Commercio di prodotti a base di THC, la parola alle Sezioni Unite

Va rimesso alle Sezioni Unite il contrasto sulla liceità o meno della commercializzazione e detenzione di prodotti a base di Cannabis sativa L” a basso contenuto di THC.

Così ha stabilito la Corte Suprema di Cassazione, Sezione Quarta Penale, con la ordinanza n. 8654 depositata il 27 febbraio 2019. Sequestro revocato. L'occasione processuale dalla quale è sorta la necessità di interpellare, nei termini che vedremo, il massimo consesso della Cassazione, è stata offerta dalla decisione di un Tribunale della Libertà di annullare il sequestro di alcuni prodotti a base di cannabis contenenti una percentuale di principio attivo non superiore a 0,6%. Alla base della decisione, che lascia sorpreso il Pubblico Ministero, tanto da indurlo a percorrere la strada del giudizio di legittimità, è una legge del 2016 con cui si rende lecita la coltivazione della cannabis sativa L”. Secondo la prospettiva della Procura ricorrente, la normativa del 2016 consentirebbe soltanto ed esclusivamente la coltivazione della citata specie vegetale, mentre non permetterebbe – in realtà non disciplinandola affatto – anche la commercializzazione e la detenzione di foglie e infiorescenze ricavate dalla coltivazione delle piante quand'anche queste contenessero valori di THC inferiori a 0,6% . La normativa, lacunosa come lo sono spesso le nostre discipline tecniche”, in effetti, tace sul punto e, per questa ragione, ha legittimato due opposte correnti interpretative. L'orientamento proibizionistico”. Un primo orientamento ermeneutico, ribadito fino a novembre 2018, ispirato dal generale disfavore che il nostro ordinamento riserva verso tutte le sostanze con effetto drogante, ha concluso ritenendo vietate sia la detenzione, sia la commercializzazione dei derivati della canapa a basso contenuto di THC, poiché la legge del 2016 consente soltanto la coltivazione delle piante e non anche la loro lavorazione. Di conseguenza, sarebbero sempre penalmente perseguibili sia la detenzione che la vendita della resina e delle infiorescenze secondo la disciplina in materia di stupefacenti. La carenza, anche nei lavori preparatori alla legge del 2016, di qualsivoglia riferimento alle attività diverse dalla coltivazione, escluderebbe la possibilità di considerarle lecite. L'orientamento opposto sì al commercio dei prodotti a basso dosaggio di THC. L'indirizzo ermeneutico speculare rispetto a quello appena descritto prende le mosse proprio dalle ragioni che hanno animato il legislatore del 2016 favorire le attività economiche connesse alla filiera agroindustriale della canapa quindi anche i prodotti da quest'ultima ricavabili possono essere diffusi sul mercato a condizione che rispettino i parametri di THC previsti dalla disciplina di settore. La quantità molto modesta di principio attivo escluderebbe ogni efficacia drogante e, pertanto, renderebbe lecita la commercializzazione dei derivati della cannabis che presentano tali caratteristiche. La conferma normativa della correttezza di tale impostazione ermeneutica si ricaverebbe dalla previsione normativa che permette di produrre e vendere alimenti a base di THC. Una volta sdoganato il consumo alimentare della cannabis, non si vedono ragioni per punire la detenzione e la vendita anche degli altri derivati a basso dosaggio di principio attivo. Nel dubbio, la questione è rimessa alle Sezioni Unite. La presenza di un contrasto interpretativo su una materia così importante, e così severamente punita, ha suggerito alla Quarta Sezione la necessità di fare chiarezza. In questi casi, l'intervento inevitabile delle Sezioni Unite servirà – ci auguriamo – a mettere la parola fine ad ogni dubbio ermeneutico. Vedremo quale partito prenderanno gli Ermellini asseconderanno le derive legalizzatrici, o si irrigidiranno? Attendiamo con ansia il verdetto.

