Cocaina sottratta in Commissariato: scatta la condanna per peculato

Fatale a un poliziotto il racconto fatto all’amante. Passaggio successivo è il processo, che lo porta a una condanna a tre anni e otto mesi di reclusione. A inchiodarlo non solo le parole dell’amante ma anche i risultati delle indagini effettuate dalla Polizia Scientifica.

Ha sottratto un grosso quantitativo di cocaina dall’‘Ufficio Reperti’ del suo Commissariato. E ha poi raccontato l’impresa alla propria amante. Quest’ultima rivelazione è stata fatale per il poliziotto – inquadrato come ‘Assistente Capo’ – perché ha dato il via a un processo conclusosi con la sua condanna a tre anni e otto mesi di reclusione per peculato Corte di Cassazione, sentenza numero 53936/18, depositata oggi . Sottrazione. Valutazione concorde dei Giudici, prima in Tribunale e poi in Corte d’Appello, a fronte del quadro probatorio a disposizione l’imputato – ‘Assistente Capo’ della Polizia di Stato – è colpevole del reato di «peculato», avendo «sottratto all’‘Ufficio Reperti’ del Commissariato il quantitativo complessivo di 226 grammi di cocaina, di cui aveva la disponibilità in ragione del proprio incarico di responsabile di tale ufficio». Per il poliziotto – punito con «tre anni e otto mesi di reclusione» – rimane solo un’ultima possibilità il ricorso in Cassazione. E nel contesto del Palazzaccio il suo difensore prova a ridimensionarne la condotta, spiegando che ci si trova di fronte a un reato meno grave, cioè «violazione colposa di doveri inerenti alla custodia di cose sottoposte a sequestro». Allo stesso tempo, il legale spiega che «il procedimento disciplinare» a carico del suo cliente «si è concluso con la mera contestazione di grave negligenza di servizio», e sostiene manchino prove sul fatto che «l’ammanco di cocaina» sia a lui attribuibile con certezza, anche tenendo presente «un contesto di generalizzato disordine organizzativo» in Commissariato. A questo proposito, il legale osserva che «chiunque poteva entrare nella stanza blindata servendosi della chiave incustodita, aprire l’armadio e sottrarre la cocaina». E il racconto fatto all’amante? Secondo il legale, sono catalogabili come «millanteria» le parole del suo cliente, quando quest’ultimo afferma di «avere la possibilità di sostituire con bicarbonato la sostanza stupefacente in sua custodia». Peculato. Ogni obiezione si rivela però inutile. Anche la Cassazione, difatti, ritiene colpevole il poliziotto, e ne confermano quindi la condanna per «peculato». Inequivocabile pure per i Giudici del Palazzaccio il «quadro probatorio» a disposizione. Nessun dubbio, in sostanza, sulla responsabilità per «gli ammanchi di droga dal Commissariato». E su questo fronte è decisivo il richiamo alle indagini realizzate dalla Polizia Scientifica, indagini che avevano permesso di accertare che «da una scatola custodita all’interno di un armadio – di cui solo l’‘Assistente Capo’ «deteneva la chiave» – «mancavano 199 grammi di cocaina» e «da un’altra scatola ulteriori 25 grammi di cocaina». Logico, inoltre, parlare di «peculato», poiché, concludono i Giudici, «il poliziotto si è appropriato di un bene di valore economico di cui aveva la materiale disponibilità in ragione del proprio ufficio». E per quanto concerne il capitolo relativo al «dolo», è decisivo il richiamo alla «alterazione della copia del quaderno di carico» operata dal poliziotto «al fine di occultare la propria condotta appropriativa».

Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 3 ottobre – 30 novembre 2018, numero 53936 Presidente Villoni – Relatore Vigna Ritenuto in fatto 1. Con la sentenza impugnata, la Corte di appello di Brescia, in parziale riforma della sentenza emessa dal Tribunale di Brescia il 23 marzo 2016 nei confronti di Tr. Vi., escluso il vincolo della continuazione, ha rideterminato la pena in anni tre mesi otto di reclusione confermando nel resto. Tr. è stato condannato per il delitto di peculato avendo, nella sua qualità di assistente capo della Polizia di Stato, sottratto dall'ufficio reperti del commissariato di P.S. Carmine di Brescia il quantitativo complessivo di grammi 226,48 di cocaina, di cui aveva la disponibilità in ragione del proprio incarico di responsabile di tale ufficio. Il compendio probatorio è costituito dalle dichiarazioni rese da Mo. Ba., con la quale l'imputato aveva una relazione extraconiugale, che ha riferito di avere rinvenuto della cocaina nella giacca di Tr. il quale le aveva poi confessato di esserne assuntore e di essersela procurata anche sottraendola dall'ufficio reperti del Commissariato ove lavorava, sostituendola con del bicarbonato. Le dichiarazioni della teste - ritenuta pienamente attendibile - hanno trovato riscontro secondo i giudici di merito nelle dichiarazioni dei colleghi del Tr. e negli accertamenti svolti dalla Polizia Scientifica. 2. Avverso la sentenza ricorre per cassazione Tr., a mezzo del difensore di fiducia, che deduce seguenti motivi 2.1. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all'articolo 314 cod. penumero in relazione alla mancata derubricazione nel reato di cui all'articolo 335 cod. penumero . La sentenza impugnata motiva la sussistenza dell'elemento soggettivo del reato avendo riguardo ad una produzione documentale effettuata personalmente dall'imputato nell'ambito di un procedimento disciplinare conclusosi con la mera contestazione di grave negligenza di servizio. Nel caso in esame vi è la prova di un ammanco di cocaina ma non vi è alcuna evidenza che ad appropriarsene sia stato l'imputato in un contesto di generalizzato disordine organizzativo. Chiunque poteva entrare nella stanza blindata servendosi della chiave incustodita, aprire l'armadio e sottrarre la cocaina. La Mo. ha riferito solo di un sospetto uso saltuario di cocaina da parte di Tr. e la millanteria di quest'ultimo di avere la possibilità di sostituire con bicarbonato la sostanza stupefacente in sua custodia. Be. Cr., dal cui esposto ha avuto origine l'indagine, è testimone de relato. Nessun testimone qualificato ha affermato di avere visto l'imputato portare con sé la chiave dell'armadietto metallico nel quale erano ricoverate le scatole contenenti le bustine dei sequestri. Non è emersa in dibattimento la prova che l'imputato avesse l'esclusiva disponibilità della chiavetta dell'armadio e l'imputato ha chiaramente indicato dove la chiavetta veniva lasciata. Vi è difformità fra le copie dei registri di trasmissione dei reperti formati presso la Questura di Brescia nel luglio 2011. La coppia fornita dal Pubblico ministero non è conforme a quella allegata dall'imputato quanto a firme e timbri posta in calce a ogni pagina. Ciò lascia intendere che le due copie prodotte in dibattimento siano state tratte da due originali distinti. 2.2. La Corte d'appello di Brescia non ha motivato in ordine alla mancata concessione delle attenuanti generiche. Considerato in diritto 1. Il ricorso è inammissibile perché fondato su motivi generici. 2. I motivi ripropongono, infatti, acriticamente le medesime ragioni già discusse e ritenute infondate dai giudici del gravame, dovendosi gli stessi considerare non specifici, ed anzi, meramente apparenti, in quanto non assolvono la funzione tipica di critica puntuale avverso la sentenza oggetto di ricorso. Una ulteriore causa di inammissibilità deve individuarsi nella esposizione di censure che si risolvono in una mera rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata, sulla base di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, senza individuare vizi di logicità tali da evidenziare la sussistenza di ragionevoli dubbi, ricostruzione e valutazione, quindi, in quanto tali precluse in sede di giudizio di cassazione Sez. 1, numero 42369 del 16/11/2006, De Vita, Rv. 235507 . Da ultimo, va rammentato che la sentenza impugnata indica con adeguatezza e logicità le circostanze e le emergenze processuali che sono state determinanti per la formazione del convincimento del giudice, consentendo così l'individuazione dell'/ter logico-giuridico seguito per addivenire alla statuizione adottata e, pertanto, non è censurabile in sede di legittimità. 