Membro di un’associazione mafiosa, confermata la revoca dell’assegno sociale

L’art. 2, comma 58, l. n. 92/2012 prevede che, nel pronunciare la condanna per i reati di particolare allarme sociale, il giudice possa revocare i trattamenti previdenziali qualora accerti che essi abbiano avuto origine da un rapporto di lavoro fittizio a copertura di determinate attività illecite.

Sul punto la Corte di Cassazione con sentenza n. 11581/19, depositata il 15 marzo. Il caso. L’Istituto nazionale della previdenza sociale, dopo aver ricevuto comunicazione della condanna da parte del Ministero della Giustizia, revocava, con effetto ex nunc , la prestazione assistenziale dell’assegno sociale di cui l’imputato era titolare. La Corte d’Appello, adita in secondo grado dall’imputato per chiedere la riattivazione del trattamento assistenziale, dichiarava l’istanza inammissibile osservando che la revoca era stata decisa dall’ente pubblico, titolare del rapporto pensionistico. Avverso tale decisione l’imputato ricorre per cassazione. La revoca dell’attribuzione patrimoniale. Il comma 58 dell’art. 2 l. n. 92/2012 prevede che, nel pronunciare la condanna per i reati di particolare allarme sociale, come ad esempio i reati di associazione terroristica, il giudice applichi la sanzione accessoria della revoca di una serie di prestazioni, come l’assegno sociale, non correlate al versamento di previa contribuzione e possa, inoltre, revocare i trattamenti previdenziali qualora accerti che essi abbiano avuto origine da un rapporto di lavoro fittizio a copertura di determinate attività illecite. Il comma successivo prevede la tempestiva riattivazione delle erogazioni, a domanda, ove ne sussistano i presupposti, una volta espiata la pena. Il comma ancora successivo impone l’obbligo di tempestiva comunicazione all’Istituto previdenziale dei provvedimenti adottati dal comma 58 ai fini della loro esecuzione immediata. Pertanto la cessazione della prestazione assistenziale non costituisce un aspetto del trattamento sanzionatorio del reato, ma consegue al sopravvenuto difetto di un requisito soggettivo per il mantenimento dell’attribuzione patrimoniale di durata. E se, come nel caso di specie, non vi è irrogazione di una pena accessoria, non vi è neppure materia per l’esercizio della giurisdizione esecutiva penale. E l’imputato non resta privo di tutela giurisdizionale ma gli è consentito di adire il giudice ordinariamente competente che nella specie è il giudice del lavoro, cui spetta la gestione delle controversie in materia di previdenza e assistenza obbligatorie. Alla luce di quanto esposto, la Suprema Corte considera la sentenza impugnata giuridicamente corretta perché mancavano le condizioni di legge per l’attivazione del procedimento esecutivo e, dunque, rigetta il ricorso.

Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 7 dicembre 2018 – 15 marzo 2019, n. 11581 Presidente Bonito – Relatore Besso Centofanti Ritenuto in fatto 1. M.V. espia pene concorrenti, inserite nel relativo provvedimento adottato dal pubblico ministero competente ai sensi dell’art. 663 c.p.p., che include una condanna inflitta per il reato di cui all’art. 416 bis c.p., rientrante nell’elencazione di cui alla L. n. 92 del 2012, art. 2, comma 58 condanna divenuta irrevocabile anteriormente all’entrata in vigore di tale legge. A norma dell’art. 2, comma 61, di quest’ultima, l’Istituto nazionale della previdenza sociale, ricevuta comunicazione della condanna da parte del Ministero della Giustizia, ha revocato, con effetto ex nunc, la prestazione assistenziale dell’assegno sociale L. n. 335 del 1995, ex art. 3, comma 6 , di cui M. era titolare. 2. Di tale determinazione il condannato si è doluto, proponendo incidente di esecuzione dinanzi alla Corte di assise di appello di Palermo, giudice che aveva pronunciato la sentenza divenuta per ultima irrevocabile, chiedendo fosse ordinata all’Istituto erogatore la riattivazione del trattamento, previo promovimento, se del caso, di apposita questione di legittimità costituzionale della disciplina legislativa in applicazione. Il Presidente della Corte, con decreto pronunciato inaudita altera parte, ex art. 666 c.p.p., comma 2, ha dichiarato inammissibile l’istanza, osservando che la revoca era stata decisa dall’Ente pubblico, titolare del rapporto pensionistico, in diretta applicazione della L. n. 92 del 2012, citato art. 2, comma 61, che è la norma transitoria volta ad assicurare l’efficacia della novella legislativa rispetto ai titoli definitivi anteriori, nei quali la sanzione accessoria della revoca, introdotta a regime dal precedente comma 58, quale clausola della condanna, non poteva essere contenuta. Non da una tale clausola, contenuta nel titolo, dipendeva dunque il provvedimento amministrativo adottato, sicché, quale che fosse l’esatta natura giuridica della sanzione anzidetta, non vi era spazio per l’esercizio della giurisdizione esecutiva, radicata solo da questioni concernenti l’esistenza o l’eseguibilità del titolo e le relative modalità. 