L’elemento psicologico e gli altri segni distintivi dell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni

Costringe la persona offesa a consegnargli una somma di denaro in cambio della restituzione delle chiavi di un appartamento di sua proprietà è estorsione o esercizio arbitrario delle proprie ragioni? A distinguere le due fattispecie delittuose è, anzitutto, l’elemento psicologico.

Sul tema la Corte di Cassazione con sentenza n. 9303/19, depositata il 4 marzo, cui ha fatto ricorso l’imputato, tramite la sua difesa, essendo stato ritenuto, in primo e secondo grado di giudizio, responsabile del reato di estorsione e danneggiamento in danno di due soggetti. In particolare, sostiene la difesa dell’imputato, la condotta ascritta a quest’ultimo deve rientrare nella fattispecie di esercizio arbitrario delle proprie ragioni e non tanto in quella di estorsione , di cui all’art. 393 c.p., poiché l’assistito compiva atti idonei a costringere la persona offesa a consegnargli una somma di denaro in cambio della restituzione delle chiavi di un appartamento di sua proprietà. Estorsione o esercizio arbitrario delle proprie ragioni? Recentemente la Suprema Corte ha affermato che a distinguere il reato di estorsione da quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni è l’elemento psicologico nella fattispecie di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella convinzione di esercitare un suo diritto nella fattispecie di estorsione, invece, l’agente intende conseguire un profitto nella consapevolezza della sua ingiustizia. Più precisamente, si configura il reato di estorsione e non quello dell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni in presenza di tali caratteristiche la sussistenza di una finalità costrittiva dell’agente l’estraneità al rapporto contrattuale di colui che esige il credito la condotta minacciosa e violenta finalizzata al recupero del credito stesso che deve essere diretta nei confronti non solo del debitore ma anche di persone estranee al rapporto contrattuale. Dunque, nel caso in esame, a configurarsi è il reato di estorsione e non quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni e il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.

Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 22 novembre 2018 – 4 marzo 2019, n. 9303 Presidente Cervadoro - Relatore Borsellino Ritenuto in fatto 1.La CORTE APPELLO di Napoli, con sentenza del 28 ottobre 2015 ha confermato la sentenza del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere del 7 gennaio 2011 che ha ritenuto l’imputato F.M. responsabile dei reati di tentata estorsione, lesioni e danneggiamento in danno di L.P. e L.C. . 2.Propone ricorso per cassazione l’imputato, con atto sottoscritto dal difensore di fiducia deducendo 2.lviolazione dell’art. 129 c.p.p. per omessa dichiarazione della intervenuta prescrizione dei reati di lesione aggravata contestati ai capi B e C della rubrica, commessi il 5 maggio 2003 che, anche tenendo conto dell’aumento dei 2/3 per la contestata recidiva e dei periodi di sospensione, si sarebbero prescritti già il 7 marzo 2015 e quindi in epoca precedente alla pronuncia della sentenza di appello. 2.2 Vizio di motivazione, poiché la condotta ascritta all’imputato doveva essere più correttamente qualificata come esercizio arbitrario delle proprie ragioni, e ricondotta nell’ambito di previsione dell’art. 393 c.p., in quanto l’imputato compiva atti idonei a costringere la persona offesa a consegnargli una somma di denaro, in cambio della restituzione delle chiavi di un appartamento di sua proprietà. Il ricorrente lamenta che erroneamente il tribunale ha qualificato la condotta come estorsiva sul rilievo che la violenza si era estrinsecata in una tale forza intimidatoria che travalica ogni ragionevole intento di far valere un diritto, richiamando una sentenza di questa Corte di legittimità pronunziata nel 2008 che indicava l’intensità della violenza quale elemento differenziale tra i due reati. E tuttavia deduce il ricorrente che la giurisprudenza ormai consolidata ha affermato che le due figure di reato si distinguono non per la condotta materiale, ma per l’elemento intenzionale, in quanto nel delitto di ragion fattasi l’agente è animato dal fine di esercitare un preteso diritto nella ragionevole convinzione, anche se errata, della sua sussistenza. In conclusione la qualificazione della condotta come esercizio arbitrario delle proprie ragioni prescinde dal grado di violenza della condotta stessa e non è corretto affermare che quando le minacce o la violenza siano particolarmente gravi il comportamento trasmoda nel reato di estorsione. Di conseguenza il difensore invoca, previa riqualificazione della condotta ascritta all’imputato in esercizio arbitrario delle proprie ragioni, l’estinzione del reato in esame per intervenuta prescrizione. Considerato in diritto 1.Il ricorso è inammissibile. 