò posto, deve rilevarsi che il ricorrente, senza confrontarsi appieno con le argomentazioni sviluppate dai giudici del gravame, oppone ad esse generiche ed apodittiche considerazioni, riferendosi, genericamente, ad un non meglio specificato danno non patrimoniale conseguente all’aver visto diffuso dati afferenti la sfera più intima della persona , nonché ad un danno patrimoniale derivante dall’aver indotto la controparte ad una transazione, al 50%, della vertenza giudiziaria per evitare la più che probabile, a tal punto, soccombenza processuale , che non si comprende come possa essere logicamente correlato, in mancanza di ulteriori specificazioni da parte del ricorrente, così come la dedotta impossibilità di reinserimento nel mondo del lavoro all’esito del giudizio civile, alla produzione di documentazione medica di natura psichiatrica destinata ai soli soggetti coinvolti nel procedimento civile. La infondatezza del motivo di ricorso è dunque di macroscopica evidenza. 8. Il ricorso, conseguentemente, deve essere dichiarato inammissibile e alla declaratoria di inammissibilità consegue l’onere delle spese del procedimento, nonché quello del versamento, in favore della Cassa delle ammende, della somma, equitativamente fissata, di Euro 2.000,00 P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila in favore della Cassa delle ammende.