Corte di Cassazione, sez. IV Penale, ordinanza 8 – 27 febbraio 2019, n. 8654 Presidente Ciampi Relatore Salvo Ritenuto in fatto 1. Il Procuratore della Repubblica preso il Tribunale di Ancona ricorre per cassazione avverso l’ordinanza in epigrafe indicata, che ha revocato il sequestro disposto dal G.i.p. del Tribunale di Ancona, con provvedimento del 19-10-2018, limitatamente ai reperti che, all’esito delle analisi espletate, sono risultati contenere una percentuale di principio attivo non superiore allo 0,6%, nell’ambito del procedimento penale nei confronti di C.L. , indagato in ordine al reato di cui al D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, commi 1, 2 e 4, e art. 80, comma 2, per avere, in concorso con N.A. , senza autorizzazione, detenuto per la vendita, all’interno di un negozio, circa 13 kg di marijuana. Con l’aggravante dell’ingente quantitativo della sostanza detenuta. Accertato in omissis . 2. Il ricorrente deduce violazione di legge e vizio di motivazione, in quanto l’esclusione della punibilità è da ritenersi prevista dalla L. n. 242 del 2016 solo nei confronti dell’agricoltore e non può essere estesa in favore del commerciante che detenga e ponga in vendita foglie e infiorescenze ottenute dalla pianta di cannabis sativa L. In relazione al divieto di sequestro e di distruzione di cui alla L. n. 242 del 2016, art. 4, comma 7, il legislatore fa, infatti, espresso riferimento alle coltivazioni già sottoposte ad analisi con esito favorevole e non ai prodotti derivati e poi commercializzati, specialmente se si tratta di infiorescenze suscettibili di essere inalate, da parte del consumatore, per scopi ricreativi. 2.1. È stata comunque disposta la restituzione di quanto sequestrato al C. mentre il N. , collaboratore e addetto alla vendita dei prodotti presso il negozio del C. , arrestato in flagranza di reato, si era assunto, in sede di interrogatorio di garanzia, la proprietà della marijuana, rimanendo dunque riconducibili al C. soltanto due barattoli privi di lotto identificativo. 2.2. Il giudice a quo ha poi ritenuto la liceità della cannabis sequestrata, alla luce della L. n. 242 del 2016, nonostante le risultanze delle pregresse analisi della marijuana sequestrata a Macerata siano risultate atte ad escluderne l’applicabilità, essendo stato riscontrato un contenuto di principio attivo superiore allo 0,6%. Tali risultanze, eseguite nell’ambito del procedimento relativo al punto vendita di Macerata, sono state puntualmente confermate, in parte, da quelle degli accertamenti esperiti dal consulente del pubblico ministero di Ancona, il quale ha evidenziato anche in questo caso il superamento del limite dello 0,6% in alcuni campioni analizzati. Peraltro il consulente tossicologo nominato dal pubblico ministero non ha analizzato tutta la sostanza in sequestro bensì solo alcuni campioni significativi perché relazionabili ai lotti da cui provengono. Si chiede pertanto annullamento dell’ordinanza impugnata. 3. Con memoria pervenuta il 2 febbraio 2019, la difesa di C.L. ha chiesto declaratoria di inammissibilità o rigetto del ricorso proposto dal pubblico ministero presso il Tribunale di Ancona. Considerato in diritto 1. La questione inerente alla corretta applicazione della L. 2 dicembre 2016, n. 242, ha formato oggetto di contrasto giurisprudenziale. Un primo indirizzo interpretativo ha, infatti, fornito risposta negativa al quesito se la predetta legge consenta anche la commercializzazione dei derivati della coltivazione della canapa hashish e marijuana , essendosi ritenuto che tale normativa disciplini esclusivamente la coltivazione della canapa, consentendola, alle condizioni ivi indicate, soltanto per i fini commerciali elencati dall’art. 1, comma 3, tra i quali non rientra la commercializzazione dei prodotti costituiti dalle infiorescenze e dalla resina. I valori di tolleranza di THC consentiti dalla L. n. 242 del 2016, art. 4, comma 5, 0,2-0,6% si riferiscono solo al principio attivo rinvenuto sulle piante in coltivazione e non al prodotto oggetto di commercio. La detenzione e commercializzazione dei derivati della coltivazione disciplinata dalla predetta legge, costituiti dalle infiorescenze marijuana e dalla resina hashish , rimangono, conseguentemente, sottoposte alla disciplina di cui al d. P. R. n. 309 del 1990 Cass., Sez. 6, n. 56737 del 27-11-2018, Ricci Sez. 4, n. 34332 del 13-6-2018, Durante Sez. 6, n. 52003 del 2018 . La cannabis sativa L, in quanto contenente il principio attivo delta-9-THC, presenta, infatti, natura di sostanza stupefacente, ai sensi del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 14, come modificato dal D.L. 20 marzo 2014, n. 36, art. 1, comma 3, convertito in L. 16 maggio 2014, n. 79, poiché l’allegata tabella II include la cannabis in tutte le sue possibili varianti e forme di presentazione e tutti i preparati che la contengano. La normativa in esame, dunque, riferendosi esclusivamente alla condotta di coltivazione, non ha determinato la ridefinizione della