Traffico illecito di dati personali, quando è punibile l’agente?

L’art. 167, comma 2, d.lgs. n. 196/2003 punisce colui che, al fine di trarre per sé o per altri profitto o arrechi danno all’interessato, procede all’illecito trattamento di dati personali. Quanto al danno arrecato alla persona offesa, esso si può concretizzare in qualsiasi pregiudizio giuridicamente rilevante per tale soggetto.

Così la Corte di Cassazione con sentenza n. 20013/19, depositata il 10 maggio. La vicenda. La Corte d’Appello, in parziale riforma della pronuncia di primo grado, riconosceva all’imputato il beneficio della non menzione di cui all’art. 175 c.p., confermando tutto il resto in merito alla sua colpevolezza per il reato di trattamento illecito di dati personali, poiché, in qualità di dipendente bancario, aveva proceduto al trattamento dei dati personali di un soggetto, concernenti la situazione patrimoniale in relazione al suo indebitamento con la banca e la divulgazione dei dati sarebbe stata finalizzata a reperire sul mercato possibili acquirenti per una tenuta, evidenziandosi così il profitto, volto a consentire alla banca stessa di soddisfare il credito vantato nei confronti del suddetto soggetto e recuperare così la situazione di scoperto. Avverso date decisione, l’imputato, tramite suo difensore, propone ricorso per cassazione, denunciando violazione e falsa applicazione di legge. La violazione dei dati personali e la rilevanza del danno arrecato alla persona offesa. Al riguardo, occorre innanzitutto rammentare che la fattispecie delittuosa indicata dal codice della privacy ha come scopo caratterizzante il dolo specifico, richiesta appunto ai fini della sussumibilità della fattispecie concreta in quella astratta, non richiedendo invece che il fine perseguito, profitto o danno, si sia effettivamente concretizzato affinché l’agente sia punibile quanto invece al danno arrecato alla persona offesa, la normativa non indica dettagliatamente al riguardo, potendosi concretizzare in qualsiasi pregiudizio giuridicamente rilevante per tale soggetto. Ad esempio, nel caso in esame, tale danno si è sostanziato non solo nel vulnus” al nome dell’azienda in cui il colpevole lavorava, ma anche nella rappresentazione ad altri soggetti, terzi, della possibilità di acquisto ad un prezzo inferiore al suo valore commerciale della tenuta a fronte dell’indebitamento del proprietario. Sussiste, dunque, l’elemento soggettivo richiesto dall’art. 167, comma 2, d.lgs. n. 196/2003 e sulla base di ciò la Suprema Corte dichiara il ricorso inammissibile.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 13 marzo – 10 maggio 2019, n. 20013 Presidente Sarno – Relatore Scarcella Ritenuto in fatto 1. Con sentenza 19.09.2017, la Corte d’appello di Firenze, in parziale riforma della sentenza del tribunale di Firenze 23.03.2015, appellata dal M. , riconosceva al medesimo il beneficio della non menzione ex art. 175 c.p., confermando nel resto l’appellata sentenza che lo aveva riconosciuto colpevole del reato di illecito trattamento dei dati personali, contestato come commesso in data 22.04.2010, secondo le modalità esecutive e spazio - temporali meglio descritte nel capo di imputazione, condannandolo alla pena di 1 anno di reclusione, con il beneficio della sospensione condizionale della pena ed al risarcimento dei danni in favore della p.c. costituita, da liquidarsi in separata sede, assolvendolo invece dal reato di truffa aggravata contestato al capo b per insussistenza del fatto. 