Decreto penale: da quando decorre il termine per chiedere la sospensione con messa alla prova?

In tema di opposizione a decreto penale di condanna, la legge applicabile è quella in vigore al momento della notifica all’interessato pertanto, il termine per chiedere la sospensione del processo con messa alla prova decorre da quella data, non rilevando che il decreto, emesso prima della legge che ha introdotto tale istituto, non riportasse l’avviso della facoltà di ricorrervi.

Sul tema la Corte di Cassazione con sentenza n. 14727/19, depositata il 4 aprile. Il caso. L’imputato è stato condannato con decreto penale per il reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali opposto il decreto penale di condanna, il Tribunale ne confermava la responsabilità, così come la Corte d’appello. Giunta la vicenda davanti alla Corte di legittimità, l’interessato ha articolato varie censure tra cui quella relativa al mancato avviso, in calce al decreto di condanna notificato, della facoltà dell’imputato di chiedere, mediante opposizione, la sospensione del procedimento con messa alla prova. Il decreto penale è stato emesso prima della legge n. 67/2014. Nel caso concreto il decreto penale di condanna era stato emesso anteriormente all’entrata in vigore della disciplina sulla sospensione del processo con messa alla prova. La notifica al destinatario, invece, avveniva in data successiva. La parziale incostituzionalità dell’art. 460 c.p.p La Corte costituzionale, con sentenza n. 210/2016, ha dichiarato la parziale incostituzionalità della norma nella parte in cui non prevede che il decreto penale di condanna contenga l’avviso della facoltà dell’imputato di chiedere, mediante opposizione al decreto, la sospensione del procedimento con messa alla prova. L’avviso all’imputato della possibilità di richiedere la messa alla prova costituisce una garanzia essenziale per il godimento del diritto di difesa pertanto, la sanzione di nullità prevista nel caso di omissione dell’avviso prescritto trova la sua ratio nella perdita irrimediabile della facoltà di chiederla, se per la richiesta è previsto un termine di decadenza. Il principio di retroattività favorevole non si applica alle disposizioni processuali. Il principio della retroattività della lex mitior è stato risolto in termini di applicabilità alle sole disposizioni che definiscono i reati e le pene ma non trova spazio – ferma restando la possibilità per il legislatore di prevedere una disciplina transitoria – l’applicabilità retroattiva di un istituto di natura preminentemente processuale quale la sospensione del processo con messa alla prova in cui il beneficio dell’estinzione del reato, connesso all’esito positivo della messa alla prova, presuppone lo svolgimento di un iter processuale alternativo alla celebrazione del giudizio. Nel caso concreto, tuttavia, la questione non è tanto l’inapplicabilità retroattiva ma concerne l’esatta individuazione della legge applicabile alla luce della pronuncia di parziale illegittimità incostituzionale. La legge applicabile. L’opposizione a decreto penale di condanna costituisce espressione del diritto di difesa si ricordi che prima della notifica del decreto di condanna, l’interessato potrebbe anche non sapere del procedimento penale a suo carico che deve essere esercitato in modo consapevole ed informato. Infatti, la facoltà di opposizione integra quel contraddittorio assente nella fase precedente. La legge applicabile è quella vigente al momento in cui, attraverso la notifica, l’avviso giunge a conoscenza del destinatario. È in tale momento che l’omessa indicazione dell’avviso della facoltà di scegliere la messa alla prova, astrattamente configura una nullità, come appunto concluso dalla Corte costituzionale. Infatti solo con la ricezione del decreto l’interessato è posto a conoscenza del reato ascrittogli e delle proprie prerogative difensive che devono essere esplicitate nel decreto