Il concetto di vis rilevante ai fini del reato di violenza privata

Il reato di cui all’art. 610 c.p. è configurabile anche nel caso in cui l’agente abbia posto in essere una forma di violenza impropria” con l’uso di mezzi anomali diretti ad esercitare pressioni sulla volontà altrui impedendone la libera determinazione

Così la Corte di legittimità con la sentenza n. 3725/19, depositata il 25 gennaio. Il caso. La Corte d’Appello di Milano, riformando parzialmente, la sentenza di prime cure, assolveva l’imputato dal reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni mediante violenza sulle cose, confermando le residue imputazioni per violenza privata. Avverso tale pronuncia propone ricorso per cassazione l’imputato denunciando vizio argomentativo sul punto relativo alla valutazione del concetto di violenza come integrante del reato di cui all’art. 610 c.p. violenza privata . Il ricorrente infatti si era limitato ad un’azione omissiva di mancata collaborazione rifiutandosi di consegnare le chiavi dell’appartamento al proprietario. Vis. La costante giurisprudenza richiede, ai fini della sussistenza dell’elemento della violenza nel reato di cui all’art. 610 c.p., un qualsiasi comportamento idoneo a privare coattivamente della libertà di determinazione e di azione, potendo configurarsi anche in una violenza impropria” attraverso l’uso di mezzi anomali diretti ad esercitare pressioni sulla volontà altrui impedendone la libera determinazione. Sulla base di tale premessa e dei vari precedenti giurisprudenziali, il Collegio condivide l’interpretazione offerta dalla Corte d’Appello in punto di sussistenza del reato, risultata coerente con il principio per cui ai fini della configurabilità del delitto di violenza privata, è necessaria l’estrinsecazione di una qualsiasi energia fisica immediatamente produttiva di una situazione idonea ad incidere sulla libertà psichica di determinazione e azione del soggetto passivo . Nel caso di specie, nonostante la sussistenza di un comportamento omissivo a fronte di una richiesta altrui, è pacificamente configurabile il reato in parola risolvendosi la condotta del ricorrente in una forma passiva di mancata cooperazione al conseguimento del risultato voluto dal richiedente. Il ricorrente infatti non si era limitato ad un atteggiamento meramente passivo, ma aveva posto in essere anche una condotta attiva con la manifestazione di forza consistente nell’apposizione di un portoncino chiuso a chiave allo scopo di comprimere la volontà della vittima del reato. In conclusione, la Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 14 novembre 2018 – 25 gennaio 2019, n. 3725 Presidente Vessicchelli – Relatore Amatore Ritenuto in fatto 1.Con la sentenza impugnata la Corte di Appello di Milano - in parziale riforma della sentenza di condanna emessa in data 24.3.2015 dal Tribunale di Milano a carico del predetto imputato per i reati di cui agli artt. 392 e 610 cod. pen. - ha assolto il ricorrente dal reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni mediante violenza sulle cose e ha, tuttavia, confermato le residue statuizioni di condanna per il reato di violenza privata. Avverso la predetta sentenza ricorre l’imputato, per mezzo del suo difensore, affidando la sua impugnativa ai seguenti motivi di doglianza. 1.1 Denunzia il ricorrente, con il primo motivo, violazione di legge in riferimento all’art. 610 cod. pen. e art. 125 cod. proc. pen. e, comunque, vizio argomentativo sul medesimo punto. 1.1.1 Osserva la difesa l’erroneità della valutazione giuridica espressa dalla Corte territoriale sul concetto di violenza come tale integrante il residuo reato di cui all’art. 610 cod. pen. per il quale era intervenuta conferma della condotta in sede di appello, atteso che l’agente, nel caso di specie, si era limitato ad una azione solo omissiva e di mancata collaborazione, cioè non aver consegnato le chiavi dell’appartamento al proprietario evidenzia, ancora, che, sulla base di una serie di precedenti espressi da questa Corte, per la ricorrenza della violenza impropria , come tale integrante anche il reato in esame, occorre comunque la manifestazione un minimo di vis attiva per poter integrare la condotta di coazione del comportamento altrui, situazione, invece, non sussistente nella fattispecie in esame. 1.1.2 Sotto altro e diverso profilo, si denunzia - sempre nel primo motivo - vizio di motivazione in riferimento alla valutazione di pretestuosità della motivazione addotta dal ricorrente e posta a sostegno della mancata restituzioni delle chiavi , atteso che tale valutazione si fondava su un travisamento della prova evidenziato dal fatto che, contrariamente a quanto affermato dai giudici dell’appello, l’appartamento - ove si erano svolti i lavori di ristrutturazione - non era abitato neppure parzialmente dai committenti e dunque risultava fondata la giustificazione di non aver fornito le chiavi ai proprietari per ragioni di sicurezza legati al cantiere ancora aperto. 