natura di stupefacente dei derivati della coltivazione. Quest’ultima è consentita esclusivamente per le finalità espressamente e tassativamente indicate dalla L. n. 242 del 2016, all’art. 1, comma 3, dal novero delle quali esula il commercio delle infiorescenze e della resina. Ne consegue che la L. n. 242 del 2016, non ha introdotto il principio di liceità delle condotte di detenzione e cessione della marijuana e dell’hashish, quali derivati della coltivazione di cannabis sativa L e, dunque, la commercializzazione delle predette sostanze, sempre che presentino un effetto drogante rilevabile, integra tuttora gli estremi del reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, che non è stato abrogato in parte qua. Deve inoltre rilevarsi che gli appositi controlli previsti dalla L. del 2016 con riguardo al tasso di THC sono relativi al coefficiente di principio attivo presente nelle piante in coltivazione e non nei prodotti finiti e incidono esclusivamente sulla posizione dell’agricoltore, non potendosi dunque neanche per questa via stabilirsi una interferenza della L. n. 242 del 2016, con la disciplina delle condotte di detenzione e cessione, oggetto del testo unico in materia di stupefacenti Cass., Sez. 6, n. 56737 del 27-11-2018, Ricci, cit. . 2. Secondo un contrario orientamento ermeneutico, è nella natura dell’attività economica che i prodotti della filiera agroindustriale della canapa , che la legge espressamente mira a promuovere, siano commercializzati. Tant’è che la L. n. 242 del 2016, si dirige ai produttori e alle aziende di trasformazione e non cita le attività successive semplicemente perché non vi è nulla da disciplinare riguardo ad esse. Dalla liceità della coltivazione della cannabis, alla stregua della L. n. 242 del 2016, deriva, infatti, naturalmente la liceità dei suoi prodotti, contenenti un principio attivo inferiore allo 0,6%, poiché essi non possono più essere considerati, ai fini giuridici, sostanze stupefacenti soggette alla disciplina del D.P.R. n. 309 del 1990. La fissazione del limite dello 0,6% di THC rappresenta infatti, nell’ottica del legislatore, un ragionevole punto di equilibrio fra le esigenze precauzionali relative alla tutela della salute e dell’ordine pubblico e quelle inerenti alla commercializzazione dei prodotti delle coltivazioni. La percentuale dello 0,6% di THC costituisce, infatti, il limite minimo al di sotto del quale i possibili effetti della cannabis non possono essere considerati, sotto il profilo giuridico, psicotropi o stupefacenti. Ne deriva che, ove sia incontroverso che le infiorescenze sequestrate provengano da coltivazioni lecite ex L. n. 242 del 2016, è esclusa la responsabilità penale sia dell’agricoltore che del commerciante, anche in caso di superamento del limite dello 0,6%, essendo quindi ammissibile soltanto un sequestro in via amministrativa, a norma della L. n. 242 del 2016, art. 4, comma 7, Cass., Sez. 6, n. 4920 del 29-112018, dep. 2019, Castignani . 3. Entrambe le tesi sono supportate da argomentazioni di indubbio spessore, sia sotto il profilo testuale che logico sistematico. Dai lavori preparatori della L. n. 242 del 2016, non emerge la volontà del legislatore di consentire la commercializzazione della marijuana e dell’hashish provenienti dalle coltivazioni lecite di cui alla predetta legge. Anzi nella relazione del Servizio Studi del Senato della Repubblica si dà atto che la normativa è volta alla promozione della coltivazione della canapa, mediante la creazione di una filiera nazionale, e che il parere espresso dalla XII Commissione Affari sociali è stato seguito nella parte in cui si esprimeva in senso contrario alla modifica del D.P.R. n. 309 del 1990. L’impostazione iniziale era, infatti, quella di superare le difficoltà connesse agli obblighi di certificazione del basso dosaggio di tetraidrocannabinolo nella canapa sativa destinata alla coltivazione escludendo quest’ultima dalla tabella delle sostanze stupefacenti. Nella classificazione tabellare sarebbe dunque ricaduta la sola cannabis indica che, come recitava la relazione dei proponenti originari, ha comunque un contenuto di tetraidrocannabinolo sempre superiore, e spesso di gran lunga, all’1/0 . Ma questa impostazione è stata abbandonata nel testo definitivo della legge, che ha lasciato invariato il D.P.R. n. 309 del 1990, e le relative tabelle. Dunque la cannabis sativa L è tuttora classificata fra le sostanze stupefacenti, rientrando nella tabella II. È, d’altronde, certamente estranea all’elenco delle finalità di cui alla L. n. 242 del 2016, art. 1, comma 3, qualunque indicazione relativa allo scopo di consentire la commercializzazione di hashish e di marijuana. Ed appare corretto il rilievo secondo il quale tale elencazione è tassativa. Non appare, d’altronde, condivisibile l’argomento secondo cui la commercializzazione di un bene che non presenti intrinseche caratteristiche di illiceità deve, in assenza di specifici divieti di legge, ritenersi consentita, nell’ambito del generale potere di