notificato. Stando così le cose, la nullità patologica dell’avviso che abbia omesso tale indicazione determina che il termine previsto a pena di decadenza per l’utile esercizio della richiesta di messa alla prova non è mai iniziato a decorrere, con conseguente mancata maturazione della decadenza astrattamente, dunque, l’imputato poteva essere rimesso in termini o chiedere di accedere al beneficio alla prima udienza utile. Solo eccezione di nullità. Nella vicenda concreta, però, alla prima udienza l’imputato si limitava ad eccepire la nullità del decreto senza chiedere la messa alla prova. Benché l’eccezione proposta dimostrasse la conoscenza della facoltà medio tempore riconosciuta dalla legge e dalla Corte costituzionale, l’interessato non ha mostrato di volerne profittare concretamente. Non coltivato l’interesse concreto. L’obbligo informativo, presidiato dalla sanzione di nullità, non può ridursi a requisito formale perché è invece strumentale all’effettivo esercizio del diritto di difesa che si estrinseca nella richiesta di accesso al beneficio. Sull’imputato, dunque, incombeva la preliminare richiesta di accesso alla messa alla prova e la preliminare richiesta di sospensione del procedimento in corso o comunque di rimessione in termini se rigettata, avrebbe potuto sollevare l’eccezione di nullità dimostrando di avere un interesse concreto. Nessuna decadenza. La Corte spiega che l’imputato non era affatto decaduto dalla possibilità di avanzare la richiesta in quanto la nullità si era perfezionata con la ricezione dell’atto avverso il quale è stata proposta opposizione. Più precisamente non incorreva nella preclusione che fissa quale termine perentorio per l’istanza di sospensione del procedimento quello indicato per la proposizione dell’opposizione stessa. Pertanto, se ritualmente formulata la relativa istanza di sospensione del processo con messa alla prova, avrebbe potuto essere accolta non perché si applichi retroattivamente la disciplina che l’ha introdotta nel nostro ordinamento ma perché la legge in vigore è quella della data della notifica.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 5 febbraio – 4 aprile 2019, n. 14727 Presidente Aceto – Relatore Galterio Ritenuto in fatto 1. Con sentenza in data 11.7.2018 la Corte di Appello di Catania ha confermato, per quanto qui interessa, la pronuncia resa dal Tribunale della stessa città a seguito di opposizione a decreto penale di condanna in ordine alla penale responsabilità di B.G. per il reato di cui alla L. n. 638 del 1983, art. 2, per aver in qualità di legale rappresentante della s.r.l. Giu.Pi.Bi. Costruzioni omesso il versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali relative all’anno 2010, rideterminando la pena inflittagli in primo grado ad un mese e quindici giorni di reclusione ed Euro 200,00 di multa. 2. Avverso il suddetto provvedimento l’imputato ha proposto, per il tramite del proprio difensore, ricorso per cassazione, articolando quattro motivi di seguito riprodotti nei limiti di cui all’art. 173 disp. att. c.p.p 2.1. Con il primo motivo eccepisce, in relazione al vizio di violazione di legge riferito all’art. 178 c.p.p., comma 1, lett. c , art. 185 c.p.p., commi 1 e 3, art. 168 c.p.p., e art. 460 c.p.p., comma 1, lett. e , la nullità del decreto penale di condanna per mancata indicazione dell’avviso della facoltà dell’imputato di chiedere, mediante l’opposizione, la sospensione del procedimento con messa alla prova secondo quanto statuito dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 21 del 6.7.2016. Contesta l’inapplicabilità della suddetta previsione normativa così come sostenuto dalla Corte di Appello atteso che, pur essendo stato il decreto penale di condanna emesso antecedentemente all’entrata in vigore della legge che ha Ndr testo originale non comprensibile la sospensione del procedimento penale, il giudizio penale, instauratosi a seguito dell’opposizione presentata dall’imputato in data 10.9.2015, si era svolto nel vigore della medesima legge, onde doveva ritenersi che la previsione di una nuova causa di estinzione del reato fosse comunque applicabile in base al principio del favor rei in relazione alla successione di leggi nel tempo. 