2. Il primo motivo è manifestamente infondato. I reati di lesione sono stati commessi il , sotto il vigore del precedente regime della prescrizione e, tuttavia ex art. 2 c.p., si applica il più recente regime introdotto con la novella del 2005, perché più favorevole al reo, in quanto secondo la prima previsione il termine sarebbe maturato in 10 anni prorogati della metà e quindi in 15 anni. Per il delitto di lesioni aggravate dall’uso di strumento atto ad offendere e dal nesso teleologico la pena va determinata in tre anni aumentati della metà, e cioè in quattro anni e sei mesi di reclusione l’aumento di 2/3 per la recidiva reiterata specifica e infra quinquennale porta il primo termine ex art. 157 c.p. a sette anni e sei mesi e il secondo termine ex art. 161 c.p. a 12 e sei mesi. Ne consegue che, calcolando le sospensioni, indicate dalla stessa difesa in anno uno mesi quattro e giorni due, il termine di prescrizione è maturato in 13 anni dieci mesi e 2 giorni, e cioè non prima del febbraio 2017, sicché alla data della sentenza di appello, emessa il 28 ottobre 2015, i due reati di lesione non si erano ancora estinti. L’inammissibilità del motivo di ricorso preclude la possibilità di rilevare l’eventuale cause di estinzione che siano intervenute dopo la pronunzia della sentenza di appello, atteso che, secondo costante giurisprudenza della Corte di cassazione, l’inammissibilità del ricorso per cassazione conseguente alla manifesta infondatezza dei motivi, non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell’art. 129 c.p.p., ivi compreso l’eventuale decorso del termine di prescrizione nelle more del procedimento di legittimità sez.2, n. 28848 del 08/05/2013, Ciaffoni sez. 4, n. 18641 del 20/01/2004, Tricomi Sez. U, n. 32 del 22/11/2000, De Luca . 2. Inammissibile perché manifestamente infondato è anche il secondo motivo di ricorso, poiché la condotta posta in essere dall’imputato, consistita nel minacciare la persona offesa, proprietario dell’immobile locato dalla sorella, di tagliargli la testa e di picchiarlo, se non gli avesse consegnato la somma di denaro pretesa, e la violenza esercitata allo stesso scopo, integrano certamente il reato di tentata estorsione contestato in rubrica, nel rispetto dei criteri evidenziati da questa giurisprudenza di legittimità. Deve convenirsi con la difesa che nel tempo si è verificato un mutamento nell’ambito della giurisprudenza di legittimità in tema di distinzione concettuale tra reato di estorsione e di ragion fattasi. Una prima linea interpretativa ritiene che, poiché nel delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni la condotta violenta o minacciosa non è fine a se stessa, ma è strettamente connessa alla finalità dell’agente che intende far valere il preteso diritto, essa non può mai consistere in manifestazioni sproporzionate e gratuite di violenza. Anche la minaccia, se si realizza in forme di tale forza intimidatoria da trascendere ogni ragionevole intento di far valere un diritto e da non lasciare alternative alla persona offesa, produce effetti condizionanti di assume di per sé i caratteri dell’ingiustizia pertanto, pur avendo ad oggetto il prospettato esercizio di un diritto esistente, ossia di una pretesa legale e riconosciuta dall’ordinamento, può integrare il delitto di estorsione se le modalità denotano soltanto una volontà ricattatoria particolarmente intensa Cass., sez. 5, n. 19230 del 03/05/2013, Palazzotto, rv. 256249 sez. 5, sent. n. 28539 del 20/07/2010, Coppola, rv. 247882 sez. 6, n. 41365 del 23/11/2010, Straface rv. 248736 sez. 2, n. 35610 del 26/09/2007, Della Rocca, rv. 237992 sez. 2, n. 14440 del 05/04/2007, Mezzanzanica, rv. 236457 sez. 2,. n. 47972 del 10/12/2004, Caldara, rv. 230709 sez. 1, n. 10336 del 04/03/2003, Preziosi, rv. 228156 . Più di recente si è però affermata la tesi che, constatata l’identica descrizione dell’azione da parte delle due norme incriminatrici degli artt. 393 e 629 c.p., individua il carattere distintivo nell’elemento psicologico nella prima, l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella convinzione ragionevole,anche se infondata, di esercitare un suo diritto, ovvero di soddisfare personalmente una pretesa che potrebbe formare oggetto di azione giudiziaria nella seconda, invece, l’agente intende conseguire un profitto nella consapevolezza della sua ingiustizia. Secondo quest’ultimo orientamento espresso nelle sentenze n. 705 del 01/10/2013, Traettino, rv. 258071 e n. 51433 del 04/12/2013, P.m. e Fusco, rv. 257375 nonché nelle successive sez. 2, n. 44674 del 30/9/2015, Bonaccorso, rv. 265190 sez. 2, n. 44675 dell’8/10/2015, Lupo ed altri, rv. 265361 , le disposizioni incriminatrici a raffronto prevedono sul piano oggettivo il compimento di azione violenta o minacciosa in termini identici e senza nessun riferimento all’intensità della forza coercitiva impiegata dal soggetto agente, la cui graduazione secondo un criterio di crescente capacità coartante non può utilizzarsi a fini definitori. Un preciso ostacolo a tale operazione è rinvenibile sul piano sistematico nell’art. 393 c.p., comma 3, il quale considera specifica circostanza aggravante la commissione di violenza o minaccia alle persone con armi, che viene ritenuta dal legislatore una possibile forma della fattispecie base a giustificare una punizione più severa. E tuttavia nel tempo anche