Vittoria per una signora che prima ha deciso di ospitare il figlio e la sua famiglia nella casa popolare a lei assegnata ma poi, resasi conto della impossibilità della convivenza, gli ha chiesto di andare via. Il figlio si è opposto e ha continuato a vivere sotto lo stesso tetto della madre.
Convivenza impossibile così una madre decide di cacciare di casa il figlio e la relativa famiglia cioè moglie e figlia . L’uomo la prende malissimo, si oppone all’‘invito’ della madre, prova a resistere, rimanendo comunque a vivere sotto quel tetto, ma alla fine si ritrova condannato per violazione di domicilio Cassazione, sentenza numero 3529/19, sez. V Penale, depositata oggi . Alloggio. Facilmente ricostruita nei dettagli la vicenda inizialmente la donna ha accolto a casa – un alloggio popolare – il figlio, la nuora e la nipote, alla luce dei loro «problemi economici», però col trascorrere del tempo «la convivenza» è diventata a suo dire «non più praticabile». Consequenziale è stata la richiesta al figlio di trovare una nuova sistemazione per lui e per la sua famiglia. Immaginabile la reazione dell’uomo, che ha preso malissimo la comunicazione fattagli dalla madre e ha comunque prolungato il più possibile la propria presenza, assieme a moglie e figlia, sotto il tetto della donna. Così è cominciato lo scontro tra la donna, che ha «ripetutamente chiesto al figlio di andarsene», e l’uomo, che ha continuano a vivere sotto lo stesso tetto della madre. E lo scontro è diventato poi una vera e propria guerra legale, col figlio sotto processo per «violazione di domicilio». A porre fine alla faida familiare provvedono ora i Giudici della Cassazione, condividendo le valutazioni delineate tra Tribunale e Corte d’appello e rendendo definitiva la condanna dell’uomo per il reato di «violazione di domicilio». Decisiva «la manifestazione di volontà» della donna di «revocare la propria disponibilità» ad ospitare il figlio, la nuora e la nipote. A testimoniarlo il fatto che ella non solo «aveva più volte richiesto al figlio di lasciare l’abitazione» ma aveva anche fatto presente la situazione alle forze dell’ordine e addirittura all’Istituto autonomo case popolari quale ente proprietario dell’alloggio. A fronte di questi dati, quindi, è impossibile, spiegano i magistrati, ritenere che l’abitazione della donna «fosse anche il domicilio del figlio e della sua famiglia». E ciò permette di ritenere «caratterizzata da illiceità» la sua prolungata – e mal gradita – presenza nella casa della madre.
Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 27 novembre 2018 – 24 gennaio 2019, numero 3529 Presidente Stanislao – Relatore Borrelli Ritenuto in fatto 1. Con sentenza del 5 luglio 2017, la Corte di appello di Palermo ha rigettato l'appello di Anumero Lu. avverso la sentenza di condanna per violazione di domicilio aggravata emessa dal locale Tribunale secondo l'accusa, l'imputato si era trattenuto presso l'alloggio popolare assegnato alla madre Gr. Tr. insieme a moglie e figlia nonostante la persona offesa, dopo un iniziale consenso ad accoglierlo dati i suoi problemi economici, gli aveva ripetutamente chiesto di andarsene perché riteneva non più ulteriormente praticabile la convivenza. 2. Ricorre avverso detta sentenza il difensore del Lu., il quale articola un unico motivo per vizio di motivazione e violazione di legge. La sentenza impugnata sarebbe illogica in quanto non aveva tenuto conto dell'assoluzione in altro processo di Lu. dal reato di maltrattamenti ai danni della madre e della ricostruzione dei rapporti familiari che ne era derivata. La norma che si assume violata non tutela diritti reali o di natura obbligatoria, ma il concetto di domicilio la sentenza aveva errato nell'attribuire rilievo alla genesi del rapporto di coabitazione ed alla decisione della persona offesa di allontanare gli ospiti, nonché nel trascurare che la madre aveva accolto il figlio ed il nucleo familiare di questi nella prospettiva della creazione di un gruppo familiare unico e di una convivenza stabile e che la casa era stata rivoluzionata per accogliere l'imputato e i suoi stretti familiari la stabilità del rapporto di convivenza sarebbe dimostrata altresì dal fatto che Lu. è stato processato per il reato di cui all'articolo 572 cod. penumero , che presuppone una convivenza stabile secondo il