Confermata in Cassazione la pena fissata in appello, cioè 20 giorni di reclusione. Evidente, secondo i Giudici, la consapevolezza dell’uomo che la risposta negativa alla sua richiesta di intervento avrebbe suscitato la reazione caotica delle persone che si erano presentate con lui nella sala consiliare del Comune.
Urla, striscioni di protesta e tensione altissima obbligata la sospensione del consiglio comunale. A esserne ritenuto responsabile è un uomo – un operaio disoccupato e sotto sfratto – che ha ripetutamente chiesto di poter prendere la parola durante l’assemblea, consapevole, secondo i giudici, che il “no” del presidente avrebbe scatenato la reazione delle persone che erano con lui. Consequenziale la sua condanna a 20 giorni di reclusione per il reato di “interruzione di pubblico servizio”. Irrilevante il fatto che lo stop sia durato solo 20 minuti. Privo di senso, poi, il richiamo difensivo al diritto, garantito dalla Costituzione, di manifestare liberamente il proprio pensiero Cassazione, sentenza numero 12218/19, sez. VI Penale, depositata oggi . Intervento. Clima da stadio nella sala consiliare di un Comune in provincia di Cremona. Siamo alla fine di ottobre del 2011 e diverse persone si presentano ad assistere al consiglio comunale a unirle è la voglia di contestare lo sfratto comunicato a un loro amico e alla sua famiglia , un operaio che è anche senza lavoro perché licenziato dalla propria azienda. La seduta comincia regolarmente. Poi, ad un tratto, l’operaio chiede ripetutamente e a gran voce di poter parlare, ricevendo anche il beneplacito di alcuni consiglieri dell’opposizione. Di diverso parere, però, il presidente dell’assemblea, che ribadisce a più riprese il “no” all’ipotesi di un intervento da una persona esterna al consiglio comunale. E questa netta presa di posizione scatena molteplici reazioni, tra urla di protesta e striscioni srotolati ed esposti nell’aula del consiglio. A quel punto, preso atto che non si riesce a riportare l’ordine nella sala, il presidente dell’assemblea opta per l’interruzione della seduta. I lavori in consiglio riprenderanno 20 minuti dopo. Ma quello stop improvviso e imprevisto costa un processo all’operaio, che finisce sotto accusa per «interruzione di pubblico servizio». Per i giudici, prima in Tribunale e poi in Corte d’appello, il quadro probatorio è sufficiente per una condanna. L’uomo viene punito con «20 giorni di reclusione», poiché «ha turbato la regolarità della seduta del consiglio comunale, determinandone la sospensione». Reazione. Ora, quasi otto anni dopo quell’episodio, arriva la chiusura della vicenda giudiziaria, con la definitiva condanna per l’operaio. Respinta in Cassazione la linea difensiva secondo cui l’uomo sotto processo «ha chiesto di parlare» durante il consiglio comunale e quindi «ha cercato di avvalersi del diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero, diritto garantito dalla Costituzione». In sostanza, sempre secondo l’ottica difensiva, non vi era alcuna intenzione di «interrompere la seduta» difatti, osserva il legale, ci furono «cori di protesta» solo quando all’operaio «fu impedito di intervenire» e di far sentire la propria voce. Peraltro, «la sospensione durò solo 20 minuti, e poi la seduta fu ripresa» regolarmente, aggiunge il legale. Queste obiezioni non hanno convinto però i Giudici della Cassazione, i quali osservano che l’uomo finito sotto processo «non si era limitato a chiedere la parola», bensì, come raccontato dal presidente del consiglio comunale, «pretendeva a viva voce di parlare, tant’è che disturbava ed interrompeva l’adunanza». E, una volta fattogli presente che «il regolamento non prevedeva alcun intervento del pubblico», la richiesta di parlare «era stata reiterata» comunque, così da «innescare la reazione delle persone presenti nella sala, che si erano alzate ed avevano mostrato alcuni striscioni». Proprio questa dinamica è ritenuta sufficiente per desumere la consapevolezza dell’uomo di «provocare una reazione tumultuosa delle persone entrate in sala insieme a lui» e di creare così i presupposti per una sospensione della seduta consiliare, poi ripresa solo grazie all’intervento delle forze dell’ordine. A fronte di tale quadro, è irrilevante, osservano dalla Cassazione, il fatto che «l’interruzione sia durata solo 20 minuti». E privo di senso è il richiamo al «diritto alla libertà di espressione del pensiero» che, sottolineano i magistrati, è sì garantito dalla Costituzione, ma «cessa di essere legittimo quando travalica nella lesione di altri interessi costituzionalmente tutelati», come, ad esempio, «l’interruzione di un pubblico servizio».
Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 12 febbraio – 19 marzo 2019, numero 12218 Presidente Fidelbo – Relatore Criscuolo Ritenuto in fatto 1. Il difensore di Mi. Tr. Cl. ha proposto ricorso avverso la sentenza indicata in epigrafe con la quale la Corte di appello di Brescia, in parziale riforma della sentenza emessa in data 19 settembre 2014 dal Tribunale di Cremona, ha riconosciuto all'imputato le attenuanti generiche e per l'effetto ha ridotto la pena a giorni 20 di reclusione, confermando nel resto la sentenza appellata, che aveva dichiarato l'imputato colpevole del reato di cui all'articolo 340 cod. penumero per aver turbato la regolarità della seduta di consiglio comunale, determinandone la sospensione. Ne chiede l'annullamento per i seguenti motivi 1.1 violazione di legge per erronea applicazione dell'articolo 340 cod. penumero e 21 Cost. nonché mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione per non avere la Corte di appello valutato adeguatamente le prove assunte nel giudizio di primo grado, che dimostrano la mancanza dell'elemento soggettivo del reato. Deduce che risulta provato soltanto che la sera dei fatti il Mi., insieme ad altre venti persone, si era recato presso la sala del consiglio comunale di Crema per assistere ai lavori e ad un certo punto aveva chiesto di parlare, ricevendo un diniego quindi, il Mi. si è avvalso del diritto di manifestare liberamente il suo pensiero, garantito dall'articolo 21 della Costituzione, anzi, ha solo tentato di farlo, in quanto gli fu negato di intervenire, nonostante il parere favorevole del capogruppo dell'opposizione. Il ricorrente non voleva interrompere la seduta, in quanto i cori intervennero solo dopo che al Mi. fu negato di intervenire, né vi è prova di un accordo con le altre persone, che reagirono in quanto trovavano ingiusto il rifiuto. Si sottolinea, inoltre, che la turbativa durò solo 20 minuti e, dopo la sospensione, disposta per ragioni di opportunità, la seduta fu ripresa quindi, non fu arrecato un reale pregiudizio, atteso che all'arrivo della polizia l'imputato e gli altri lasciarono l'aula 1.2 manifesta illogicità della motivazione con riferimento all'assoluzione dei coimputati, in quanto il primo giudice aveva ritenuto che, pur non potendo escludere che i coimputati intendessero sostenere le richieste del Mi., erano rimasti in silenzio, iniziando a protestare solo dopo il rifiuto opposto al ricorrente, ritenuto ingiusto, cosicché è contraddittoria l'affermazione di responsabilità del Mi., che come gli altri aveva ritenuto ingiusto il diniego. La sentenza impugnata, invece, afferma che l'azione di disturbo era programmata e organizzata 1.3 erronea applicazione dell'articolo 131-bis cod. penumero , in quanto la Corte di appello ha ritenuto che anche la modesta durata dell'interruzione non consente di ritenere la particolare tenuità del fatto per le modalità reiterate del disturbo, tali da richiedere l'intervento della forza pubblica, ma tale intervento aveva riguardato tutto il pubblico e non risulta provato che fosse stato il Mi. ad aver previsto e addirittura organizzato l'azione dei coimputati. Considerato in diritto 1. Il ricorso è infondato, in quanto la sentenza impugnata è motivata in modo congruo e conforme ai principi affermati da questa Corte in tema di interruzione di pubblico ufficio o servizio. Nel disattendere la prospettazione difensiva circa la mancanza di dolo nella condotta del ricorrente, la sentenza impugnata precisa che il Mi. non si era affatto limitato a chiedere la parola, atteso che, secondo la deposizione del presidente del consiglio comunale, pretendeva a viva voce, tant'è che disturbava ed interrompeva l'adunanza, di parlare . Sul punto la sentenza di primo grado aggiunge che, pur essendo stato rappresentato al Mi. che il regolamento non prevedeva alcun intervento del pubblico, la richiesta era stata reiterata ed insistente ed aveva innescato la reazione del pubblico, tant'è che le persone presenti si erano alzate ed avevano mostrato striscioni ed anche il capogruppo di minoranza aveva chiesto di sospendere la seduta e di sentire il Mi., ma anche tale richiesta non era stata accolta, non solo perché non prevista dal regolamento comunale, ma anche perché avrebbe costituito un precedente v. pag.1 e 2 della sentenza di primo grado . Ne deriva che correttamente i giudici di appello hanno disatteso la prospettazione riduttiva della difesa, soprattutto, avuto riguardo al