Ergastolano gravemente malato: non abbastanza grave da superare le esigenze di sicurezza pubblica

In tema di differimento dell’esecuzione della pena la malattia rilevante è quella tale da mettere in pericolo di vita o da provocare rilevanti conseguenze dannose o comunque da esigere un trattamento che non si possa facilmente attuare in stato di detenzione.

Il caso. Il Tribunale di sorveglianza ha rigettato l’istanza di rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena per grave infermità fisica e quella di applicazione della detenzione domiciliare sostitutiva avanzate dal condannato ristretto in espiazione della pena dell’ergastolo per plurimi omicidi e per il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso. Il condannato richiedente è ultraottantenne, malato di cancro prostatico in trattamento farmacologico ormonale, rispondente a terapia, non in fase evolutiva, senza disturbi urinari e secondarismi ossei soffre inoltre di cardiopatia ischemica cronica, discopatia multipla e artrosi polidistrettuale. Tali patologie risultano adeguatamente trattate e monitorate in istituto. Il condannato soffre pure di poliartralgie agli arti inferiori che ne limitano il movimento, pur in assenza di deficit neurologici sostanziali deambula con stampelle e, in caso di riacutizzazione algica, con carrozzina. È caduto un paio di volte in istituto, senza gravi conseguenze. Il condannato presenta poi deficit cognitivo e verosimile genesi vasculopatica cerebrale ma non presenta patologie psichiatriche. In definitiva, secondo le relazioni sanitarie il quadro clinico, pur apparendo complesso, è stabile e la situazione, pur ingravescente e soggetta ad involuzioni potenzialmente imprevedibili, è descritta come gestibile in istituto. Secondo il Tribunale di sorveglianza, pertanto, non si sarebbe in uno stato di incompatibilità con la detenzione neanche sotto il profilo dell’umanità del trattamento. Il Collegio giudicante all’uopo ha verificato le attuali condizioni di vita del condannato visitando gli ambienti di detenzione assicurate all’interno dell’istituto penitenziario o comunque in centri clinici penitenziari e se esse siano o meno compatibili con le finalità rieducative della pena, con un trattamento rispettoso del senso di umanità. L’incompatibilità con la detenzione. Tra i parametri vi sono la durata del trattamento e l’età del detenuto da comparare con la pericolosità sociale del condannato. Anche per la consolidata giurisprudenza di legittimità deve farsi ricorso al differimento quando la malattia sia grave, tale da mettere in pericolo di vita o da provocare rilevanti conseguenze dannoso o comunque da esigere un trattamento che non si possa facilmente attuare in stato di detenzione. Deve operarsi un bilanciamento tra l’interesse del condannato ad essere adeguatamente curato e le esigenze di sicurezza della collettività. Per il differimento, inoltre, rilevano anche le patologie di entità tale da far apparire l’espiazione della pena in contrasto con il senso di umanità a tal fine deve guardarsi ad ogni stato morboso o scadimento fisico capace di determinare una situazione di esistenza al di sotto della soglia di dignità che deve essere rispettata anche nella condizione di restrizione carceraria. Anche la patologia psichica può costituire causa di differimento dell’esecuzione della pena quando sia di gravità tale da produrre una infermità fisica non fronteggiabile in ambiente carcerario o da rendere l’espiazione della pena contraria al senso di umanità. Non vi è violazione del principio di umanità. Il ricorso è infondato. L’ordinanza impugnata ha descritto il quadro sanitario come da recente relazione sanitaria. Il Tribunale ha dunque ritenuto che l’espiazione de qua non contrasti con il diritto alla salute perché non sono indicate malattie organiche tali neppure connesse a turbe psichiatriche tali da porre in pericolo di vita o da provocare altre rilevanti conseguenze dannose le cure e i trattamenti sono indicati come praticabili in regime di detenzione intramuraria, ricorrendo, in caso di necessità, a visite e ricoveri presso il servizio sanitario. Sul piano della dignità umana il Tribunale ha ponderato gli interessi antagonisti reputando che, pur a fronte della situazione personale del condannato, l’espiazione rientra nei limiti imposti dal senso di umanità costituzionalmente garantito. Inoltre, la Corte di Cassazione ritiene che il provvedimento censurato sia motivato correttamente perché fa riferimento alla necessità di tutela del diritto alla salute, al divieto di trattamenti contrari al senso di umanità e alle esigenze di sicurezza pubblica e certezza della pena. L’ordinanza non si sottrae alla necessità di ricercare un equilibrio tra i parametri in gioco e individua l’esito del bilanciamento con argomentazioni idonee a consentire la verifica del processo logico-decisionale seguito.

Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 28 novembre 2018 – 4 marzo 2019, n. 9410 Presidente Mazzei - Relatore Centofanti Ritenuto in fatto 1. Con l’ordinanza in epigrafe il Tribunale di sorveglianza di Milano ha rigettato l’istanza di rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena per grave infermità fisica, ai sensi dell’art. 147 c.p., comma 1, n. 2 , e quella di applicazione della detenzione domiciliare sostitutiva, ai sensi dell’art. 47 ter, comma 1 ter, Ord. pen., già avanzate dal condannato S.B. , ristretto in istituto in espiazione della pena dell’ergastolo inflitta, tra l’altro, per plurimi omicidi e per il reato di associazione di stampo mafioso. S. - riferisce il Tribunale - ha ottantaquattro anni. È ammalato di cancro prostatico, in trattamento farmacologico ormonale, rispondente alla terapia, non in fase evolutiva, senza disturbi urinari e secondarismi ossei, nonché di cardiopatia ischemica cronica, discopatia multipla e artrosi polidistrettuale patologie tutte attualmente in buon compenso e adeguatamente trattate e monitorate in istituto. Soffre di poliartralgie agli arti inferiori, che ne limitano il movimento, pur in assenza di deficit neurologici sostanziali deambula per l’effetto con stampelle e, in caso di riacutizzazione algica, con carrozzina. Presenta deficit cognitivo, a verosimile genesi vasculopatica cerebrale. Non presenta patologie psichiatriche. Da ultimo collabora all’effettuazione degli accertamenti diagnostici. Nel novembre 2016 e nel febbraio 2017 il condannato è accidentalmente caduto, all’interno della sala di socialità del reparto detentivo, senza riportare conseguenze lesive. Secondo le ultime relazioni sanitarie, dal Tribunale richiamate, il quadro clinico appare stabile, nella sua complessità, e la situazione, pur ingravescente e soggetta ad involuzioni potenzialmente imprevedibili, è descritta come gestibile in istituto. Secondo il Tribunale non vi sarebbe dunque uno stato d’incompatibilità con la detenzione, neanche sotto il profilo dell’umanità del trattamento. Sotto quest’ultimo aspetto il Collegio decidente si è sincerato delle attuali condizioni di vita del condannato andando a visitare gli ambienti di detenzione e verificando l’apprestamento di accorgimenti strutturali volti ad impedire nuove cadute in cella e, in genere, condizioni logistiche rispettose della dignità della persona. In tale contesto il medesimo Tribunale afferma che - pur considerata l’età del soggetto, la sua fragilità e le condizioni di parziale disabilità - nel bilanciamento d’interessi prevalgano, allo stato, le esigenze di indefettibilità della pena e di sicurezza sociale. 2. Ricorre il condannato per cassazione, tramite il difensore di fiducia, sulla base di unica articolata prospettazione, con cui si denuncia la violazione dei principi recati dall’art. 27 Cost., comma 3, umanità e finalità rieducativa della pena , e art. 3 CEDU divieto di pene o trattamenti inumani o degradanti , e il vizio di motivazione. Il ricorrente rammenta che la Corte EDU ha già stabilito - con pronunce che, nella parte in cui evidenziassero una situazione di oggettivo contrasto della normativa interna con la Convenzione di Roma, assumerebbero rilevanza anche in processi diversi e analoghi è citata in particolare la sentenza 11 febbraio 2014, nel caso Contrada - che la detenzione di una persona malata in condizioni non adeguate integra un trattamento contrario al citato parametro sovranazionale. Tale assunto sarebbe stato già più volte recepito dalla giurisprudenza di legittimità, e in particolare dalle pronunce secondo cui, anche a fronte di cure astrattamente praticabili in detenzione, l’esecuzione della pena sarebbe incompatibile con i valori costituzionali, ove desse luogo a sofferenze aggiuntive, che superassero i limiti della umana