Offese personali sul web: configurabile la diffamazione aggravata

L’offesa alla reputazione altrui propagata tramite web, essendo quest’ultimo uno strumento percepibile da un ampio pubblico di utenti, integra una delle ipotesi aggravate del reato di diffamazione.

Il contenuto di un articolo pubblicato su un sito web offendeva la reputazione di una giornalista così veniva rilevato dalla Corte d’Appello che, in parziale riforma dalla sentenza di primo grado, riteneva responsabile l’autore dell’articolo in questione. L’imputato ricorre dunque in Cassazione, la quale attraverso la sentenza n. 57020/18, depositata il 18 dicembre, precisa che il reato di diffamazione viene integrato anche attraverso l’utilizzo del web. La comunicazione sul web è potenzialmente diretta erga omnes. Attraverso un motivo del ricorso, il ricorrente lamenta che il fatto attribuitogli dovrebbe essere qualificato come ingiuria e non come diffamazione poiché il messaggio pubblicato sul sito web era rivolto alla giornalista e non unicamente alla generalità dei fruitori della rete. Sul punto la S.C., richiamando un precedente che sottolineava la differenza tra la comunicazione esperita tramite mail rispetto a quella realizzata attraverso il web, precisa che in quest’ultimo caso se invece della comunicazione diretta, l’agente immette il messaggio in rete, l’azione è, ovviamente, altrettanto idonea a ledere il bene giuridico dell’onore poiché tale messaggio è diretto ad una vasta cerchia di fruitori. Inoltre, in riferimento al reato di diffamazione, la stessa Corte precisa che esso si consuma anche se la comunicazione con più persone e/o la percezione da parte di costoro del messaggio non siano contemporanee alla trasmissione e contestuali tra di loro , ben potendo i destinatari trovarsi persino a grande distanza gli uni dagli altri, ovvero dall’agente . Di conseguenza, i Giudici ribadiscono che l’utilizzo di internet volto alla diffusione di comunicazioni diffamatorie, integra una delle ipotesi aggravate di cui all’art. 595 c.p. ovvero quella prevista dal comma 3 relativo alle offese recate con qualsiasi mezzo di pubblicità. Infatti, la particolare diffusità del mezzo usato per propagare il messaggio denigratorio rende l’agente meritevole di un più severo trattamento penale . Per tali ragioni, la S.C. dichiara inammissibile il ricorso.

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 15 ottobre – 18 dicembre 2018, n. 57020 Presidente Sabeone – Relatore De Marzo Ritenuto in fatto 1. Con sentenza del 11/12/2017 la Corte d’appello di Milano, in parziale riforma della decisione di primo grado, ha ritenuto D.C.G. colpevole dei due reati di diffamazione ascrittigli art. 81, 595, commi primo e terzo, cod. pen. , per avere offeso la reputazione di una giornalista RAI attraverso la pubblicazione, rispettivamente in data omissis e omissis sul sito web omissis di due articoli. 2. Nell’interesse del ricorrente è stato proposto ricorso per cassazione, affidato ai seguenti motivi. 2.1. Con il primo motivo si lamenta inosservanza o erronea applicazione della legge penale, ribadendo la tesi secondo la quale, per effetto dell’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, il reato di diffamazione sarebbe stato abrogato, dal momento a che la libertà di pensiero riconosciuta dall’art. 21 della Carta fondamentale soffre l’unico limite della contrarietà al buon costume, non ricorrente nella specie b che il diritto all’onore e alla reputazione non sono stati richiamati dalla Costituzione, ma da successive e sottordinate fonti internazionali. 2.2. Con un secondo motivo si lamenta inosservanza o erronea applicazione di norme giuridiche, rilevando che il fatto attribuito al ricorrente dovrebbe essere qualificato come ingiuria, tenuto conto che il messaggio pubblicato su un sito era rivolto anche alla giornalista. 2.3. Con un terzo motivo si lamenta inosservanza o erronea applicazione di norme giuridiche, rilevando che, dato per accertato, da parte del giudice di primo grado, l’errore dell’imputato, quanto all’estensione illimitata del diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero, la Corte territoriale avrebbe dovuto applicare l’art. 59 cod. pen., che attribuisce rilievo alle cause di esclusione della pena, quando l’agente ritenga per errore la loro sussistenza. 