2.2. Con il secondo motivo contesta, in relazione al vizio di violazione di legge riferito alla L. n. 638 del 1983, art. 2, così come modificato dal D.Lgs. n. 211 del 1994, art. 1 comma 1 bis, la configurabilità del reato ascrittogli per mancanza di prova dell’effettivo pagamento delle retribuzioni ai propri dipendenti, il quale soltanto implica il trattenimento da parte del datore di lavoro delle ritenute di legge, prova questa che non poteva essere configurata con i Modelli DM 10 che essendo elaborati dal sistema informatico dell’INPS sulla base dei dati trasmessi dallo stesso obbligato, rappresentavano al più una ricognizione di debito, ma non un’attestazione di pagamento. 2.3. Con il terzo motivo invoca sentenza di assoluzione ai sensi dell’art. 131 bis c.p., atteso che la abitualità del reato, ritenuta dalla Corte di Appello ostativa1dipendeva unicamente dal grave stato di crisi in cui versava la società, confermata dalla successiva sentenza di fallimento. 2.4. Con il quarto motivo eccepisce, in relazione al vizio di violazione di legge riferito all’art. 157 c.p., e al vizio motivazionale, l’intervenuta prescrizione del reato in data antecedente alla pronuncia della sentenza impugnata, coincidendo il momento consumativo del reato, secondo la normativa previgente in quanto più favorevole, con la scadenza prevista per ogni versamento mensile. Considerato in diritto 1. Il primo motivo non può ritenersi fondato. La peculiarità della fattispecie in esame rispetto alla problematica dell’applicazione intertemporale dell’istituto della messa alla prova introdotto nel sistema processuale penale dalla L. 28 aprile 2014, n. 67, risiede nel fatto che il decreto penale di condanna che ha dato origine al presente procedimento risulta essere stato emesso in data 6.6.2013, ovverosia antecedentemente all’entrata in vigore della nuova normativa, ma è stato notificato al destinatario in data ad essa successiva, come confermato dall’opposizione tempestivamente presentata in data 10.9.2015. Alla prima udienza svoltasi innanzi al Tribunale di Catania, allorquando era già intervenuta la pronuncia di parziale incostituzionalità dell’art. 460 c.p.p., comma 1, nella parte in cui non prevede che il decreto penale di condanna contenga l’avviso della facoltà dell’imputato di chiedere mediante l’opposizione la sospensione del procedimento con messa alla prova Corte Cost. n. 210 del 6.7.2016 , l’imputato ha sollevato eccezione di nullità del decreto penale di condanna notificatogli in quanto mancante del suddetto avviso, rigettata dal giudice procedente con conferma da parte dei giudici di appello sul rilievo che il decreto penale di condanna era stato emesso in data anteriore all’entrata in vigore della citata L. n. 67 del 2014. Se in termini generali il principio di retroattività della lex mitior è stato risolto da questa Corte, nel solco della giurisprudenza costituzionale, in termini di applicabilità alle sole disposizioni che definiscono i reati e le pene che li reprimono, non trovando spazio, in difetto di una disciplina transitoria appositamente prevista dal legislatore, l’applicabilità retroattiva di un istituto di natura preminentemente processuale in cui il beneficio dell’estinzione del reato, connesso all’esito positivo della messa in prova, presuppone lo svolgimento di un iter processuale alternativo alla celebrazione del giudizio ex multis, Sez. 3, n. 22104 del 14/04/2015 - dep. 27/05/2015, Zheng, Rv. 263666 , nel caso di specie deve tuttavia escludersi che l’omessa indicazione nel decreto penale di condanna dell’avviso concernente la facoltà per l’imputato di richiedere la messa in prova e