Telefonate e messaggi Whatsapp: condannato per stalking

Pena definitiva per l’imputato, colpevole di avere perseguitato una professionista che doveva effettuare una consulenza psicologica sulla figlia. Evidente, secondo i Giudici, l’invasione compiuta ai danni della vita privata della donna inequivocabile, a questo proposito, il riferimento alla città in cui viveva e alla sua famiglia.

Due telefonate e alcuni messaggi – corredati da video e foto – tramite Whatsapp. Elementi sufficienti, secondo i Giudici, per parlare di stalking. Ecco spiegata la condanna per un padre che ha preso di mira la professionista a cui era stato affidato il compito di effettuare una consulenza sulla figlia Corte di Cassazione, sentenza numero 61/19, sez. V Penale, depositata oggi . Invasione. Il quadro probatorio a disposizione, ossia le condotte tenute dall’imputato e rivolte alla professionista, è valutato come sufficiente per una condanna. Su questo punto concordano i Giudici del Tribunale e della Corte d’Appello, i quali ritengono logico catalogare la vicenda come un esempio di stalking. In secondo grado, comunque, la pena viene ridotta a otto mesi di reclusione. Quest’ultima piccola vittoria non soddisfa però l’imputato, che sceglie di presentare ricorso in Cassazione, chiedendo una lettura meno severa dei comportamenti da lui tenuti nei confronti della donna. In particolare, egli sostiene che le azioni compiute, ossia «due telefonate» e «l’invio di dodici messaggi tramite Whatsapp», sono «prive di qualunque idoneità lesiva», non essendo rilevabili «intrusioni fisiche continue nella vita della donna». Questa osservazione non convince però i Giudici della Cassazione, i quali ritengono evidente, invece, «l’invasione nella sfera intima» della professionista, costretta addirittura a «pernottare provvisoriamente in un’altra abitazione, sospendendo la propria attività, nel timore che l’uomo potesse raggiungerla nel suo studio». A sostegno di questa visione i Magistrati richiamano «il tenore delle frasi» rivolte alla donna – ad esempio, “ti faccio vedere io” – e «il riferimento alla famiglia della donna e alla città in cui ella viveva» evidente l’obiettivo di «intimidire» la destinataria delle telefonate e dei messaggi, che erano anche, in alcuni casi, corredati di «foto e video».