2.4. Con il quarto motivo si prospetta questione di legittimità costituzionale dell’art. 595, terzo comma, cod. pen., nella parte in cui assoggetta al medesimo trattamento sanzionatorio, per effetto dell’utilizzo del mezzo della stampa o di altro mezzo di pubblicità, condotte che i primi due commi dello stesso articolo distinguono a cagione della progressiva offensività. Considerato in diritto 1. Il primo motivo del ricorso è inammissibile per manifesta infondatezza, in quanto muove dalla premessa, contraddetta da tutta la giurisprudenza costituzionale, dell’assenza di tutela dell’onore e della reputazione all’interno della Carta fondamentale. Al contrario, sin da epoca risalente, la Corte costituzionale ha riconosciuto il carattere essenziale di tali valori, ad es., quando ha sottolineato che l’esimente, prevista dall’art. 51 cod. pen. esclude la punibilità in quanto il fatto imputato costituisca esercizio di un diritto, aggiungendo che non appar dubbio che tale sia il caso del giornalista che, nell’esplicazione del compito di informazione ad esso garantito dall’art. 21 Cost., divulghi col mezzo della stampa notizie, fatti o circostanze che siano ritenute lesive dell’onore o della reputazione altrui, sempreché la divulgazione rimanga contenuta nel rispetto dei limiti che circoscrivono l’esplicazione dell’attività informativa derivabili dalla tutela di altri interessi costituzionali protetti Corte cost. 14/07/1971, n. 175 . Solo qualche anno più tardi la medesima Corte ha puntualizzato che gli artt. 10 cod. civ., 96 e 97 della legge 22/04/1941, n. 633 non contrastano con le norme costituzionali ed anzi mirano a tutelare e a realizzare i fini dell’art. 2, affermati anche negli artt. 3, secondo comma, e 13, primo comma, Cost., che riconoscono e garantiscono i diritti inviolabili dell’uomo, fra i quali rientra quello del proprio decoro, del proprio onore, della propria rispettabilità, riservatezza, intimità e reputazione, sanciti espressamente negli artt. 8 e 10 della Convenzione Europea sui diritti dell’uomo Corte cost. 12/04/1973, n. 38 . La Costituzione italiana è rigida, infatti, nel senso che non può essere modificata se non col procedimento di revisione delineato dall’art. 138 Cost., e non nel senso che il suo significato sia, come pretenderebbe il ricorrente, irrigidito nelle sole indicazioni puntuali, trascurando il fondamentale valore personalistico che la informa e che ruota attorno ai fondamentali valori di libertà e dignità della persona v., ad es., già Corte cost. 18/12/1987, n. 561 . Questi ultimi trovano espressione nell’art. 2 Cost., che costituisce diritto positivo, nonostante il ricorrente si dichiari convinto del contrario. Ne discende che l’art. 595 cod. pen. non è stato tacitamente abrogato dall’entrata in vigore della Costituzione repubblicana e che manifestamente infondata sarebbe ogni questione di legittimità della fattispecie incriminatrice, prospettata sotto il profilo della inammissibilità della previsione di limiti alla libertà di manifestazione del pensiero che non siano quelli espressamente indicati dall’art. 21 Cost. o ricavabili in termini espliciti da altre norme costituzionali. 2. Inammissibile per manifesta infondatezza è il secondo motivo, giacché la condotta dell’agente non era affatto diretta nei confronti della destinataria, ma era rivolta alla generalità dei fruitori della rete. Già Sez. 5, n. 4741 del 17/11/2000, Pm in proc. ignoti, Rv. 217745, ebbe a nettamente distinguere la comunicazione via e-mail da quella attraverso internet, osservando che, in quest’ultimo caso, se invece della comunicazione diretta, l’agente immette il messaggio in rete, l’azione è, ovviamente, altrettanto idonea a ledere il bene giuridico dell’onore. Per quanto specificamente riguarda il reato di diffamazione, è infatti noto che esso si consuma anche se la comunicazione con più persone e/o la percezione da parte di costoro del messaggio non siano contemporanee alla trasmissione e contestuali tra di loro , ben potendo i destinatari trovarsi persino a grande distanza gli uni dagli altri, ovvero dall’agente. Ma, mentre, nel caso, di diffamazione commesso, ad esempio, a mezzo posta, telegramma o, appunto, e-mail, è necessario che l’agente compili e spedisca una serie di messaggi a più destinatari, nel caso in cui egli crei e utilizzi uno spazio web, la comunicazione deve intendersi effettuata potenzialmente erga omnes sia pure nel ristretto - ma non troppo - ambito di tutti coloro che abbiano gli strumenti, la capacità tecnica e, nel