la conseguente sospensione del procedimento ai sensi dell’art. 464 bis c.p.p., implicasse un’applicazione retroattiva della sopravvenuta normativa. L’opposizione al decreto penale di condanna costituisce espressione del diritto di difesa che deve essere esercitato in modo consapevole ed informato a tanto provvede l’avviso di cui all’art. 460 c.p.p., comma 1, lett. e , la cui natura recettizia non può essere messa seriamente in discussione, con la conseguenza che la legge applicabile è quella vigente al momento in cui, attraverso la notifica, l’avviso stesso giunge a conoscenza del destinatario. È in tale momento che la nullità, costituita dall’omessa indicazione nell’atto dell’avviso della facoltà di accesso alla messa in prova, derivante con effetti ex tunc dalla citata pronuncia della Consulta, e perciò avente diretta ricaduta sull’esercizio del diritto di difesa dell’imputato, si è consumata essendo questi, solo con la ricezione del decreto penale di condanna, venuto a conoscenza del reato ascrittogli e, soprattutto, delle proprie prerogative difensive. La nullità patologica dell’avviso comporta che il termine previsto a pena di decadenza per l’utile esercizio della richiesta di messa alla prova non è mai iniziato a decorrere, con conseguente mancata maturazione della decadenza stessa e possibilità per l’imputato di essere rimesso in termini ovvero di richiedere di accedere al beneficio alla prima udienza utile. Tuttavia l’imputato si è limitato a sollevare eccezione di nullità del decreto, non seguita da alcuna richiesta di messa alla prova. Questi, quindi, pur mostrandosi pienamente edotto della facoltà riconosciutagli dalla legge medio tempore intervenuta, non ha tuttavia mostrato alcun interesse concreto all’esercizio della prerogativa accordatagli. Non può non osservarsi al riguardo che la stessa pronuncia della Corte Costituzionale 210/2016 sopra citata ha chiarito come l’avviso all’imputato della possibilità di richiedere la messa alla prova costituisca, al pari di quanto accade per i riti alternativi, una garanzia essenziale per il godimento di un diritto della difesa , e che la sanzione della nullità ex art. 178 c.p.p., comma 1, lett. c , nel caso di omissione dell’avviso prescritto, trovi la sua ragione essenzialmente nella perdita irrimediabile della facoltà di chieder li , se per la richiesta è stabilito un termine a pena di decadenza. Ciò sta a significare che l’obbligo informativo, presidiato dalla sanzione di nullità, non può ridursi ad un mero requisito formale, essendo al contrario strumentale all’effettivo esercizio del diritto di difesa che si estrinseca nella stessa richiesta di accesso al beneficio altrimenti preclusa. Incombeva pertanto sull’imputato la preliminare richiesta di accesso alla messa in prova e di conseguente sospensione del procedimento in corso o comunque di remissione in termini, a seguito del rigetto della quale soltanto avrebbe potuto sollevare l’eccezione di nullità, dimostrando in tal modo di aver un interesse concreto alla violazione della norma che impone di includere nel decreto penale di condanna l’avviso relativo alla possibilità di accesso all’istituto della messa in prova. Non essendo infatti egli affatto decaduto dalla possibilità di avanzare la relativa richiesta in quanto nullità si era già perfezionata al momento della ricezione dell’atto avverso il quale era diretta l’opposizione, non incorreva nella preclusione di cui all’art. 464 bis c.p.p., comma 2, che fissa quale termine perentorio per l’istanza di sospensione del procedimento quello indicato per la proposizione dell’opposizione medesima. Di conseguenza l’accoglimento della relativa richiesta, ove fosse stata formulata, non implicava alcuna applicazione retroattiva delle disposizioni introdotte con la L. n. 67 del 2014. Deve perciò ritenersi che difetti in capo al ricorrente l’interesse in termini di attualità e concretezza alla censura svolta con la presente impugnativa, non potendo questi dolersi ex post della violazione di una garanzia posta a tutela di un diritto che non ha mai inteso esercitare. 