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 7 novembre 2018 – 2 gennaio 2019, numero 61 Presidente Palla – Relatore De Marzo Ritenuto in fatto e considerato in diritto 1. Con sentenza del 30/10/2017 la Corte d'appello di Milano ha confermato la decisione di primo grado, quanto alla affermazione di responsabilità di Sk. Ku., in relazione al reato di cui all'articolo 612-bis cod. penumero e, in riforma della medesima decisione, disapplicata la recidiva, ha ridotto la pena ad otto mesi di reclusione. 2. Nell'interesse dell'imputato è stato proposto ricorso per cassazione, affidato ai seguenti motivi. 2.1. Con il primo motivo si lamentano vizi motivazionali e violazione di legge, in relazione alla ritenuta sussistenza dell'elemento materiale del reato di atti persecutori. Rileva il ricorrente a che la condotta descritta dai giudici di merito si era limitata all'invio di dodici messaggi attraverso whatsapp e a due telefonate, ossia a comportamenti privi di qualunque idoneità lesiva b che la Corte d'appello non aveva fornito risposta alla censura relativa alla non rilevabilità di continue intrusioni fisiche nella vita privata della persona offesa alle quali aveva fatto riferimento il Tribunale. 2.2. Con il secondo motivo si lamentano vizi motivazionali e violazione di legge, per avere la Corte territoriale omesso di riqualificare i fatti in termini di semplici episodi di molestie o minacce, alla luce della limitata condotta posta in essere e della insussistenza dell'elemento psicologico nonché dello stesso evento di danno. 3. I due motivi di ricorso possono essere trattati congiuntamente, per la loro stretta connessione logica. Il ricorrente insiste nel sottolineare la breve durata della sua condotta, trascurando di confrontarsi col fatto che, a seguito della denuncia della querela del 24/05/2016 e delle successive integrazioni del 30/05 e del 31/05/2016, all'imputato è stata applicata, in data 06/06/2016, la misura degli arresti domiciliari. Ma soprattutto, al di là dell'arco temporale in cui la vicenda si è sviluppata, il ricorso non si confronta, se non in termini di assoluta genericità, con la specificità delle condotte attribuite al Ku. - in particolare dalla sentenza di primo grado, cui quella impugnata rinvia - nei confronti della professionista incaricata dal Pubblico Ministero, in altro procedimento, di effettuare una consulenza psicologica sulla figlia dell'imputato, i cui risultati non erano stati apprezzati da quest'ultimo. In particolare, vengono in questione, in primo luogo due telefonate una da parte dell'utenza dell'imputato, rimasta senza risposta, cui aveva fatto seguito la telefonata della persona offesa per capire chi fosse il suo interlocutore un'altra effettuata da parte di soggetto rimasto non identificato, ma, secondo quanto accertato in termini che il ricorso non contesta, certamente su ispirazione dello stesso Ku. il quale ha ammesso di essere stato presente durante la conversazione , nella quale il chiamante, oltre ad accusare la persona offesa di aver mal giudicato, nella relazione di consulenza tecnica, il Ku., aggiungeva che quest'ultimo conosceva la famiglia della dottoressa e la città nella quale viveva, insistendo per un incontro di persona. Vi sono poi i vari sms concentrati nel tempo, in particolare ben dodici dalle 15,38 alle 17,07, del 24/05/2016, con sei fotografie e tre video, mentre la dottoressa si trovava presso i carabinieri per formalizzare la querela. Sono queste le gravi intrusioni alle quali la sentenza di primo grado - ma non quella impugnata - aggiunge l'attributo di fisicità, per sottolinearne la penetrante invasione della sfera intima della persona offesa e non certo per attribuire al ricorrente condotte di carattere fisico. E l'intensità di sviluppo dell'azione criminosa rende del tutto ragionevole il giudizio di attendibilità espresso dai giudici di merito, quanto alle dichiarazioni della persona offesa, la quale ha riferito di avere provvisoriamente pernottato in altra abitazione, sospendendo la propria attività professionale, nel timore che Ku. potesse raggiungerla in studio. Ciò integra con sicurezza l'evento di danno richiesto dalla norma. Infine, va osservato che nel delitto di atti persecutori, l'elemento soggettivo è integrato dal dolo generico, che consiste nella volontà di porre in essere le condotte di minaccia e molestia nella consapevolezza della idoneità delle medesime alla produzione di uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice esso, avendo ad oggetto un reato abituale di evento, deve essere unitario, esprimendo un'intenzione criminosa che travalica i singoli atti che compongono la condotta tipica, anche se può realizzarsi in modo graduale, non essendo necessario che l'agente si rappresenti e voglia fin dal principio la realizzazione della serie degli episodi Sez. 5, numero 18999 del 19/02/2014, C, Rv. 260411 . Nella specie, il tenore delle frasi ti faccio vedere io e il riferimento alla famiglia e alla città nella quale la donna viveva come, in generale, l'intensità dei contatti non autorizzati e del tutto privi di giustificazione non potevano avere altro significato se non quello di intimidire il destinatario, nella piena consapevolezza degli effetti che tali espressioni erano idonee a provocare. Le superiori considerazioni, nell'illustrare i motivi della ritenuta configurazione del reato di cui all'articolo 612-bis cod. penumero rappresentano, in termini privi di equivocità, anche la ragione della mancata, auspicata riqualificazione dei fatti nei termini di mere minacce o molestie. 4. Alla pronuncia di inammissibilità consegue ex articolo 616 cod. proc. penumero , la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché al versamento, in favore della Cassa delle ammende, di una somma che, in ragione delle questioni dedotte, appare equo determinare in Euro 3.000,00. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende. In caso di diffusione del presente provvedimento, si omettano le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell'articolo 52 del D.Lgs. numero 196 del 2003.