questa affermazione ha trovato dei correttivi, laddove si è affermato che delitto di estorsione è configurabile quando la condotta minacciosa o violenta, anche se finalisticamente orientata al soddisfacimento di un preteso diritto, si estrinsechi nella costrizione della vittima attraverso l’annullamento della sua capacità volitiva è, invece, configurabile il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni quando un diritto giudizialmente azionabile venga soddisfatto attraverso attività violente o minatorie che non abbiano un epilogo costrittivo, ma più blandamente persuasivo. Sez. 2, n. 36928 del 04/07/2018 - dep. 31/07/2018, Maspero, Rv. 27383701 . Secondo l’orientamento prevalente di questa sezione è configurabile il delitto di estorsione, e non quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone, in presenza di una delle seguenti condizioni relative alla condotta di esazione violenta o minacciosa di un credito a la sussistenza di una finalità costrittiva dell’agente, volta non già a persuadere ma a costringere la vittima, annullandone le capacità volitive b l’estraneità al rapporto contrattuale di colui che esige il credito, il quale agisca anche solo al fine di confermare ed accrescere il proprio prestigio criminale attraverso l’esazione con violenza e minaccia del credito altrui c la condotta minacciosa e violenta finalizzata al recupero del credito sia diretta nei confronti non soltanto del debitore ma anche di persone estranee al sinallagma contrattuale Sez. 2, n. 11453 del 17/02/2016, Rv. 267123 . Nel caso in esame paiono proprio sussistere tutti i tre predetti requisiti per affermare l’illiceità ex art. 629 c.p., ove si faccia riferimento alla ricostruzione in fatto della vicenda. Dalla lettura della sentenza di primo grado emerge che l’imputato non aveva mai abitato nell’appartamento locato dalla sorella e pretendeva la buona uscita per consegnare le chiavi dell’appartamento già locato alla sorella, che era andata via per sua libera scelta. La F. , sorella dell’imputato, ha sostenuto che il debito nasceva, piuttosto, dalla richiesta di restituzione del deposito cauzionale, ma tale circostanza non è stata in alcun modo dimostrata. La persona offesa ha, invece, smentito l’assunto difensivo precisando che la F. aveva versato una somma a titolo di cauzione all’inizio del rapporto locativo, ma l’aveva già detratta dal canone di locazione, rimanendo nell’appartamento negli ultimi mesi senza corrispondere il dovuto e che il fratello pretendeva una somma a titolo di buona uscita. Si tratta all’evidenza di una pretesa non fondata su alcuna norma giuridica e pertanto illegittima. Deve peraltro rilevarsi che, anche a volere riconoscere l’esistenza di un debito della persona offesa nei confronti della F.M. , nascente dal rapporto locativo che intercorreva tra di loro, e relativo alla restituzione del deposito cauzionale, certamente l’imputato non avrebbe potuto azionare personalmente tale preteso diritto in giudizio e pertanto la sua condotta non può comunque essere fatta rientrare nell’ambito dell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni, che è costruito come reato a mano propria. Giova infatti ribadire in questa sede che secondo l’orientamento di questa sezione È configurabile il delitto di estorsione, e non quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, quando ad un’iniziale pretesa di adempimento di un credito effettuata con minaccia o violenza nei riguardi del debitore seguano ulteriori violenze e minacce di terzi estranei verso il nucleo familiare del debitore, sicché l’iniziale pretesa arbitraria si trasforma in richiesta estorsiva, sia a causa delle modalità e della diversità dei soggetti autori delle violenze, che per l’estraneità dei soggetti minacciati alla pretesa azionata. Sez. 2, n. 5092 del 20/12/2017 - dep. 02/02/2018, Gatto e altri, Rv. 27201701 La corte territoriale ha fornito una duplice motivazione a sostegno della qualificazione giuridica della condotta ascritta all’imputato, poiché per respingere l’istanza difensiva, ha sottolineato in primis che nel caso in esame l’imputato mirava a conseguire un ingiusto profitto, con la consapevolezza che quanto preteso non gli era dovuto. Ha poi affermato che, anche a voler dar credito alla tesi difensiva, secondo cui la somma di denaro sarebbe stata chiesta quale restituzione del deposito cauzionale, la minaccia e l’aggressione, poste in essere con modalità gravemente intimidatorie, integrano comunque il carattere della ingiustizia. Questa seconda motivazione non è conforme alla giurisprudenza riportata, ma non appare decisiva poiché per le ragioni suesposte che nel caso in esame non ricorrono i presupposti dell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni. Alla inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., valutati i profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità emergenti dal ricorso Corte Cost. 13 giugno 2000, n. 186 , al versamento della somma, che ritiene equa, di Euro duemila a favore della cassa delle ammende. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila in favore della Cassa delle ammende.