Convivente prima maltrattata e poi perseguitata: configurabile la doppia imputazione

È configurabile sia l’ipotesi di maltrattamenti in famiglia che quella di stalking ex art. 612-bis, comma 2, c.p. laddove le vessazioni inflitte durante la convivenza si protraggano anche dopo la cessazione del vincolo familiare ed affettivo.

Così ribadito dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 55737/18, depositata il 12 dicembre. I fatti. La Corte d’Appello confermava la sentenza del Tribunale di condanna dell’imputato per il reato di maltrattamenti nei confronti dei figli minori e della moglie e di atti persecutori riguardo quest’ultima. L’imputato ricorre in Cassazione. Dolo unitario. La S.C. in riferimento al motivo di ricorso relativo alla sussistenza dell’elemento soggettivo del reato di maltrattamenti, evidenzia che non è necessario che l’agente abbia perseguito particolari finalità né il proposito di infliggere alla vittima sofferenze fisiche o morali senza plausibile motivo, essendo sufficiente il dolo generico cioè la conoscenza e la volontà di sottoporre il soggetto passivo a tali sofferenze in modo continuo ed abituale . Secondo detto orientamento oramai prevalente, l’elemento unificatore di singoli episodi vessatori consiste, ed è rilevante, nell’inclinazione della volontà dell’agente a realizzare una condotta oppressiva e prevaricatrice , condotta che, seppur realizzata in modo discontinuo e interrotto, abbia determinato episodi di sofferenze fisiche o morali della vittima. Ipotesi aggravata . In secondo luogo, gli Ermellini ribadiscono che in tema di rapporti fra il reato di maltrattamenti e quello di atti persecutori, salvo l’ipotesi ex art. 612-bis , comma 1 c.p. è configurabile l’ipotesi aggravata del reato di atti persecutori in presenza di comportamenti che, sorti nell’ambito di una comunità familiare, ovvero determinati dalla sua esistenza e sviluppo, esulino dalla fattispecie dei maltrattamenti per la sopravvenuta cessazione del vincolo familiare ed affettivo o comunque della sua attualità temporale . Nel caso di specie, dalle emergenze processuali risultava che l’imputato oltre a infliggere atti costantemente vessatori durante la convivenza durata 13 anni, minacciava costantemente la vittima anche una volta cessato il vincolo affettivo. Per questi motivi, la S.C. rigetta il ricorso.

Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 9 ottobre – 12 dicembre 2018, n. 55737 Presidente Petruzzellis – Relatore Vigna Ritenuto in fatto 1. Con la sentenza impugnata, la Corte di appello di Napoli ha confermato la sentenza emessa l’11 maggio 2015 dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere che condannava B.P. , all’esito di giudizio abbreviato, alla pena di anni uno e mesi quattro di reclusione, con il beneficio della sospensione condizionale della pena, per il reato di maltrattamenti nei confronti della convivente more uxorio e dei figli minori e di atti persecutori nei confronti della prima. Fatti accertati nell’ omissis con condotta perdurante. Il compendio probatorio si fonda sulle querele della parte offesa che ha dichiarato di avere subito, unitamente alle figlie minori della coppia e al figlio minore della donna, nei 13 anni di convivenza, continua condotte di ingiuria, minacce e violenze per futili motivi, con innumerevoli episodi di violenza fisica anche nei confronti dei minori commessi con bastoni e altre armi improprie e con minacce gravi minacce di morte, anche con l’uso di un coltello o con armi improprie . Nella sentenza impugnata si da atto che le dichiarazioni della parte civile hanno trovato conferma in plurime dichiarazioni testimoniali di amici della coppia, della vicina di casa, dell’assistente sociale e del figlio D.M.M. . La convivenza cessava quando il omissis l’imputato puntava un cacciavite alla gola del minore D.M.M. , sostenendo che lo avrebbe ucciso. A quel punto l’imputato iniziava a recarsi presso la abitazione della donna, minacciandola, anche vantando presunte conoscenze all’interno del clan del , di picchiarla e di non farle più rivedere le bambine, costringendola in casa, richiedendo in più occasioni l’intervento dei carabinieri e provocandole uno stato continuo di ansia grave e di paura. 2. Avverso la sentenza ha presentato ricorso per cassazione l’imputato, a mezzo del difensore di fiducia, deducendo i seguenti motivi 2.1. Violazione di legge in relazione all’art. 161 cod. proc. pen. per omessa notifica del decreto di citazione a giudizio direttamente all’appellante, avendo provveduto la cancelleria alla notifica del decreto ai sensi dell’articolo 161 presso il procuratore dell’appellante in luogo dello stesso, in quanto l’ufficiale giudiziario nella circostanza del 26 luglio 2017 non avrebbe rinvenuto l’imputato in entrambe le sue abitazioni. B. non ha mai eletto domicilio per il procedimento in questione. La notifica è stata effettuata proprio nel lasso temporale in cui l’imputato non aveva un’abitazione ciò costituisce un evento fortuito o di forza maggiore. 2.2. Violazione di legge essendo errata la contestazione congiunta dei fatti di reato previsti dagli articoli 572 e 612 bis cod. pen. in luogo di un unico fatto illecito, in particolare di quello di cui all’articolo 612 bis cod. pen Non è stata provata l’abitualità della condotta del reato di maltrattamenti in famiglia e dell’elemento psicologico dello stesso. Al tempo stesso non è stato accertato che i fatti siano accaduti in costanza di convivenza. In ragione di ciò doveva ritenersi applicabile unicamente la fattispecie di cui all’articolo 612 bis cod. pen 2.3. Mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche nella massima estensione, tenuto conto della intervenuta conciliazione tra le parti dinanzi al Tribunale di Santa Maria Capua Vetere del 27/11/2015. Considerato in diritto 1. Il ricorso è inammissibile. 2. Il primo motivo è manifestamente infondato perché dalla consultazione degli atti del fascicolo, consentita essendo dedotta la violazione di legge processuale, si evince che, in realtà, al momento dell’arresto l’imputato ha eletto domicilio presso l’avv. Puorto, in OMISSIS , dove l’atto di citazione è stato notificato. La notifica è, quindi, corretta, posto che, è stata effettuata presso il domicilio eletto ai sensi dell’art. 161 cod. proc. pen 3. Il secondo motivo è manifestamente infondato. La Corte, dopo avere sunteggiato il compendio motivazionale svolto dal primo giudice a sostegno della condanna v. pagine 2 - 3 della sentenza impugnata , ha congruamente argomentato la conferma del giudizio di responsabilità, con solido ancoraggio alle emergenze processuali e con un ragionamento scevro da illogicità manifesta dando conto della credibilità del narrato delle persone offese e dei riscontri obbiettivi ad esso sia pure non necessari, v. Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, Bell’Arte ed altri, Rv. 253214 , con particolare riguardo alle dichiarazioni di amici della coppia, di vicini di casa e di una assistente sociale. 3.1. Ineccepibilmente motivata è anche la ritenuta sussistenza dell’elemento soggettivo del reato di maltrattamenti. Deve evidenziarsi che, sul punto, la giurisprudenza è costante nel ritenere non necessario che l’agente abbia perseguito particolari finalità né il proposito di infliggere alla vittima sofferenze fisiche o morali senza plausibile motivo, essendo invece sufficiente il dolo generico cioè la coscienza e volontà di sottoporre il soggetto passivo a tali sofferenze in modo continuo ed abituale Sez. 6, n. 1067 del 3 luglio 1990, Rv. 186275, Soru non è, quindi, richiesto un comportamento vessatorio continuo ed ininterrotto essendo l’elemento unificatore dei singoli episodi costituito da un dolo unitario, e pressoché programmatico, che abbraccia e fonde le diverse azioni esso consiste nell’inclinazione della volontà ad una condotta oppressiva e prevaricatrice che, nella reiterazione dei maltrattamenti, si va via via realizzando e confermando, in modo che il colpevole accetta di compiere le singole sopraffazioni con la consapevolezza di persistere in una attività illecita, posta in essere già altre volte Sez. 6, n. 468 del 06/11/1991 dep. 20/01/1992 Rv. 188931, Faranda esso è, perciò costituito da una condotta abituale che si estrinseca con più atti, delittuosi o no, che determinano sofferenze fisiche o morali, realizzati in momenti successivi ma collegati da un nesso di abitualità ed avvinti nel loro svolgimento dall’unica intenzione criminosa di ledere l’integrità fisica o il patrimonio morale del soggetto passivo, cioè, in sintesi, di infliggere abitualmente tali sofferenze. La Corte distrettuale ha fatto corretta applicazione di tale regula iuris evidenziando che la volontà dell’imputato risultava nel caso specifico manifesta essendosi la condotta protratta durante i 13 anni di convivenza della coppia. 3.2. In tema di rapporti fra il reato di maltrattamenti in famiglia e quello di atti persecutori art. 612-bis, cod. pen. , deve evidenziarsi che, salvo il rispetto della clausola di sussidiarietà prevista dall’art. 612-bis, comma primo, cod. pen. - che rende applicabile il più grave reato di maltrattamenti quando la condotta valga ad integrare gli elementi tipici della relativa fattispecie - è invece configurabile l’ipotesi aggravata del reato di atti persecutori prevista dall’art. 612-bis, comma secondo, cod. pen. in presenza di comportamenti che, sorti nell’ambito di una comunità familiare o a questa assimilata come nel caso di specie , ovvero determinati dalla sua esistenza e sviluppo, esulino dalla fattispecie dei maltrattamenti per la sopravvenuta cessazione del vincolo familiare ed affettivo o comunque della sua attualità temporale. Sez. 6, n. 30704 del 19/05/2016, Rv. 267942 . La Corte territoriale si è attenuta a tali principi evidenziando come, alla luce delle emergenze processuali, risultava acclarata la perpetrazione di atti vessatori in costanza della convivenza durata 13 anni ed anche successivamente, allorché l’imputato si recava presso la abitazione della ex compagna, minacciandola di picchiarla, di non farle vedere più le figlie e costringendola in casa. Correttamente, quindi, la sentenza impugnata ha ritenuto la sussistenza di entrambi i reati contestati. 4. Il terzo motivo di ricorso relativamente alla mancata concessione delle circostanze di cui all’art. 62 bis cod. pen. è inammissibile perché proposto per motivi non consentiti. La mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche è giustificata da motivazione esente da manifesta illogicità, che, pertanto, è insindacabile in cassazione Cass., Sez. 6, n. 42688 del 24/9/2008, Rv. 242419 , anche considerato il principio affermato da questa Corte secondo cui non è necessario che il giudice di merito, nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche, prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo disattesi o superati tutti gli altri da tale valutazione Sez. 2, n. 3609 del 18/1/2011, Sermone, Rv. 249163 Sez. 6, n. 34364 del 16/6/2010, Giovane, Rv. 248244 . In particolare, la Corte di appello ha ritenuti ostativi alla concessione delle circostanze attenuanti generiche la personalità violenta dell’imputato unitamente al fatto che la condotta vessatoria si è protratta per tredici anni. 5. Alla inammissibilità del ricorso consegue la condanna al pagamento delle spese processuali. In ragione delle statuizioni della sentenza della Corte costituzionale del 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che si ravvisano ragioni di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, deve, altresì, disporsi che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di Euro 2.000,00 in favore della cassa delle ammende. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila in favore della cassa delle ammende.