ricorrente, la sentenza di assoluzione per il delitto di maltrattamenti - di cui riporta uno stralcio - avallerebbe detto assunto. La motivazione della sentenza era altresì contraddittoria quanto al riconoscimento della circostanza aggravante della violenza alla persona in quanto le aggressioni ai danni della madre erano correlate non già alle richieste di quest'ultima di lasciare l'abitazione, ma alle pretese di denaro dell'imputato quanto all'aggravante della violenza alle cose, il danneggiamento delle porte era solo lo sfogo di una frustrazione e non era correlato al tema dell'allontanamento. Considerato in diritto 1. Il ricorso è inammissibile. 1.1. In primo luogo, quanto alla sussistenza oggettiva del reato, la sentenza ha spiegato, con argomentazioni non contraddittorie e prive di tratti di manifesta illogicità, perché si trattasse di un'ospitalità precaria nonché quale fosse la rilevanza - rispetto alla mancanza di stabilità del rapporto che legava l'imputato all'immobile - della sopravvenuta manifestazione di volontà dell'ospitante di revocare la propria disponibilità, resa nota ripetutamente sia al diretto interessato, a cui la madre aveva più volte richiesto di lasciare l'abitazione, sia alle forze dell'ordine e addirittura all'I.A.C.P. Tale manifestazione di volontà da parte dell'unica avente diritto ad abitare quell'alloggio è stata razionalmente reputata, dal Collegio di merito, un fattore impeditivo all'insorgere di quel rapporto di stabilità indispensabile per ritenere che quell'appartamento fosse anche il domicilio del ricorrente e della sua famiglia e per escludere che la sua permanenza in loco fosse caratterizzata da illiceità. Peraltro, a supporto delle proprie doglianze, il ricorrente pone la sentenza per maltrattamenti emessa dalla Corte territoriale palermitana da cui, in tesi, dovrebbe evincersi l'esistenza di un rapporto di coabitazione tuttavia, al netto di ogni valutazione circa le implicazioni della convivenza rispetto alla configurabilità del delitto di cui all'articolo 572 cod. penumero , la censura non è supportata da specificazioni o produzioni che consentano di comprendere se il dato giudiziario evocato sia stato oggetto di una mancata valutazione dei giudici di merito ovvero come tale precedente possa orientare il giudizio di legittimità, ancorato alla sola valutazione della sentenza impugnata, salvo doglianze di ordine processuale o di travisamento della prova. Si deve, pertanto, concludere che questo primo segmento del ricorso è inammissibile sia per manifesta infondatezza che per genericità. 1.2. Il ricorso è altresì inammissibile circa il riconoscimento delle aggravanti, dal momento che esso è teso a richiedere una nuova ponderazione delle risultanze processuali che è fuori dall'ambito decisionale di questa Corte, che non può rivalutare i fatti storici accertati nel corso dei gradi di merito e valutati con congrua motivazione. Come autorevolmente sancito da Sez. U, numero 6402 del 30/04/1997, Dessimone e altri, Rv. 207944, l'indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione essere limitato - per espressa volontà del legislatore - a riscontrare l'esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di verificare l'adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali. Esula, infatti, dai poteri della Corte di cassazione quello di una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali ex multis, anche Sez. U, numero 47289 del 24/09/2003, Petrella, Rv. 226074 . 2. All'inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente, ai sensi dell'articolo 616 cod. proc. penumero , al pagamento delle spese del procedimento e al versamento della somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle ammende, così equitativamente determinata in relazione ai motivi di ricorso che inducono a ritenere la parte in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità Corte cost. 13/6/2000 numero 186 . 3. La natura dei rapporti oggetto della vicenda impone, in caso di diffusione della presente sentenza, l'omissione delle generalità e degli altri dati identificativi. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e della somma di Euro 2000,00 a favore della Cassa delle ammende. In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi a norma dell'articolo 52 D.Lgs. 196/03 in quanto imposto dalla legge.