subbuglio innescato dal comportamento dell'imputato, placato solo dall'intervento della forza pubblica, richiesto dal presidente della seduta. Considerato che ai fini della configurabilità del reato di interruzione di un ufficio ovvero di un servizio pubblico o di pubblica necessità, è necessario che il turbamento della regolarità abbia comportato e causato un'apprezzabile alterazione del funzionamento dell'ufficio o del servizio, ancorché temporanea Sez.5, numero 1913 del 16/10/2017, dep. 2018, Anumero e altri, Rv. 272321 e che non rileva che l'interruzione sia definitiva o il turbamento totale, essendo sufficiente, a tal fine, anche un'interruzione momentanea, purché di durata non irrilevante, o un turbamento relativo, purché non insignificante Sez. 5, sent. numero 15388 del 6/3/2014, Rv. 260217 , i giudici hanno fatto corretta applicazione di tali principi e correttamente ritenuto sussistente l'elemento psicologico del reato in ragione della insistente e pressante richiesta di intervenire del Mi., nonostante gli fosse stato chiarito che non era consentito in quella sede, così da costringere il presidente a ribadire il diniego e da provocare la reazione tumultuosa delle persone entrate in aula insieme a lui. Del tutto inconferente risulta, quindi, il riferimento al diritto alla libertà di espressione del pensiero, in quanto l'esercizio del diritto di manifestazione del pensiero, garantito dall'articolo 21, primo comma, Cost., cessa di essere legittimo quando travalichi nella lesione di altri interessi costituzionalmente tutelati, come quando si concreti in un comportamento integrante la fattispecie di cui all'articolo 340 cod. penumero con modalità di condotta, che esorbitino dal fisiologico esercizio di quei diritti Sez. 6, numero 46461 del 30/10/2013 Giannotti, Rv. 257452 Sez. 6, numero 7822 del 27/11/1998, Magnanelli e altri, Rv. 214755 , come avvenuto nel caso in esame. 2. Parimenti infondata è la dedotta contraddittorietà della motivazione relativa ai coimputati assolti assoluzione sulla quale la difesa fonda la netta separazione della condotta dell'imputato da quella degli altri presenti. I giudici di appello hanno, invece, sottolineato la condotta provocatoria ed insistente del Mi. e ravvisato nell'immediata azione di protesta e di supporto delle persone entrate insieme al ricorrente una conseguenza prevedibile della sua condotta, avuto riguardo alla condivisione di intenti ed all'azione di disturbo ed interruzione posta in essere con esibizione di striscioni, aventi ad oggetto la stessa rimostranza del Mi Quindi, la reazione collettiva, indipendentemente dalla validità delle rivendicazioni, era risultata adesiva al comportamento del Mi. e si era risolta in concreto in una persistente e massiccia azione di disturbo, non governata dai ripetuti richiami del presidente della seduta e dai ripetuti inviti a sedersi, a riporre gli striscioni e stare in silenzio, tanto da costringere il presidente ad abbandonare lo scranno, sospendendo, di fatto, la seduta, ed a richiedere l'intervento della polizia, che aveva fatto sgombrare l'aula e consentito la ripresa della seduta. Il rilievo attribuito a tali elementi giustifica la valutazione in punto di sussistenza dell'elemento psicologico, atteso che, come affermato da questa Corte, ai fini della configurabilità dell'elemento psicologico del delitto di cui all'articolo 340 cod. penumero , è sufficiente che il soggetto attivo sia consapevole che il proprio comportamento possa determinare l'interruzione o il turbamento del pubblico ufficio o servizio, accettando ed assumendone il relativo rischio Sez. 6, numero 39219 del 09/04/2013, Rv. 257081 . Ne consegue che in ragione delle modalità descritte coerentemente è stato ritenuto configurabile il reato, nonostante l'interruzione della seduta fosse durata solo 20 minuti. 3. Analogamente infondato è l'ultimo motivo, in quanto i giudici hanno giustificato il mancato riconoscimento della particolare tenuità del fatto, sottolineando sia l'irrilevanza della durata contenuta dell'interruzione, sia le modalità dell'azione, descritte in precedenza, arginate solo dall'intervento della polizia, stante l'inutilità delle spiegazioni fornite al Mi. per giustificare il diniego della richiesta di prendere la parola e dei richiami rivolti alle altre persone, intervenute a sostegno del ricorrente. Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. P. Q. M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.