2. Contro la sentenza ha proposto ricorso per cassazione il difensore di fiducia, iscritto all’Albo speciale previsto dall’art. 613 c.p.p., articolando due motivi, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. c.p.p 2.1. Deduce, con il primo motivo, violazione di legge in relazione agli artt. 521 e 522 c.p.p., e conseguente nullità della sentenza impugnata per difetto di contestazione. Richiamando il contenuto dei capi di imputazione, il ricorrente evidenzia come l’elemento soggettivo del reato di cui al capo a fosse stato ritenuto sussistente in quanto il M. avrebbe agito con l’intenzione di ricavarne un ingiusto profitto, consistente nell’ottenere l’adempimento del debito bancario con i proventi della vendita dell’azienda e con il contributo incolpevole del C. , vittima del tentativo truffaldino. Nonostante il Tribunale di Firenze avesse escluso la configurabilità del reato contestato al capo b , recte truffa aggravata, invece di assolvere l’imputato per l’insussistenza del fine di trarne profitto, avrebbe erroneamente ritenuto concretizzata la fattispecie di cui al capo a . Sostiene il ricorrente che, dalla lettura del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 167, comma 2, sarebbe possibile evincere che, sotto il profilo psicologico sia richiesto il dolo specifico, dovendo l’agente essersi rappresentato e aver voluto operare con l’intenzione specifica di ottenere un vantaggio o arrecare un danno ad altri. La semplice violazione della disposizione normativa in esame non risulterebbe quindi sufficiente ad integrare il reato di trattamento illecito dei dati. Tale fine era stato individuato nell’imputazione del capo b , fatto però dichiarato non sussistente. Il P.M., infatti, avrebbe individuato l’elemento soggettivo nell’intenzione del M. di porre in essere la truffa, così ottenendo un profitto a danno del F. . Avendo il giudice di primo grado inquadrato la vicenda nell’ambito del reato impossibile, escludeva l’ipotesi di truffa e, conseguentemente, l’elemento soggettivo del reato di cui al D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 167, comma 2. Arbitrariamente il Tribunale ipotizzava il dolo specifico o nel fine di consolidare posizioni professionali apicali ovvero nel caso, invece, di una collusione con soggetti non identificati - ipotesi più probabile, salvo ipotizzare che abbia agito per dispetto o senza motivo - al fine di trarne vantaggio economico , circostanze mai contestate all’imputato. La Corte di Appello non si sarebbe curata della mancata correlazione fra l’imputazione e la sentenza, riscontrando il fine del profitto nell’intenzione di reperire acquirenti per recuperare la situazione di scoperto a favore della banca, ancora una volta attribuendo all’imputato un fine mai contestato. Ad avviso del ricorrente, richiamando gli artt. 521 e 522 c.p.p., per fatto diverso dovrebbe intendersi non solo un fatto che integri una diversa imputazione, ma anche un fatto che presenti connotati materiali difformi da quelli descritti nella contestazione originaria, rendendo necessaria una puntualizzazione nella ricostruzione degli elementi essenziali del reato. I giudici di merito avrebbero ricostruito diversamente la vicenda da come descritta nel decreto di citazione, sulla base della testimonianza della parte offesa e di ulteriori deposizioni. Ricorrerebbe anche nel caso in esame la violazione del principio di correlazione fra accusa e sentenza, in quanto la ricostruzione dell’elemento soggettivo risulterebbe diversa rispetto a quella contestata nell’imputazione, il che avrebbe pregiudicato la possibilità di difesa dell’imputato la quale era stata diretta a dimostrare l’inesistenza del tentativo di truffa. La garanzia di difesa dovrebbe essere inoltre più forte quando essa attenga ad elementi costitutivi del reato addebitato. Erroneamente inoltre il Tribunale di Firenze aveva ritenuto che il nocumento, eventualmente cagionabile, fosse una circostanza aggravante, dimostrando il travisamento del fatto ed una erronea applicazione della norma, facendo riferimento alla normativa previgente la modifica intervenuta con il D.Lgs. n. 467 del 2001, avrebbe invece posto il danno come condizione oggettiva di punibilità. 