3. Avverso tale decisione M. ricorre per cassazione, con il ministero del difensore di fiducia. 3.1. Con il primo motivo il ricorrente deduce violazione di legge penale, sostanziale e processuale. L’istanza presentata non esorbiterebbe dall’ambito di cognizione del giudice dell’esecuzione - il quale avrebbe, dunque, dovuto fissare apposita udienza per la trattazione dell’incidente - giacché a quest’ultimo è ormai dalla giurisprudenza riconosciuto un ampio potere d’intervento in relazione al giudicato, e non è dubbio che la disposta revoca sia in stretta correlazione con la formazione di quest’ultimo, dalla quale dipende. La misura contestata manterrebbe natura sanzionatoria, anche quando derivasse da sentenza già divenuta irrevocabile. Le questioni, che la riguardino, atterrebbero dunque, per definizione, all’esecuzione del titolo. Di esso si verrebbe in questo modo a fare applicazione retroattiva, incompatibile con il principio di legalità delle pene estensibile ad ogni misura di carattere afflittivo, anche di natura accessoria , avente copertura costituzionale art. 25 Cost., comma 2 e convenzionale art. 7 CEDU . A tanto il giudice dell’esecuzione avrebbe dovuto rimediare o in forza d’interpretazione adeguatrice o mediante il promovimento della questione di legittimità costituzionale. 3.2. Con il secondo motivo il ricorrente deduce, sotto ulteriore profilo, la violazione di legge penale, e di norme di cui tener conto nell’applicazione della legge penale, e il vizio della motivazione. Avendo M. espiato per intero la quota parte di pena imputabile al delitto mafioso-associativo, la Corte di assise di appello, nulla replicando alla relativa obiezione, si sarebbe anche sottratta al compito di verificare l’esistenza di tutti i presupposti legittimanti la disposta revoca del trattamento previdenziale. Considerato in diritto 1. Il ricorso è infondato. 2. La L. 28 giugno 2012, n. 92, all’art. 2, comma 58 e ss., detta plurime disposizioni, aventi come effetto la cessazione della corresponsione di prestazioni, in materia previdenziale e assistenziale, di cui siano titolari soggetti condannati per taluni reati di particolare allarme sociale, quali i reati di associazione terroristica, attentato per finalità terroristiche o di eversione, sequestro di persona a scopo di terrorismo o di eversione, associazione di stampo mafioso, scambio elettorale, strage e delitti commessi per agevolare le associazioni di stampo mafioso. Più in particolare, il citato art. 2, comma 58, prevede che, nel pronunciare condanna per i reati sopra menzionati, il giudice applichi, in sentenza, la sanzione accessoria della revoca di una serie di prestazioni, partitamente indicate tra cui l’assegno sociale qui in rilievo , non correlate al versamento di previa contribuzione e possa altresì revocare i trattamenti previdenziali, ove accerti, o risulti già accertato, che essi abbiano avuto origine, in tutto o in parte, da un rapporto di lavoro fittizio a copertura di attività illecite. Il comma 59 stabilisce che le erogazioni della prima specie possano essere ripristinate, a domanda, ove ne sussistano ancora i presupposti, una volta espiata la pena. Il comma 60 impone l’obbligo di tempestiva comunicazione all’Istituto previdenziale dei provvedimenti adottati ai sensi del comma 58, ai fini della loro immediata esecuzione. La novella legislativa istituisce, in tal modo, uno speciale statuto di indegnità , connesso alla commissione dei predetti reati, cui ricollega effetti sanzionatori direttamente incidenti sui trattamenti di assistenza sociale. Alla sua ratio non è estraneo il rilievo criminologico che ai medesimi reati faccia da sfondo l’accumulazione, o comunque il possesso, di capitali illeciti, con quei trattamenti incompatibili mentre il reimpiego di tali capitali in attività economiche, dirette a schermarli, è alla base dell’estensione della misura sanzionatoria ai trattamenti propriamente previdenziali, che si accertino in connessione generati. 