Quando essere madre di una bimba di dieci anni non rappresenta una condizione assoluta per l’accesso a misure detentive alternative

La madre di una bimba di dieci anni viene condannata per i reati ex art. 600 e 602-ter c.p. e le viene negato l’utilizzo del braccialetto elettronico, ossia della misura detentiva alternativa degli arresti domiciliari. Gli Ermellini, infatti, non riconoscono un diritto assoluto della madre di minore inferiore ai dieci anni ad espiare la pena attraverso le misure agevolate .

Così enunciato dal Supremo Collegio con la sentenza n. 2695/19, depositata il 21 gennaio. Una madre sottoposta alla custodia cautelare in carcere. Una madre convivente con la figlia minore di dieci anni, veniva giudicata dal Gip in ordine ai reati ex art. 600 e 602 -ter c.p. nei confronti dell’indagata veniva applicata la misura cautelare della custodia in carcere, statuizione che veniva confermata successivamente dal Tribunale di Napoli. Avverso l’ordinanza del Tribunale l’indagata ricorre in Cassazione deducendo la violazione dell’art. 274 c.p.p. Esigenze cautelari e delle norme della Convenzione ONU sui diritti del fanciullo le quali, in relazione alla personale condizione della ricorrente essendo incensurata, priva di carichi pendenti e convivente con la figlia minorenne se condannata, dispongono che la misura cautelare potrebbe essere soddisfatta anche con la misura meno afflittiva degli arresti domiciliari, con il dispositivo del braccialetto elettronico. L’utilizzo del braccialetto elettronico e la valutazione del caso di specie. In primo luogo il Supremo Collegio espone, nuovamente, la funzionalità del braccialetto elettronico è un dispositivo il cui utilizzo si limita a individuare il momento dell’uscita dell’indagato dal perimetro del proprio domicilio. Spostando l’attenzione dell’intensità della pericolosità sociale dell’imputato, la Corte osserva che l’uso del braccialetto elettronico, come gli arresti domiciliari ed i dispositivi di controllo ex art. 275 c.p.p. Criteri di scelta delle misure , sia potenzialmente inidoneo ad impedire i collegamenti dell’indagata con soggetti facenti parte di un contesto delinquenziale mezzi inidonei, dunque, a evitare la reiterazione del reato. Per tali ragioni, è di competenza del giudice di merito valutare quale sia la misurale cautelare più efficacie” per il caso concreto, dovendo contestualmente esplicitare le ragioni per quali si è adottata la decisione assunta. Apprezzamenti insindacabili in sede di legittimità. La condizione personale dell’indagata non rappresenta un automatismo”. Quanto alla pretesa di incompatibilità della misura cautelare in carcere con la condizione personale dell’indagata, la S.C. osserva ex art. 275, comma 4, c.p.p. che vi è un unico caso in cui la maternità possa impedire l’adozione di predetta misura cautelare, ossia quando l’indagata o imputata sia madre di prole di età non superiore a sei anni con lei convivente . Ne consegue che, al di fuori di detta ipotesi, la condizione di madre convivente con la bimba di dieci anni non rappresenta un ostacolo all’adozione della misura cautelare della custodia in carcere misura che andrà comunque giustificata alla luce delle esigenze cautelari ex art. 274 e ss. c.p.p. spettando, inoltre, al giudice di merito valutare se il pur preminente interesse del minore possa restare recessivo di fronte alle esigenze di protezioni della società de crimine , apprezzamento della singola situazione concreta. Nel caso di specie la ricorrente deduceva che il semplice fatto della condizione di madre era idoneo a giustificare la concessione degli arresti domiciliari omettendo, quindi, una valutazione degli interessi della minore per tali ragioni la S.C. rigetta il ricorso.