2.2. Deduce, con il secondo motivo, violazione di legge in relazione agli artt. 62 bis e 133 c.p Si sostiene che la Corte di Appello avrebbe errato nel non riconoscere le attenuanti generiche in quanto l’incensuratezza dell’imputato non sarebbe sufficiente solo qualora non siano rinvenibili ulteriori elementi positivi. Se da un lato la denegata applicazione dell’art. 62 bis c.p., può essere giustificata solo per la gravità del fatto, dall’altro il giudizio dovrebbe riferirsi ai criteri, positivi e negativi ex art. 133 c.p., avendo quindi riguardo anche all’incensuratezza del soggetto poiché emblematica dell’assenza di una indole criminosa. Nel caso concreto i giudici di merito si sarebbero limitati a dedurre la gravità del fatto in ragione della particolare posizione dell’imputato all’interno della banca, escludendo le ulteriori circostanze favorevoli al M. . Il danno non si sarebbe verificato né l’imputato avrebbe tratto personalmente alcun vantaggio economico o agito in maniera subdola tale da rilevare un’indole criminosa. Si evidenzia anche la collaborazione del ricorrente nella fase dibattimentale per la ricostruzione della vicenda e si rammenta inoltre che il M. svolgeva il ruolo di mero dipendente, sottoposto ad altre figure apicali e privo di autonomia decisionale. Da quanto esposto conseguirebbe che una valutazione complessiva delle circostanze effettive precluderebbe di attribuire un valore di gravità alla condotta, giustificando, insieme alla incensuratezza e alla condotta successiva al reato, la concessione delle attenuanti generiche. Considerato in diritto 3. Il ricorso è inammissibile per manifesta infondatezza ed in parte perché propone violazioni di legge non dedotte in appello. 4. AI fine di meglio comprendere la soluzione cui è pervenuto il collegio, è utile richiamare quanto esposto nella sentenza impugnata, onde rendere maggiormente intellegibile l’impugnazione. La Corte di Appello di Firenze confermava in punto di responsabilità penale la condanna dell’attuale ricorrente per avere, in qualità di dipendente della banca Monte dei Paschi di Siena, addetto all’ufficio diagnostica capital service, proceduto al trattamento dei dati personali di F.B.F. , costituitosi parte civile, concernenti la solvibilità e la situazione patrimoniale in relazione al suo indebitamento con la banca per un importo superiore agli 8 milioni di Euro, agendo a scopo di profitto rappresentato dal consolidamento della propria situazione professionale all’interno dell’istituto di credito e da vantaggi economici. In rigetto del primo motivo di appello, i giudici di secondo grado evidenziano come la trasmissione dei dati sensibili fosse finalizzata a reperire sul mercato acquirenti per la tenuta OMISSIS , presentandosi come evidente il profitto in quanto ciò risultava diretto a consentire alla banca di soddisfare il credito vantato nei confronti del F. e quindi recuperare la situazione di scoperto. Veniva inoltre precisato che la norma violata non richiede che il profitto sia personale dell’agente potendo essere anche di altri relativamente al nocumento derivante dalla condotta, la Corte di Appello afferma che esso sia derivato dalla divulgazione dei suddetti dati sensibili, essendo stato realizzato un vulnus al buon nome commerciale dell’azienda agricola e del suo titolare, il che sarebbe derivato anche dalla rappresentazione a terzi della possibilità di acquisto della tenuta a prezzo sensibilmente inferiore al suo valore commerciale e ciò a seguito della posizione di forte indebitamento del proprietario. Con la sentenza impugnata veniva infine negata la concessione delle circostanze attenuanti generiche, in ragione della gravità della condotta e della particolare posizione del M. all’interno della banca, venendo invece riconosciuto il beneficio della non menzione della condanna, stante l’incensuratezza. 