2. Passando al secondo motivo, correttamente la prova della corresponsione della retribuzione ai lavoratori, costituente il presupposto per la configurabilità della fattispecie criminosa in contestazione, è stata tratta dai giudici di merito dalla presentazione dei modelli DM10, attestanti le retribuzioni corrisposte ai dipendenti e l’ammontare degli obblighi contributivi, in assenza di elementi di segno contrario. Per consolidato indirizzo ermeneutico, infatti, i suddetti Modelli hanno natura ricognitiva della situazione debitoria del datore di lavoro e la loro presentazione equivale all’attestazione di aver corrisposto, fino a prova contraria, le retribuzioni in relazione alle quali è stato omesso il versamento dei contributi Sez. 3, n. 37145 del 10/04/2013, Rv. 256957 Sez. 3, n. 21619 del 14/04/2015, Rv. 263665 . Le doglianze articolate sul punto dalla difesa sono, oltre che manifestamente infondate, altresì generiche, non confrontandosi con le puntuali argomentazioni spese dalla Corte distrettuale il ricorso si limita ad affermare che i Modelli DM 10 non provengono dallo stesso datore di lavoro in quanto generati dal sistema informatico dell’INPS, rilievo questo contraddetto dal fatto che trattasi di documenti che, seppure elaborati dall’istituto previdenziale, sono formati esclusivamente sulla base dei dati risultanti dalle denunce individuali e dalla denuncia aziendale fornite dallo stesso contribuente Sez. 3, n. 42715 del 28/06/2016 - dep. 10/10/2016, Franzoni, Rv. 267781 , ma non evidenzia la sussistenza di alcun elemento contrario che lasciasse desumere la mancata corresponsione dei salari ai dipendenti della società amministrata dall’imputato nel periodo in contestazione e che perciò potesse scardinare la relativa presunzione. 3. Il terzo motivo è inammissibile essendo stata la causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto invocata per la prima volta innanzi a questa Corte è giurisprudenza pacifica che non possano essere dedotte con il ricorso per cassazione questioni sulle quali il giudice di appello abbia correttamente omesso di pronunciare perché non devolute alla sua cognizione Sez. 5, n. 28514 del 23/04/2013 - dep. 02/07/2013, Grazioli Gauthier, Rv. 255577 . 4. Fondato è, invece, il quarto motivo concernente la prescrizione del reato, nei limiti di seguito indicati. In ordine al termine di decorrenza della prescrizione va premesso che per effetto della depenalizzazione introdotta dal D.Lgs. 15 gennaio 2016, n. 8, art. 3, comma 6, per l’omesso versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali con importo inferiore a 10.000 Euro annui, il reato di cui al D.L. n. 463 del 1983, art. 2, conv. in L. n. 683 del 1983, si configura, stante la soglia di punibilità strettamente collegata al periodo temporale dell’anno, come una fattispecie caratterizzata dalla progressione criminosa nel cui ambito, una volta superato il limite di legge, le ulteriori omissioni nel corso del medesimo anno si atteggiano a momenti esecutivi di un reato unitario a consumazione prolungata la cui definitiva cessazione viene a coincidere con la scadenza prevista dalla legge per il versamento dell’ultima mensilità, ovvero, come noto, con il termine del 16 del mese di gennaio dell’anno successivo Sez. 3, n. 37232 del 11/05/2016 - dep. 08/09/2016, Lanzoni, Rv. 268308 . Ciò comporta, dunque che, rispetto alla precedente figura di reato, il momento consumativo sia evidentemente diverso mentre nel precedente assetto normativo il reato si consumava in corrispondenza di ogni omesso versamento mensile, ovverosia al giorno sedici del mese successivo a quello cui si riferiscono i contributi cfr., da ultimo, Sez.3, n. 26732 del 05/03/2015, P.G. in proc. Bongiorno, Rv. 264031 , nell’attuale disciplina la consumazione