1.2 Con un secondo motivo si declina vizio di violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt. 125 e 539 cod. proc. pen. e art. 62 bis cod. pen. ed in ordine al diniego nella concessione delle reclamate attenuanti generiche e all’adeguata commisurazione delle statuizioni civilistiche. Considerato in diritto 2. Il ricorso è infondato. 2.1 Il primo motivo di doglianza non è condivisibile e va pertanto rigettato. 2.1.1 Non può essere dimenticato che la giurisprudenza di questa Corte ha più volte affermato che l’elemento della violenza nel reato di cui all’art. 610 cod. pen. si identifica in qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente l’offeso della libertà di determinazione e di azione, potendo consistere anche in una violenza impropria , che si attua attraverso l’uso di mezzi anomali diretti ad esercitare pressioni sulla volontà altrui, impedendone la libera determinazione cfr. anche Sez. 5, Sentenza n. 4284 del 29/09/2015 Ud. dep. 02/02/2016 Rv. 266020 in applicazione del principio, questa Corte ha stabilito che integra il reato di violenza privata la condotta di chi - il marito nei confronti della moglie, nella specie - impedisce l’esercizio dell’altrui diritto di accedere ad un locale o ad una delle stanze di un’abitazione, chiudendone a chiave la serratura si legga anche Sez. 5, Sentenza n. 48369 del 13/04/2017 Cc. dep. 20/10/2017 Rv. 271267 . Ciò posto, va osservato come anche la copiosa giurisprudenza allegata dalla parte ricorrente non si ponga, in realtà, in contrasto con la possibilità di affermare, anche nel caso di specie, la configurabilità del reato di violenza privata nella condotta posta in essere dall’odierno ricorrente. Invero, è stato affermato sempre da questa Corte di legittimità che, ai fini della configurabilità del delitto di violenza privata, è necessaria l’estrinsecazione di una qualsiasi energia fisica immediatamente produttiva di una situazione idonea ad incidere sulla libertà psichica di determinazione e azione del soggetto passivo. Ne consegue che esula dalla fattispecie delittuosa un comportamento meramente omissivo a fronte di una richiesta altrui, quando lo stesso si risolva in una forma passiva di mancata cooperazione al conseguimento del risultato voluto dal richiedente Sez. 6, n. 2013 del 18/11/2009 - dep. 18/01/2010, P.C. in proc. C., Rv. 24576901 Sez. 5, Sentenza n. 15651 del 07/03/2014 Ud. dep. 07/04/2014 Rv. 259879 . Orbene, ritiene la Corte come la condotta dell’agente - che aveva apposto tramite un suo lavorante il portoncino di ingresso alla porta dell’abitazione e che aveva chiuso la porta stessa senza consegnare le chiavi al proprietario - avesse esplicato, in realtà, una energia fisica attiva, immediatamente produttiva di una situazione idonea ad incidere sulla libertà psichica altrui attraverso l’impedimento al proprietario di accedere alla sua abitazione. Detto altrimenti, la condotta contestata all’imputato, come tale integrante il concetto di violenza impropria sopra tratteggiato, non si era limitata ad un atteggiamento meramente passivo ovvero non collaborativo, ma si era estrinsecata attraverso una condotta attiva dispiegatasi, dunque, con la manifetazione di una forza volta a comprimere la libertà di azione della vittima del reato ciò proprio attraverso - come sopra detto - l’apposizione del portoncino e la chiusura dello stesso . 2.1.2 La seconda censura, declinata come vizio argomentativo sempre in riferimento al primo motivo di doglianza, è invece manifestamente infondata, atteso che è rimasta mera allegazione difensiva sprovvista di qualsiasi supporto probatorio l’affermazione secondo cui l’appartamento delle cui chiavi l’appaltatore aveva rifiutato la consegna era in condizioni di pericolosità per i terzi, così giustificando la condotta del ricorrente. Peraltro, va anche considerato che si trattava di un appartamento in uso ai proprietari con l’ovvia conseguenza che quest’ultimi ne potevano usufruire anche nel periodo di esecuzione dei lavori. 2.2 Il secondo motivo, articolato come doglianza sulla quantificazione della pena e sulle statuizioni civili, è invece inammissibile perché versato in fatto e volto a sollecitare la Corte ad una nuova rivalutazione del merito della decisione. 3. In base al principio della soccombenza, l’imputato deve essere condannato, alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalle parti civili liquidate come in dispositivo. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalle P.C., liquidate in Euro 1800, oltre accessori come per legge.