tollerabilità. A fronte di questi principi, l’ordinanza impugnata sarebbe censurabile, perché a dimentica che S. deambula, all’occorrenza, su sedia a rotelle e che mantenere in detenzione una persona in tale stato integra di per sé un trattamento inumano e degradante b non considera che la dignità di S. è offesa altresì dal fatto che egli, tolte le quattro ore di socialità, è costretto nell’ambito di una cella angusta, nella quale la sedia a rotelle non trova neppure spazio e possono essere usate, con inevitabile sofferenza aggiuntiva, solo le stampelle, con inevitabili rischi di cadute, anche mortali, nient’affatto scongiurati c non valorizza adeguatamente, al fine di ritenere la disumanità del trattamento inframurario, l’età avanzata d ignora che i presunti accorgimenti strutturali, apportati dentro la cella, sono inidonei a prevenire le cadute suddette e trascura la gravità del quadro morboso, peraltro soggetto a peggioramenti improvvisi, esso stesso indicativo, al di là delle cure praticabili, di una esistenza umana ormai collocata, in ambiente carcerario, al di sotto della soglia di dignità. Il ricorrente sottolinea, infine, il ritardo con cui è stata assunta la decisione impugnata, che segue di oltre un anno la presentazione dell’istanza, e prospetta, in relazione alla sua adozione, un’ipotesi di responsabilità civile, per violazione manifesta della legge e del diritto dell’Unione Europea. Sollecita, per l’effetto, l’adozione di una decisione di annullamento senza rinvio, per impedire che, nelle more del relativo giudizio, un deprecabile esito infausto vanifichi la decisione di questa Corte, come sarebbe in altri casi avvenuto. Considerato in diritto 1. Il ricorso, nelle sue concatenate argomentazioni, dal Collegio attentamente ponderate, risulta nondimeno infondato. 2. L’istituto del rinvio dell’esecuzione della pena, per grave infermità fisica e, al pari di esso, quello della detenzione domiciliare umanitaria art. 47 ter, comma 1 ter, Ord. pen. , priva di ambito applicativo autonomo, in quanto concedibile, in via surrogatoria, a condizione che ricorrano i presupposti legittimanti il rinvio stesso Sez. 1, n. 25841 del 29/04/2015, Coku, Rv. 26397101 Sez. 1, n. 23512 del 08/04/2003, Bisogno, Rv. 224424-01 Sez. 1, n. 656 del 28/01/2000, Ranieri, Rv. 215494-01 - si fonda sul principio costituzionale di uguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla legge senza distinzione di condizioni personali, su quello secondo cui le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e, infine, su quello secondo il quale la salute è un diritto fondamentale dell’individuo. Il giudice deve, per l’effetto, valutare se le condizioni di salute del condannato, oggetto di specifico e rigoroso esame, possano essere adeguatamente assicurate all’interno dell’istituto penitenziario o, comunque, in centri clinici penitenziari, e se esse siano o meno compatibili con le finalità rieducative della pena, con un trattamento rispettoso del senso di umanità, tenuto conto anche della durata del trattamento e dell’età del detenuto, a loro volta soggette ad un’analisi comparativa con la pericolosità sociale del condannato. Tale impostazione riflette consolidati principi, ripetutamente affermati dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui deve farsi ricorso al differimento ex art. 147 c.p., comma 1, n. 2 , anzitutto allorché la malattia da cui è affetto il condannato sia grave, cioè tale da porre in pericolo la vita o da provocare rilevanti conseguenze dannose e, comunque, da esigere un trattamento che non si possa facilmente attuare nello stato di detenzione, dovendosi in proposito operare un bilanciamento tra l’interesse del condannato ad essere adeguatamente curato e le esigenze di sicurezza della collettività Sez. 1, n. 789 del 18/12/2013, dep. 2014, Mossuto, Rv. 