5. Tanto premesso, si osserva quanto segue. Quanto al primo motivo, deve rilevarsi che già il primo giudice aveva affermato in relazione all’imputazione sub a , che il fine di trarre profitto dalla divulgazione era individuato nell’interesse a consolidare la propria posizione all’interno dell’istituto di credito, ovvero, nel caso concretamente opinabile perché non provato, che avesse agito in accordo con altri soggetti al fine di trarre vantaggi di natura economica. Nell’atto di appello, l’imputato si era doluto con il primo motivo dell’errata valutazione delle risultanze processuali sotto il profilo della sussistenza del dolo e delle circostanze oggettive del reato, senza tuttavia eccepire la violazione del principio di correlazione tra accusa contestata e sentenza. La circostanza di aver dedotto la violazione della legge processuale per la prima volta in sede di ricorso per cassazione, determinerebbe, a norma dell’art. 606 c.p.p., comma 3, l’inammissibilità del motivo in quanto violazione di legge non dedotta con i motivi di appello. Pacifico è infatti nella giurisprudenza di questa Corte il principio per cui la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza integra una nullità a regime intermedio che, in quanto verificatasi in primo grado, può essere dedotta fino alla deliberazione della sentenza nel grado successivo. Ne consegue che detta violazione non può essere dedotta per la prima volta in sede di legittimità Sez. 4, n. 19043 del 29/03/2017 - dep. 20/04/2017, Privitera, Rv. 269886 . 6. Quanto sopra sarebbe ex se sufficiente a determinare l’inammissibilità del motivo che, tuttavia, si appalesa anche manifestamente infondato. Al fine di chiarire quanto sopra, è utile richiamare alcuni principi giurisprudenziali affermati in tema di principio di correlazione tra imputazione e sentenza sotto il profilo dell’elemento soggettivo. Orbene, come è noto, l’art. 521 c.p.p., consente l’effettività del contraddittorio in seno al processo penale. Il fatto addebitato non è cristallizzato irrevocabilmente nel decreto che dispone il giudizio, potendo il P.M. operare delle modifiche alla propria contestazione, considerati i diversi e/o nuovi elementi venuti alla luce nel corso dell’istruttoria, rispettando le regole predisposte nel codice di rito in base agli artt. 516, 517 e 518 c.p.p Una mobilità dei confini fattuali che però dovrà consentire l’esercizio del diritto di difesa dell’imputato, non potendo lo stesso essere condannato per un fatto diverso o ulteriore rispetto a quello costituente oggetto dell’imputazione e sul quale ha inizialmente elaborato la propria strategia difensiva. Certamente non preteribile è avere ben chiaro cosa si intenda per fatto diverso o fatto nuovo perché possa accertarsi se la decisione finale si discosti o meno dell’accusa. La locuzione fatto nuovo , di cui all’art. 518 c.p.p., denota un accadimento assolutamente difforme da quello contestato, e l’emergere in dibattimento di accuse in nessun modo rintracciabili nel decreto di rinvio o di citazione a giudizio. Per fatto diverso - che, ai sensi dell’art. 516 c.p.p., consente la modifica dell’imputazione - deve, invece, intendersi non solo un fatto che integri una imputazione diversa, restando esso invariato, ma anche un fatto che presenti connotati materiali difformi da quelli descritti nella contestazione originaria, rendendo necessaria una puntualizzazione nella ricostruzione degli elementi essenziali del reato Cass., Sez. II, 10 febbraio 2012, n. 18868 . Sono diversi quei fatti per i quali non sia possibile individuare un nucleo comune, con la conseguenza che gli stessi si pongono tra loro non in un rapporto di continenza, bensì di eterogeneità. Modifica rilevante ai fini dell’applicazione dell’art. 521 c.p.p., è quella tradottasi in una mutazione di quello che è definibile come lo scheletro dell’imputazione fatto tipico, nesso causale, elemento psicologico del reato. Non altrettanto rilevanti sono invece gli interventi modificativi dei dati circostanziali, essendo questi esterni alla fattispecie penale così come descritta dalla disposizione normativa, e i quali potranno o meno essere rilevanti, soprattutto nella fase di determinazione della pena non incide necessariamente sull’effettivo esercizio di una efficace difesa, ad esempio, la modifica in sentenza del locus commissi delicti