caso di siti a pagamento, la legittimazione, a connettersi . Partendo da tale - ovvia premessa, si giunge agevolmente alla conclusione che, anzi, l’utilizzo di internet integra una delle ipotesi aggravate di cui dell’art. 595 c.p. comma terzo offesa recata con qualsiasi altro mezzo di pubblicità . Anche in questo caso, infatti, con tutta evidenza, la particolare diffusività del mezzo usato per propagare il messaggio denigratorio rende l’agente meritevole di un più severo trattamento penale. Né la eventualità che tra i fruitori del messaggio vi sia anche la persona nei cui confronti vengono formulate le espressioni offensive può indurre a ritenere che, in realtà, venga, in tale maniera, integrato il delitto di ingiuria magari aggravata ai sensi del quarto comma dell’art. 594 c.p. , piuttosto che quello di diffamazione. Infatti il mezzo di trasmissione - comunicazione adoperato appunto internet , certamente consente, in astratto, anche al soggetto vilipeso di percepire direttamente l’offesa, ma il messaggio è diretto ad una cerchia talmente vasta di fruitori, che l’addebito lesivo si colloca in una dimensione ben più ampia di quella interpersonale tra offensore ed offeso. D’altronde, anche per altri media si verifica la medesima situazione. Un’offesa propagata dai giornali o dalla radio-televisione è sicuramente percepibile anche dal diretto interessato, ma la fattispecie criminosa che, in tal modo, si realizza è, pacificamente, quella ex art. 595 c.p. e non quella ex art. 594 . Tale conclusione non è mai stata posta in dubbio nella giurisprudenza di questa Corte e, infatti, v., sullo stesso presupposto, di recente, Sez. 5, n. 38099 del 29/05/2015, Cavalli, Rv. 264999 . 3. Inammissibile per manifesta infondatezza è anche il terzo motivo, giacché la disciplina dettata dal legislatore, con riguardo all’errore sulle scriminanti art. 59, comma quarto, cod. pen. , impone comunque di distinguere tra l’errore che cade sul fatto, ossia l’errore che investe l’effettiva esistenza di una situazione che, ove ricorrente, renderebbe applicabile la scriminante, e l’irrilevante ai sensi dell’art. 5 cod. pen. errore sul divieto, che ricorre quando l’agente o supponga l’esistenza di una scriminante non configurata dal legislatore o ritenga, come il ricorrente assume nel caso di specie, che una scriminante effettivamente prevista dall’ordinamento sia caratterizzata in termini più ampi di quelli normativamente delineati. In questi casi, infatti, l’errore incide sui limiti di applicabilità della norma incriminatrice ossia sul divieto ed, infatti, in questi termini si esprime la giurisprudenza di questa Corte v., ad es., il caso esaminato da Sez. 5, n. 38596 del 01/10/2008, Loyola, Rv. 241954, secondo la quale l’erronea supposizione circa l’esistenza di una causa di giustificazione non ha effetto scriminante se l’errore attiene all’esistenza o all’efficacia obbligatoria di una norma giuridica . 4. Manifestamente infondata è la questione di legittimità costituzionale prospettata col quarto motivo, dal momento che rientra nella discrezionalità del legislatore l’aver colto nell’utilizzo, per quanto qui rileva, di un mezzo di pubblicità, una connotazione di tale gravità dell’offesa alla reputazione, in ragione della sua diffusività, nello spazio e nel tempo, da rendere irrilevante il fatto che sia stato o non attribuito al soggetto un fatto determinato. 5. L’inammissibilità del ricorso preclude il rilievo della eventuale prescrizione maturata successivamente alla sentenza impugnata Sez. Un., n. 32 del 22/11/2000, De Luca, Rv. 217266 . 6. Alla pronuncia di inammissibilità consegue, ex art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché al versamento, in favore della Cassa delle ammende, di una somma che, in ragione delle questioni dedotte e della data di proposizione del ricorso, successiva all’introduzione dell’inciso finale del primo periodo del comma 1 del citato art. 616, appare equo determinare in Euro 3.000,00. Del pari, il ricorrente va condannato alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile nel giudizio di legittimità, che, in relazione all’attività svolta, vengono liquidate in complessivi Euro 2.200,00, oltre accessori di legge. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende nonché alla rifusione delle spese del presente procedimento in favore della parte civile, che liquida in complessivi Euro 2.200,00, oltre accessori di legge.