3. Tali articolate previsioni pongono senza dubbio, a regime, interrogativi ermeneutici, che riguardano la riconducibilità della sanzione in discorso al genus delle pene accessorie, la correlata possibilità di riferire ad essa eventualmente anche in rapporto agli effetti extra-penali che ne sostanziano il contenuto la cognizione del giudice dell’esecuzione, la stessa legittimità costituzionale con particolare riferimento all’art. 38 Cost. della sottostante disciplina afflittiva. Poiché, tuttavia, le previsioni anzidette si applicano rispetto ai processi di cognizione, relativi ai reati ricompresi nel catalogo di cui alla L. n. 92 del 2012, art. 2, comma 58, che siano pendenti alla data di entrata in vigore della novella legislativa, o rispetto a quelli successivamente instaurati, le questioni sopra individuate - che, in parte, agitano anche l’odierno ricorso - appaiono ininfluenti nell’odierno procedimento di esecuzione, instaurato a fronte di condanne che, alla predetta data, risultavano già irrevocabili. 4. In relazione a tale ultima fattispecie la novella legislativa prevede, invero, un regime transitorio, delineato dal citato art. 2, comma 61. Per le condanne ormai definitive alla data dell’introduzione delle nuove disposizioni, la revoca, senza efficacia per i ratei già maturati, della prestazione assistenziale è disposta direttamente dall’Ente erogatore, dietro trasmissione dei relativi elenchi da parte del Ministero della Giustizia. In questo caso la misura di rigore opera direttamente in via amministrativa, senza l’intermediazione del provvedimento giurisdizionale penale, che ne funge solo da presupposto storico. Si è in presenza di un mero effetto extra-penale della condanna, e non di una pena o di una sanzione accessoria, similmente a quanto accade allorché dalla pronuncia di sentenze irrevocabili per determinati reati automaticamente derivino, indipendentemente dall’adozione delle predette statuizioni accessorie, incapacità speciali o altre conseguenze sfavorevoli in tema di stato della persona si veda, esemplificativamente, l’ipotesi di condanna pronunciata per reati elettorali nei confronti di un candidato, la quale in sé comporta, ai sensi del D.P.R. n. 361 del 1957, art. 113, commi 1 e 2, e indipendentemente dalla pena accessoria interdittiva, la temporanea privazione dall’elettorato attivo e passivo Sez. 1, n. 31499 del 04/06/2013, Diodato, Rv. 256794-01 . La cessazione della prestazione assistenziale qui non costituisce come non lo costituisce la perdita dei diritti elettorali nell’ipotesi testé prospettata Sez. 1, n. 52522 del 16/01/2018, P., Rv. 274112-01 un aspetto del trattamento sanzionatorio del reato - se così fosse, si assisterebbe all’applicazione retroattiva, in malam partem, di una disposizione penale, vietata dall’art. 25 Cost., comma 2, - bensì consegue al sopravvenuto difetto di un requisito soggettivo per il mantenimento dell’attribuzione patrimoniale di durata. 5. Se dunque non vi è, come nella specie, irrogazione di alcuna pena o sanzione accessoria, non vi è neppure - in radice - materia per l’esercizio della giurisdizione esecutiva penale, nemmeno nella sua accezione più lata. Il condannato non resta peraltro privo di tutela giurisdizionale - e neppure sotto questo profilo potrebbe giustificarsi, de residuo, l’intervento del giudice dell’esecuzione cfr., a contrario, Sez. 1, n. 1610 del 02/12/2014, dep. 2015, Berlusconi, Rv. 261999-01 Sez. 1, n. 8464 del 27/01/2009, Lunadei, Rv. 243450-01 Sez. 1, n. 5455 del 30/09/1997, Sansalone, Rv. 209173-01 essendogli sempre consentito di adire il giudice ordinariamente competente a conoscere del rapporto sostanziale in contestazione, che nella specie è il giudice del lavoro, cui spetta art. 442 c.p.c. e ss. la cognizione delle controversie in tema di previdenza e assistenza obbligatorie. Davanti a tale giudice M. potrà sollevare eventuali eccezioni di legittimità costituzionale, anche con riferimento al parametro di cui all’art. 38 Cost., ovvero fare questione dell’eventuale violazione della L. n. 92 del 2012, art. 2, comma 59, sotto il profilo dell’intervenuta espiazione della pena in concreto ostativa. 6. La decisione impugnata appare dunque giuridicamente corretta, perché nel caso in esame mancavano le condizioni di legge per l’attivazione del procedimento esecutivo e tale circostanza ben poteva essere rilevata de plano, a norma dell’art. 666 c.p.p., comma 2. Seguono la reiezione del ricorso e la condanna del ricorrente, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.