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 2 luglio 2018 – 21 gennaio 2019, n. 2695 Presidente Palla – Relatore Guardiano Fatto e diritto 1. Con l’ordinanza di cui in epigrafe il tribunale di Napoli, adito ex art. 309 c.p.p., confermava l’ordinanza con cui il giudice per le indagini preliminari presso il medesimo tribunale, in data 30.3.2018, aveva applicato la misura cautelare della custodia in carcere, nei confronti di A.E. , in quanto gravemente indiziata dei fatti, costituenti reato, a lei ascritti in sede di imputazione provvisoria artt. 600 e 602 ter c.p. . 2. Avverso l’ordinanza del tribunale del riesame, di cui chiede l’annullamento, ha proposto tempestivo ricorso per cassazione l’indagata, a mezzo del suo difensore di fiducia, lamentando 1 violazione di legge processuale e vizio di motivazione, per non avere fornito, il tribunale, adeguata risposta ai rilievi difensivi sulla inattendibilità della persona offesa D.A. , le cui dichiarazioni contraddittorie sono state poste a fondamento della decisione assunta, senza essere munite dei necessari riscontri, essendosi limitato, il giudice dell’impugnazione cautelare, a condividere genericamente la valutazione operata dal giudice per le indagini preliminari 2 violazione di legge e vizio di motivazione, in relazione al disposto dell’art. 274 c.p.p. e delle norme della Convenzione ONU sui diritti del fanciullo, come interpretate dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 76 del 2017, in quanto la condizione dell’indagata, soggetto incensurato e privo di carichi pendenti, che, in quanto convivente con una figlia minore di anni dieci, se condannata, avrebbe potuto scontare la pena in stato di detenzione domiciliare, consente di affermare che la misura cautelare di cui all’art. 274 c.p.p., lett. c , avrebbe potuto essere soddisfatta anche con la misura meno afflittiva degli arresti domiciliari, con il dispositivo del braccialetto elettronico. 3. Il ricorso va dichiarato inammissibile per le seguenti ragioni. 4. Ed invero, con il primo motivo di impugnazione, nel prospettare una lettura parziale e generica delle risultanze investigative, la ricorrente deduce, in realtà, una censura di merito, non consentita in sede di legittimità. Come è noto, infatti, in tema di impugnazione dei provvedimenti in materia di misure cautelari personali, il ricorso per cassazione è ammissibile soltanto se denuncia la violazione di specifiche norme di legge ovvero la manifesta illogicità della motivazione del provvedimento secondo i canoni della logica ed i principi di diritto, ma non anche quando propone censure che riguardino la ricostruzione dei fatti ovvero che si risolvano in una diversa valutazione delle circostanze esaminate dal giudice di merito cfr., ex plurimis Cass., sez. 5, 8/10/2008, n. 46124, rv. 241997 . Orbene, nel caso in esame, il tribunale del riesame di Napoli ha affrontato in maniera più che esaustiva il tema dei gravi indizi di colpevolezza ed, in particolare, della credibilità personale della persona offesa e dell’attendibilità delle sue dichiarazioni accusatorie che, come è o dovrebbe essere ormai noto, per essere utilizzate non hanno bisogno di essere supportate da riscontri estrinseci , attraverso una penetrante ed autonoma disamina del materiale raccolto nella fase delle indagini preliminari e delle obiezioni sollevate dalla difesa dell’indagata cfr. pp. 1-5 dell’ordinanza impugnata . 5. Con riferimento al tema delle esigenze cautelari e dell’adeguatezza della misura applicata all’indagata, vanno, innanzitutto, ribaditi i principi da tempo affermati dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui in materia di provvedimenti de libertate, la Corte di Cassazione non ha alcun potere di revisione degli elementi materiali e fattuali delle vicende indagate, ivi compreso lo spessore degli indizi, né di rivalutazione delle condizioni soggettive dell’indagato, in relazione alle esigenze cautelari e all’adeguatezza delle misure, trattandosi di apprezzamenti di merito rientranti nel compito esclusivo e insindacabile del giudice che ha applicato la misura e del tribunale del riesame. Il controllo di legittimità è quindi circoscritto all’esame del contenuto dell’atto impugnato per verificare, da un lato, le ragioni giuridiche che lo hanno determinato e, dall’altro, l’assenza di illogicità evidenti, ossia la congruità delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento cfr., ex plurimis, Cass., sez. 4, 3.2.2011, n. 14726, D.R. . Ciò posto va rilevato che il tribunale del riesame, con articolata motivazione, ha, da un lato, dettagliatamente indicato le ragioni che inducono a