ogni individuo di agire per il soddisfacimento dei propri interessi. Ragion per cui, in quest’ottica, la questione da porsi non sarebbe quella di stabilire se il commercio della cannabis proveniente dalle coltivazioni lecite, che non necessitano di autorizzazione, esuli o meno dalla disciplina dettata dal D.P.R. n. 309 del 1990, ma se quest’ultima disciplina possa o meno riguardare la commercializzazione di prodotti dei quali è riconosciuta la liceità. L’ordinamento considera, infatti, le norme incriminatrici come tassative eccezioni rispetto alla generale libertà di azione di ogni soggetto, ragion per cui eventuali ridimensionamenti della loro portata precettiva, come quello operato dalla L. n. 242 del 2016, si traducono in fisiologiche espansioni delle libertà individuali, che nel nostro sistema normativo non sono funzionalizzate a finalità pubblicistiche e restano espressioni individuali della persona, salvi i limiti previsti dall’art. 42 Cost., per l’iniziativa economica privata. Questo principio non appare però valido per la specifica materia delle sostanze stupefacenti, nella quale il combinato disposto del D.P.R. n. 309 del 1990, artt. 17, 73 e 75, pone, in via generale, il principio di illiceità delle condotte di detenzione per la vendita, cessione e commercializzazione delle sostanze stupefacenti incluse nelle tabelle di cui all’art. 14. Quest’ultima norma prevede, a sua volta, l’inserimento nella tabella II della cannabis e dei prodotti da essa ottenuti e quindi, come si diceva, anche della cannabis sativa L. Ragion per cui il divieto esiste e ha carattere generale, onde i rapporti fra il D.P.R. n. 309 del 1990, e la L. n. 242 del 2016, appaiono ricostruibili in termini di regola eccezione, dovendosi stabilire quale sia l’ambito applicativo del regime delineato da quest’ultima legge, da considerasi derogatoria di un principio generale e quindi insuscettibile di applicazioni analogiche. Tanto più che il principio della liceità della coltivazione della cannabis esclusivamente per uso industriale era già presente nel sistema, in quanto il D.P.R. n. 309 del 1990, art. 26, l’ammetteva soltanto per la produzione di fibre e per altri usi industriali, consentiti dalla normativa dell’Unione Europea. Dunque, ove si ritenga che la L. n. 242 del 2016, si collochi nel solco di tale indirizzo normativo, dovrebbe concludersi nel senso che la commercializzazione di hashish e di marijuana sia del tutto estranea all’ambito di applicabilità della legge. In senso contrario depone però la considerazione che tra le finalità della legge rientrano, a norma della L. n. 242 del 2016, art. 1, comma 3, lett. d , il sostegno e la promozione della coltura della canapa finalizzata alla produzione di alimenti. Ed anzi l’art. 2, comma 2, stabilisce espressamente che dalla canapa coltivata è possibile ottenere alimenti, sia pure prodotti nel rispetto delle discipline di settore. A sua volta, l’art. 5, rinvia a un decreto del Ministro della salute, da adottare entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della legge, la definizione dei livelli massimi di residui di THC ammessi negli alimenti. E l’art. 9, assegna al Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali il compito di promuovere il riconoscimento di un sistema di qualità alimentare per i prodotti derivati dalla canapa, ai sensi dell’art. 16, par. 1, lett. b o c del regolamento UE n. 1305/2013 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 17 dicembre 2013. Questo complesso di norme, ammettendo l’utilizzo di alimenti contenenti residui di THC, sancisce la liceità del consumo umano e quindi della commercializzazione di prodotti contenenti tale principio attivo, sia pure alle condizioni e nei limiti stabiliti dalla normativa. Alla stregua di tali considerazioni acquista un consistente spessore logico il rilievo secondo il quale se, ai sensi della L. n. 242 del 1990, art. 1, comma 2, la coltivazione di canapa delle varietà ammesse, iscritte nel catalogo indicato dalla predetta norma, esula dall’ambito di applicazione del D.P.R. n. 309 del 1990, e se il consumo umano, e quindi la commercializzazione, di prodotti alimentari contenenti THC rientra nel predetto ambito di piena liceità, sembrerebbe contraddittorio ritenere vietata la detenzione, cessione e vendita di derivati della cannabis provenienti dalle coltivazioni contemplate dalla L. n. 242 del 2016. 4. Al di là delle considerazioni esposte, è comunque incontrovertibile l’esistenza, nella materia in esame, di un contrasto giurisprudenziale, onde si ritiene necessario rimettere alle Sezioni unite la risoluzione del quesito di diritto se le condotte diverse dalla coltivazione di canapa delle varietà di cui al catalogo indicato nella L. 2 dicembre 2016, n. 242, art. 1, comma 2, e, in particolare, la commercializzazione di cannabis sativa L rientrino o meno nell’ambito di applicabilità della predetta legge e siano pertanto penalmente irrilevanti, ai sensi di tale normativa. P.Q.M. Rimette il ricorso alle Sezioni unite.