258406-01 Sez. 1, n. 972 del 14/10/2011, dep. 2012, Farinella, Rv. 251674-01 . Inoltre, rispetto al medesimo differimento, debbono rilevare anche patologie di entità tale da far apparire l’espiazione della pena in contrasto con il senso di umanità cui si ispira la norma contenuta nell’art. 27 Cost. Sez. 1, n. 17947 del 30/03/2004, Vastante, Rv. 228289-01 , dovendosi avere riguardo ad ogni stato morboso o scadimento fisico capace di determinare una situazione di esistenza al di sotto di una soglia di dignità da rispettarsi pure nella condizione di restrizione carceraria Sez. 1, n. 22373 del 08/05/2009, Aquino, Rv. 244132-01 . Né è dubitabile che, anche in tale evenienza, il giudice di sorveglianza competente sia chiamato ad un attento e saggio bilanciamento, idoneo a contemperare nel modo migliore gli elevati valori in gioco. E la patologia psichica, parimenti si insegna, può costituire essa stessa causa di differimento della esecuzione della pena, quando sia di tale gravità da produrre una infermità fisica non fronteggiabile in ambiente carcerario o da rendere l’espiazione della pena contraria, per le eccessive sofferenze, al senso di umanità da ultimo, Sez. 1, n. 35826 del 11/05/2016, Di Silvio, Rv. 268004-01 . 3. L’ordinanza impugnata, diffusamente argomentata su ognuno dei profili dianzi specificati, non si è discostata da questi principi, di cui ha fatto coerente applicazione al caso di specie. Essa correttamente ha preso le mosse dal quadro sanitario offerto dalla più recente relazione sanitaria e lo ha fedelmente riassunto, facendone risaltare i dati salienti. Ragionatamente è apparso, su tale base, al Tribunale di sorveglianza che l’espiazione della pena in atto non contrasti, allo stato, con il diritto alla salute, in quanto non sono rappresentate malattie organiche gravi neppure collegate a turbe psichiatriche , tali cioè da porre in pericolo la vita, o da provocare in sé altri rilevanti conseguenze dannose, e cure e trattamenti sono indicati come praticabili in regime di detenzione intramurale, ricorrendo al bisogno a visite e ricoveri ex art. 11 Ord. pen. Sul piano della dignità umana, l’ordinanza opera un ponderato bilanciamento tra i delicati valori antagonisti in campo, all’esito del quale, pur a fronte di una situazione personale del condannato tale da rendere l’espiazione indubbiamente più gravosa, reputa quest’ultima - grazie agli accorgimenti adottati dalla direzione d’istituto, dal Tribunale verificati mediante l’accesso diretto alla struttura carceraria - tuttora nei limiti imposti dal senso di umanità costituzionalmente garantito. Alla complessiva valutazione certamente non è rimasto estraneo il giudizio di pericolosità ostativa a trattamenti extra-murari, opportunamente rinnovato ed attualizzato in parallelo all’evoluzione della condizione sanitaria e personale del detenuto. 4. L’ordinanza impugnata dunque correttamente motiva, facendo riferimento alle necessità di tutela del diritto alla salute, al divieto di trattamenti contrari al senso di umanità e alle esigenze di sicurezza pubblica e certezza della pena, e combina tali necessari elementi in seno ad una valutazione accurata, che non presta il fianco a rilievi di legittimità. L’ordinanza stessa, in definitiva, non si sottrae al bisogno di ricercare un equilibrio, in concreto talora difficile, tra i parametri sopra evidenziati, e giunge ad individuare la situazione cui dare ad oggi prevalenza, dando compiuto conto degli esiti del sotteso ragionamento, con argomentazioni puntuali, idonee a consentire la positiva verifica del processo logico-decisionale seguito, ancorato ai concreti elementi di fatto emersi nel procedimento. 5. Dalle considerazioni che precedono discendono la reiezione del ricorso e la condanna del ricorrente, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.