ritenere quella carceraria come l’unica misura in grado di soddisfare le ritenute esigenze cautelari di tutela della collettività, ravvisabili nel caso in esame con un elevato grado di intensità, che le rende concrete ed attuali, proprio in virtù di una serie di elementi fattuali, specificamente esaminati, relativi alla gravità dei fatti, desunta dalle modalità della condotta particolarmente odiosa posta in essere dalla A. attraverso l’avviamento alla prostituzione della persona offesa, minorenne giunta dalla Nigeria in Italia, ed alla negativa personalità dell’indagata, che ha svolto un ruolo di assoluto rilievo nella gestione dell’attività di sfruttamento della prostituzione della vittima, dimostrando di essere inserita in un ampio contesto delinquenziale, quale partecipe di rapporti con altri soggetti stabilmente inseriti nel circuito della prostituzione cfr. pp. 5-6 dell’impugnata ordinanza . Dall’altro, si è soffermato specificamente, ancora una volta con motivazione approfondita, sui motivi che non consentono di ritenere adeguata la misura cautelare meno afflittiva degli arresti domiciliari, anche attraverso l’uso del braccialetto elettronico , evidenziando, in particolare, tenuto conto anche della natura del dispositivo di controllo a distanza, che si limita ad individuare il momento dell’uscita dell’indagato dal perimetro del proprio domicilio, come gli arresti domiciliari ed i dispositivi di controllo di cui all’art. 275 bis c.p.p., anche in considerazione dell’intensità della ritenuta pericolosità sociale, siano inidonei, tra l’altro, ad impedire i collegamenti dell’indagata con i soggetti innanzi indicati e, dunque, la reiterazione del reato cfr. p. 6 dell’impugnata ordinanza . Risultano, dunque, puntualmente rispettati i principi affermati dalla più recente giurisprudenza di legittimità, condivisi dal Collegio, che impongono al giudice, in tema di scelta delle misure cautelari, a seguito delle modifiche apportate dalla L. 16 aprile 2015, n. 47, all’art. 275 c.p.p., comma 3, anche in sede di impugnazione cautelare, il dovere di esplicitare specificamente le ragioni per le quali, a fronte di un’ordinanza applicativa della custodia cautelare in carcere, sono inadeguate le altre misure, coercitive ed interdittive. Dovere, che va adempiuto anche in ordine alla inidoneità della misura degli arresti domiciliari con braccialetto elettronico, ove non si sia al cospetto di una delle ipotesi di presunzione assoluta di adeguatezza cfr. Cass., sez. 3, 17/12/2015, n. 842, rv. 265964 Cass., Sez. U. 28/04/2016, n. 20769, rv. 266651 . Quanto alla pretesa incompatibilità della misura cautelare in carcere con la condizione dell’indagata di madre di figlia convivente di età inferiore ai dieci anni, si osserva che le osservazioni difensive appaiono manifestamente infondate, oltre che genericamente esposte. Al riguardo si rileva che l’unico caso in cui la maternità impedisce di adottare la misura cautelare della custodia in carcere, a meno che non ricorrano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, e quello, contemplato dall’art. 275 c.p.p., comma 4, di indagata o imputata che sia madre di prole di età non superiore ai sei anni con lei convivente . Se ne ricava che, al di fuori di tale ipotesi, la condizione di madre di figlia convivente di età inferiore ai dieci anni, non costituisce ostacolo all’adozione della misura cautelare della custodia in carcere, che, ovviamente, andrà giustificata, sotto il profilo delle esigenze cautelari e della adeguatezza della misura, alla luce dei parametri fissati dagli artt. 274 e 275 c.p.p., come del resto ha fatto il tribunale del riesame di Napoli. Tanto premesso, a ricorrente non invoca in suo favore l’applicazione di tale disposizione normativa, non ricorrendone i presupposti, ma denuncia l’irrazionalità della motivazione del tribunale del riesame, che non ha tenuto conto, con particolare riferimento ai diritti del fanciullo dei principi affermati dalla Corte Costituzionale, nella sentenza n. 76 del 2017. Si tratta di un assunto del tutto inconferente, sotto un duplice profilo. Da un lato, infatti, è impropria l’assimilazione alla disciplina dettata dal codice di rito in tema di arresti domiciliari di quella prevista dalla L. 26 luglio 1975, n. 354 cosiddetto ordinamento penitenziario , relativamente alla detenzione domiciliare, considerati i diversi ambiti di applicazione delle misure in questione la prima prevista per ragioni di cautela nel corso del procedimento e prima della pronuncia definitiva, la seconda prevista per finalità rieducative e di reinserimento sociale nel corso dell’esecuzione della pena e in