appare coincidere, secondo una triplice diversa alternativa, o con il superamento, a partire dal mese di gennaio, dell’importo di Euro 10.000 ove allo stesso non faccia più seguito alcuna ulteriore omissione, o con l’ulteriore o le ulteriori omissioni successive sempre riferite al medesimo anno ovvero, definitivamente e comunque, laddove anche il versamento del mese di dicembre sia omesso, con la data del 16 gennaio dell’anno successivo. Con riferimento tuttavia ai fatti pregressi all’entrata in vigore della nuova disciplina laddove, come nel caso di specie, l’omissione annuale abbia superato l’importo di 10.000 Euro, previgente norma e nuova norma debbano essere poste a confronto tra loro onde verificare quale delle due sia concretamente più favorevole con riferimento, in particolare, al momento consumativo determinante al fine di individuare la decorrenza del termine di prescrizione cfr. la sentenza 37232/2016, Lanzoni, cit. , tenuto conto che in ogni caso trova applicazione, in entrambe le fattispecie, il periodo di sospensione di mesi tre di cui al D.L. n. 463 del 1983, art. 2, comma 1 quater, non inciso infatti dalle modifiche di cui sopra. Detto termine determina infatti ope legis la sospensione del corso della prescrizione per il tempo necessario a consentire al datore di lavoro di avvalersi della causa di non punibilità di cui all’art. 2, comma 1 bis, del citato D.L. Sez. 3, n. 30178 del 17/01/2017 - dep. 16/06/2017, Strazza, Rv. 270257 . È chiaro che nella fattispecie in esame, trattandosi di versamenti mensili nettamente inferiori all’importo di Euro 10.000, il vecchio regime sia in concreto più favorevole per l’imputato posto che la prescrizione va calcolata mese per mese, con conseguente retrodatazione del termine astrattamente computabile al giorno 16 del mese successivo, rispetto a quello previsto dalla vigente normativa Sez. 3, n. 47902 del 18/07/2017 - dep. 18/ 10/2017, Abrate, Rv. 271446 . Calcolando, pertanto, la prescrizione per le singole mensilità in contestazione afferenti all’intera annualità e dunque dal gennaio al dicembre 2010, occorre computare quale termine di decorrenza il giorno 16 del mese successivo, nonché i tre mesi successivi per effetto della sospensione di cui al medesimo D.L. n. 463 del 1983, art. 2, comma 1 quater, e a decorrere dalla data così ottenuta applicare il periodo di prescrizione di 7 anni e 6 mesi di cui agli art. 157 c.p. e ss., oltre a due periodi di sospensione ex art. 159 c.p., di cui il primo di 112 giorni per rinvio su istanza della difesa dal 3.2.2017 al 26.5.2017 , ed il secondo calcolabile in 60 giorni stante il legittimo impedimento dell’imputato dal 9.1.2018 al 23.5.2018 al momento della pronuncia impugnata, resa in data 11.7.2018, erano pertanto già prescritte le mensilità antecedenti all’aprile 2010. Dovendosi conseguentemente stante la parziale fondatezza del motivo di ricorso e la conseguente corretta instaurazione del rapporto di impugnazione, verificare d’ufficio le sopravvenute cause di estinzione del reato, deve rilevarsi la intervenuta prescrizione, secondo i calcoli sopra indicati, di tutte le mensilità fino ad ottobre 2010. La sentenza deve pertanto essere annullata senza rinvio limitatamente alle mensilità sino ad ottobre 2010, mentre per la successiva mensilità di novembre, stante il perfezionamento del reato alla data del 16.12.2010, va disposto il rinvio ad altra Sezione della Corte di Appello di Catania, che dovrà provvedere alla rideterminazione del trattamento sanzionatorio, impropriamente determinato come se si trattasse di un reato unico. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata senza rinvio limitatamente ai reati commessi fino al 16 ottobre 2010 compreso perché estinti per prescrizione e rinvia ad altra Sezione della Corte di Appello di Catania per la rideterminazione della pena in ordine ai residui reati commessi fino al 16.12.2010. Rigetta nel resto il ricorso.