3. Nel condividere il significato complessivo del quadro probatorio posto in risalto nella sentenza del Giudice di primo grado, la cui struttura motivazionale viene a saldarsi perfettamente con quella di secondo grado, si da costituire un corpo argomentativo uniforme e privo di lacune, la Corte di merito ha esaminato e puntualmente disatteso le diverse impostazioni ricostruttive prospettate dai ricorrenti, non solo ponendone in rilievo, attraverso il richiamo ai passaggi argomentativi già esaustivamente delineati nella prima decisione, l'assoluta genericità e la totale assenza di riscontri, ma altresì osservando, con dirimenti argomentazioni, la assoluta attendibilità della teste Mo. la quale ha riferito quello che l'imputato le aveva confidato solo perché era stata avviata un'indagine a seguito dell'esposto di una amica che aveva raccolto le sue confidenze. I giudici di secondo grado si sono poi puntualmente soffermati sugli ammanchi di droga dal Commissariato ove lavorava l'imputato e, con motivazione strettamente aderente alla realtà processuale, hanno ritenuto gli stessi riconducibili alla condotta di Tr. evidenziando che dalle indagini della Polizia Scientifica era emerso che da una scatola custodita all'interno dell'armadio, del quale il solo imputato deteneva la chiave, mancavano 199 grammi di cocaina e da un'altra ulteriori 25 grammi della medesima sostanza. Altrettanto incensurabile è la motivazione svolta dai giudici di merito allorché sottolineano come grazie alle indagini della polizia scientifica sia stato possibile appurare con certezza che l'imputato aveva consegnato, unitamente alla relazione sullo stato dei reperti richiestagli dal suo Comandante, la copia del quaderno di carico ricevuta dal collega della Questura di Brescia nel 2011, in occasione del trasferimento della droga sequestrata dalla Questura al Commissariato del Carmine, dalla quale aveva artatamente eliminato la voce relativa alfe reperto numero 54 costituito, appunto, dai 199 grammi di cocaina sottratta. La Corte di appello di Brescia ha, quindi, correttamente ritenuto integrato il reato di cui all'articolo 314 cod. penumero la vicenda, come ricostruita in narrativa e corredata da precisi riferimenti probatori, si appalesa infatti correttamente sussunta nella fattispecie incriminatrice, sia sotto il profilo dell'elemento oggettivo - posto che l'imputato si è appropriato di un bene dotato di valore economico del quale aveva la materiale disponibilità in ragione del proprio ufficio - sia sotto il profilo del dolo, la cui sussistenza ed intensità emerge pacificamente dalla alterazione della copia del quaderno di carico operata dall'imputato al fine di occultare la propria condotta appropriativa. Il che esclude la derubricazione del fatto nella meno grave ipotesi di cui all'arto 335 cod. penumero che attiene alla sola colposa violazione dei doveri di custodia di cose sottoposte a sequestro. 4. Quanto al tema della motivazione del diniego delle circostanze attenuanti, va ricordato che dette circostanze attenuanti atipiche rappresentano uno strumento di individualizzazione della risposta sanzionatoria li dove sussistano - in positivo - elementi del fatto o della personalità, tali da rendere necessaria la mitigazione, ma non previsti espressamente da altra disposizione di legge. Non può dunque ritenersi fattore di attenuazione il mero dato della incensuratezza, come ribadito dal legislatore ex plurimis, Sez. 1, numero 46568 del 18/05/2017 . Corretta ed esaustiva è pertanto la motivazione espressa - sul tema - dai giudici di merito, posta l'assenza di fattori positivi cui ancorare il riconoscimento di una eventuale attenuazione e la sussistenza. Nel caso in esame, peraltro, la Corte territoriale, a fronte della mancata indicazione di elementi positivi, ha correttamente individuato la valenza ostativa alla invocata concessione nella gravità della condotta posta in essere dall'imputato e nell'alto livello di infedeltà dimostrato alla Pubblica Amministrazione di appartenenza. 5. Alla inammissibilità del ricorso consegue la condanna al pagamento delle spese processuali. In ragione delle statuizioni della sentenza della Corte costituzionale del 13 giugno 2000, numero 186, e considerato che si ravvisano ragioni di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, deve, altresì, disporsi che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di Euro 2.000,00 in favore della cassa delle ammende. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila in favore della cassa delle ammende. Manda alla cancelleria per le comunicazioni di cui all'articolo 154 ter disp. att. cod. proc. penumero .