L’ingiusto profitto con altrui danno nel reato di estorsione

In tema di estorsione avente natura patrimoniale, l’elemento dell’ingiusto profitto con altrui danno è implicito nel fatto stesso che il contraente-vittima sia costretto al rapporto negoziale con l’agente, impedendogli di perseguire i propri interessi economici nel modo ritenuto più opportuno.

Così la Corte di Cassazione con sentenza n. 53767/18, depositata il 30 novembre. La vicenda. Gli imputati ricorrono per cassazione avverso la sentenza della Corte d’Appello che li condannava per i reati loro ascritti denunciando innanzitutto la leggerezza con cui la Corte territoriale ha affrontato il tema della credibilità della testimone ed inoltre l’erronea applicazione dell’art. 629 c.p., vista l’inesistenza del profitto ingiusto, nonché erronea applicazione dell’art. 393 c.p. nel cui ambito doveva essere ricondotto il comportamento degli imputati stessi. La decisione della Suprema Corte. Per quanto riguarda il primo motivo di ricorso, esso appare inammissibile dato che la Corte distrettuale ha indicato in modo specifico le ragioni per cui riteneva credibile la persona offesa, rapportando le sue dichiarazioni con ulteriori documenti di prova. Anche il secondo motivo di ricorso risulta inammissibile posto che la Corte territoriale ha giustamente escluso l’applicabilità del disposto di cui all’art. 393 c.p. vista la mancanza del presupposto dell’esistenza di un diritto da parte degli imputati da poter far valere. Pertanto, nel caso in esame, ci si trova difronte ad un’ipotesi di estorsione, ex art. 629 c.p., di natura patrimoniale che si realizza quando si impone al soggetto passivo di porsi in un rapporto negoziale con l’agente, nel quale l’elemento dell’ingiusto profitto con altrui danno è implicito nel fatto stesso che la vittima sia costretta al rapporto, in violazione della propria autonomia negoziale, impedendogli così di perseguire i propri interessi economici.

Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 8 giugno – 30 novembre 2018, n. 53767 Presidente Davigo – Relatore Crescienzo Ritenuto in fatto T.R. e T.G. , tramite il difensore ricorrono per cassazione avverso la sentenza 1 dicembre 2016 con la quale la corte d’appello di Potenza li ha condannati alla pena di anni tre e mesi quattro di reclusione ed Euro 600 di multa per la violazione degli articoli 110, 81, 582, 629, 628 codice penale. La difesa chiede l’annullamento della decisione impugnata deducendo i seguenti motivi così riassunti entro i limiti previsti dall’art. 173 disp. att. cod. proc. pen 1 ex art. 606 lett. b ed e cod. proc. pen. violazione degli artt. 192 e 533 cod. proc. pen. nonché vizio di mancanza e genericità della motivazione. La difesa si duole che la Corte d’Appello avrebbe affrontato il tema della credibilità del testimone L. , in termini riduttivi, avendo affermato che la parte offesa costituitosi parte civile non avrebbe avuto alcun interesse ad imbastire una falsa accusa a carico degli imputati. La Corte territoriale inoltre non avrebbe correttamente apprezzato le contraddizioni in cui è incorso il testimone TURSI che all’epoca dei fatti era in preda ad un momento di forte depressione per un grave lutto in famiglia. La decisione non rispetterebbe il principio per il quale la condanna può essere pronunciata solo nel caso in cui la responsabilità si ponga oltre ogni ragionevole dubbio . 2 Ex art. 606 comma 1 lett. b cod. proc. pen. erronea applicazione dell’art. 629 cod. pen., attesa l’inesistenza del profitto ingiusto, nonché erronea applicazione dell’art. 393 cod. pen. nel cui ambito doveva essere considerata la condotta degli imputati. La Corte d’Appello non avrebbe tenuto nella dovuta considerazione il tenore del testo della quietanza sottoscritta dalla persona offesa e le modalità della sua redazione. Ad avviso della difesa lo scritto non poteva essere considerata una quietanza di pagamento. Lo scritto ex se non può neppure essere considerato profitto rilevante ex art. 629 cod. pen., perché l’azione non ha avuto incidenza in via immediata e diretta sul patrimonio della persona offesa determinandone una diminuzione. Ritenuto in diritto Il primo motivo di ricorso è inammissibile, perché, sostanziandosi nella denuncia di un vizio della motivazione, non rispetta i limiti posti dagli articoli 581 lett. c e 606 comma 1 lett. e cod. proc. pen. Va in particolare osservato che la Corte territoriale ha indicato in modo specifico le ragioni per le quali ha ritenuto credibile la persona offesa, evidenziando la convergenza del suo dichiarato con ulteriori elementi di prova anche di natura documentale. Il richiamo alla violazione dell’art. 533 cod. proc. per violazione del principio dell’ oltre ragionevole dubbio introdotto ne l’art. 533 cod. proc. pen. dalla legge n. 46 del 2006, non ha mutato la natura del sindacato della Corte di cassazione sulla motivazione della sentenza, che non può essere utilizzato per valorizzare e rendere decisiva la duplicità di ricostruzioni alternative del medesimo fatto, eventualmente emerse in sede di merito e segnalate dalla difesa, una volta che tale duplicità sia stata oggetto di attenta disamina da parte del giudice dell’appello infatti la Corte di legittimità è chiamata esclusivamente ad un controllo sulla persistenza o meno di una motivazione effettiva per mezzo di una valutazione unitaria e globale dei singoli atti e dei motivi di ricorso su di essi imperniati, non potendo la sua valutazione sconfinare nel merito Cass. sez. 2 n. 29480 del 7.2.2017, rv 270519 . Il secondo motivo di ricorso è inammissibile. La Corte territoriale ha escluso l’applicabilità dell’art. 393 cod. pen., stante l’assenza del presupposto dell’esistenza di un diritto da poter far valere da parte degli imputati. Le modalità del fatto integrano comunque il delitto di cui all’art. 629 cod. pen., ancorché la vittima sia stata costretta a firmare una quietanta per un pagamento mai ricevuto. Si versa nella specie in un’estorsione di tipo patrimoniale che si realizza quando al soggetto passivo sia imposto di porsi in rapporto negoziale di natura patrimoniale con l’agente o con altri soggetti in tal caso l’elemento dell’ingiusto profitto con altrui danno è implicito nel fatto stesso che il contraente-vittima sia costretto al rapporto, consistente anche in un negozio giuridico unilaterale come il rilascio di una quietanza di pagamento in violazione della propria autonomia negoziale, impedendogli di perseguire i propri interessi economici nel modo e nelle forme ritenute più confacenti ed opportune. Per le suddette ragioni i ricorsi sono inammissibili e i ricorrenti vanno condannati al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000 ciascuno alla Cassa delle Ammende, così equitativamente determinata la sanzione amministrativa prevista dall’art. 616 cod. proc. pen., ravvisandosi nella condotta dei ricorrenti gli estremi della responsabilità ivi stabilita. P.Q.M. Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 ciascuno a favore della Cassa delle ammende.