Cass., Sez. IV, 18 febbraio 2009, n. 17039 . Tuttavia la giurisprudenza ritiene che per verificare il rispetto del principio di cui all’art. 521 c.p.p., non sia sufficiente un mero raffronto letterale tra il fatto-reato descritto nell’imputazione e quello delineato in sentenza, occorrendo invece tenere in conto se l’imputato abbia o meno avuto la possibilità concreta di difendersi in relazione allo stesso la nozione strutturale di fatto contenuta nelle disposizioni che si assume violata, va coniugata con quella funzionale, fondata sull’esigenza di reprimere solo le effettive lesioni del diritto di difesa Cass. Sez. I, 18 giugno 2013, n. 35574 . In merito sono intervenute anche le Sezioni Unite di questa Corte Sez. Un., sentenza 13 ottobre 2010, n. 36551 perché si abbia un mutamento del fatto addebitato è necessaria una trasformazione radicale nei suoi elementi essenziali della fattispecie concreta, sussunta nell’ipotesi criminosa astratta, tale da determinare un’incertezza sull’oggetto della imputazione, derivandone un pregiudizio reale del diritto di difesa dell’imputato, il che difetterebbe qualora, durante l’iter processuale, sia stato posto nella condizione di difendersi in ordine a quanto addebitato. Si è così esclusa la violazione del principio di correlazione qualora sussista un rapporto di continenza, ossia laddove il più contenga il meno , nonché nell’ipotesi in cui si sia assistito ad una degradazione dell’elemento soggettivo. Si è inoltre asserito che la conoscenza dei confini dell’accusa possa avvenire anche per il tramite di atti diversi da quelli previsti per le contestazioni formali, come ad esempio qualora si sia svolto un interrogatorio sui fatti successivamente non inclusi nei capi di imputazione. La giurisprudenza, infatti, ha puntualizzato che l’inosservanza dell’art. 521 c.p.p., non si verificherebbe quando l’accusa venga precisata ovvero integrata dal giudice sulla base delle risultanze probatorie acquisite durante il processo portate a conoscenza dell’imputato e formanti oggetto di una contestazione sostanziale, con conseguente possibilità di attivare in merito la propria difesa Cass., Sez. III, 27 febbraio 2008, n. 15665 . 7. Tanto premesso e facendo coerente applicazione dei principi affermati da questa Corte in merito all’art. 521 c.p.p., è decisivo considerare nel caso in esame il contenuto dell’imputazione. Al capo a della rubrica, la pubblica accusa individuava il fine perseguito dall’agente nel reato di cui all’art. 640 c.p Orbene, perché il delitto di truffa possa configurarsi è necessario non soltanto che siano stati posti in essere artifizi o raggiri idonei a indurre in errore la persona offesa, ma anche che l’agente abbia procurato a sé o ad altri un ingiusto profitto, con altrui danno. Ponendo a confronto tale fattispecie con il D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 167, comma 2, è di palmare evidenza come l’imputato, nella determinazione della propria difesa, abbia tentato di dimostrare che nessun vantaggio egli stesso o altri avevano conseguito, dimostrando anche l’assenza dell’altrui danno. L’ipotesi criminosa descritta nel Codice della privacy indica in tali elementi vantaggio/nocumento lo scopo caratterizzante il dolo specifico richiesto ai fini della sussumibilità della fattispecie concreta in quella astratta, dovendosi qui rammentare che il legislatore non richiede che il fine perseguito profitto/danno si sia effettivamente concretizzato perché l’agente sia punibile. Quanto al danno della persona offesa, la disposizione normativa non pone alcuna precisazione, potendo quindi concretizzarsi in qualsiasi pregiudizio giuridicamente rilevante per il soggetto passivo. Nel caso di specie esso si è sostanziato non solo nel vulnus al buon nome commerciale dell’azienda e del suo titolare, ma anche nella rappresentazione a terzi della possibilità di acquisto ad un prezzo sensibilmente inferiore al suo valore commerciale della tenuta a fronte del forte indebitamento del proprietario. Non è dunque rinvenibile alcun pregiudizio per il diritto di difesa dell’imputato, dal momento che il giudice ha ritenuto non sussistente il reato di truffa riscontrando comunque la sussistenza dell’elemento soggettivo richiesto dall’art. 167, comma 2, citato, nonché del nocumento della persona offesa. Da qui, dunque, l’inammissibilità del primo motivo. 