presenza di determinate condizioni. cfr. Cass., sez. 1, 12.3.2008, n. 17237, rv. 239621, secondo cui, proprio in applicazione di tale principio, anche dopo l’esclusione, dai reati ostativi alla concessione degli arresti domiciliari, dei reati di rapina ed estorsione aggravata, disposta dalla L. 21 febbraio 2006, n. 49, art. 4-sexies, continua ad essere interdetta, a norma della L. 26 luglio 1975, n. 354, art. 4-bis la concessione della detenzione domiciliare ai soggetti condannati per i suddetti reati . D’altro lato, con la menzionata sentenza la Corte Costituzionale si è limitata ad affermare l’illegittimità costituzionale, per violazione dell’art. 31 Cost., comma 2 – della L. n. 354 del 1975, art. 47-quinquies, comma 1-bis, limitatamente alle parole Salvo che nei confronti delle madri condannate per taluno dei delitti indicati nell’art. 4-bis, . Come affermato dal giudice delle leggi la disposizione censurata dal Tribunale di Sorveglianza di Bari - che, nel significato reso palese dalla sua formulazione letterale, impedisce in assoluto alle predette condannate, anche laddove si sia verificata la condizione della collaborazione con la giustizia, di espiare la frazione iniziale di pena detentiva secondo le modalità agevolate ivi previste presso un istituto a custodia attenuata, o, ricorrendone le condizioni, nel domicilio o presso luoghi di cura, assistenza o accoglienza - introduce un automatismo preclusivo dell’accesso a un istituto, come la detenzione domiciliare speciale, primariamente volto alla salvaguardia del rapporto della madre condannata con il minore in tenera età. Lungi dal costituire bilanciamento di contrapposti interessi di rilievo costituzionale, tale preclusione assoluta - non consentendo al giudice di verificare la sussistenza in concreto, nelle singole situazioni, delle esigenze di difesa sociale sottese alla necessaria espiazione della pena detentiva da parte delle madri di minori infradecenni condannate per uno dei reati inclusi nell’elenco complesso, eterogeneo, stratificato e di diseguale gravità dell’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario - pretermette e sacrifica totalmente l’interesse del minore ad instaurare un rapporto quanto più possibile normale con la madre, nonché la stessa finalità di reinserimento sociale della condannata non estranea alla detenzione domiciliare speciale, quale misura alternativa alla detenzione . Si tratta, in tutta evidenza, di una decisione in cui non solo gioca un ruolo decisivo la finalità di rieducazione sociale della detenzione domiciliare speciale, ma che nemmeno riconosce un assoluto diritto della madre di minore inferiore ai dieci anni di età ad espiare la pena con le indicate modalità agevolate, in quanto, una volta eliminato l’automatismo preclusivo dell’accesso alla detenzione domiciliare speciale per la madre di prole infradecennale condannata per uno dei delitti previsti dal citato art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario automatismo indubbiamente foriero di un assoluto sacrificio della condizione della madre e del suo rapporto con la prole , spetterà sempre al giudice verificare se il pur preminente interesse del minore possa restare recessivo di fronte alle esigenze di protezione della società dal crimine, la cui sussistenza e consistenza andranno verificate in concreto, e non già sulla base di automatismi che impediscono al giudice ogni margine di apprezzamento delle singole situazioni. Orbene di tale articolato argomentare e delle implicazioni che ne derivano, non vi è traccia nelle ragioni della ricorrente, che, in ultima analisi, si limita ad affermare che il semplice fatto della condizione di madre di una minore di anni dieci avrebbe dovuto giustificare la concessione degli arresti domiciliari in suo favore, pur a fronte di un severissimo giudizio sulla intensità dell’esigenza di tutela della collettività dall’indagata formulato dal tribunale del riesame di Napoli. 6. Alla dichiarazione di inammissibilità segue la condanna della ricorrente, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., al pagamento delle spese del procedimento ed, in favore della cassa delle ammende, di una somma che si ritiene equo fissare in Euro 2000,00 Euro, tenuto conto della circostanza che l’evidente inammissibilità dei motivi di impugnazione, non consente di ritenere quest’ultima immune da colpa nella determinazione delle evidenziate ragioni di inammissibilità cfr. Corte Costituzionale, n. 186 del 13.6.2000 . P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2000,00 in favore della cassa delle ammende. Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.