8. Parimenti manifestamente infondato è il secondo motivo. Ed invero, con riferimento alle attenuanti generiche, come anticipato in sede di sintesi della motivazione della sentenza impugnata, i giudici di appello non avevano ritenuto sufficiente il mero stato di incensuratezza, non ravvisando elementi ulteriori e diversi valutabili in senso favorevole all’imputato, tenuto conto della gravità della condotta anche in ragione della particolare posizione dell’imputato all’interno della banca. La lettura della sentenza di primo grado la cui motivazione si integra reciprocamente con quella d’appello, attesa la natura di doppia conforme in punto di trattamento sanzionatorio , consente di confermare come non fossero emersi elementi tali da giustificare il riconoscimento delle attenuanti generiche, non avendo lo stesso fornito alcun contributo ricostruttivo della vicenda diversamente da quanto affermato nel secondo motivo del ricorso . La Corte di Appello ha inoltre evidenziato la gravità della condotta anche in ragione della posizione del ricorrente in seno all’istituto bancario. Il M. infatti risulta avere trasmesso dati sensibili della persona offesa al fine di reperire sul mercato acquirenti interessati alla tenuta OMISSIS così da soddisfare il credito vantato dalla banca nei confronti del F. e, in tale modo, recuperare la situazione di scoperto. Accertati risultano sia il fine di profitto, che non necessariamente deve essere personale, sia il nocumento della persona offesa. Quanto sopra rende palesemente inammissibile la doglianza, dovendosi richiamare la giurisprudenza di questa Corte secondo cui la sussistenza di circostanze attenuanti rilevanti ai fini dell’art. 62 bis c.p., è oggetto di un giudizio di fatto e può essere esclusa dal giudice con motivazione fondata sulle sole ragioni preponderanti della propria decisione, non sindacabile in sede di legittimità, purché non contraddittoria e congruamente motivata, neppure quando difetti di uno specifico apprezzamento per ciascuno dei pretesi fattori attenuanti indicati nell’interesse dell’imputato Sez. 6, n. 42688 del 24/09/2008 - dep. 14/11/2008, Caridi e altri, Rv. 242419 . 9. Non rileva, infine, la circostanza che il termine di prescrizione del reato, in assenza di sospensioni, sia interamente decorso alla data del 22.10.2017. Ed infatti, essendo stata la sentenza impugnata emessa in data antecedente 19.09.2017 , trova applicazione il consolidato principio per cui l’inammissibilità del ricorso per cassazione dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell’art. 129 c.p.p., Nella specie la prescrizione del reato maturata successivamente alla sentenza impugnata con il ricorso Sez. U, n. 32 del 22/11/2000 - dep. 21/12/2000, D. L, Rv. 217266 . 10. Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché, in mancanza di elementi atti ad escludere la colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al versamento della somma, ritenuta adeguata, di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle ammende. 11. Segue anche la condanna del ricorrente alla rifusione delle spese relative all’azione civile, che liquida in applicazione dei criteri di cui al D.M. n. 55 del 2014, in misura media, in complessivi Euro 3.500,00 oltre accessori di legge. 12. Segue l’oscuramento dei dati personali, attesa la natura del reato contestato. P.Q.M. La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di duemila Euro in favore della Cassa delle ammende. Condanna altresì il ricorrente alla rifusione delle spese relative all’azione civile che liquida in complessivi Euro 3.500,00 oltre accessori di legge.