Ingiustizie. Un tema sempre all’indice, rispetto al quale il processo celebra ripetutamente il proprio fallimento. Spesso lo si avverte già secondo la logica comune a volte, però, emergono profili tecnici che sfuggono alla collettività ma non devono sfuggire agli addetti ai lavori.
Il giudice fa cose con parole. Noi scriviamo sulla carta lui, lui incide sulla roccia. A volte le sentenze ricompongono il conflitto, altre no. Il giudice, in fin dei conti, è solo un giudice. Quando l’ingiustizia di un provvedimento è intollerabile si pone l’accento prima di tutto su chi ha firmato quel provvedimento, su chi ci ha messo la faccia. I fatti sono inesorabili, ma cosa c’è prima del processo e cosa dopo, in verità, fa parte della storia degli uomini, sulla quale i tribunali aprono solo piccoli spiragli. Così, può accadere che il processo non celebri la giustizia che quest’ultima venga compressa, talvolta negata, talaltra infranta. Il diritto, dunque, si confronta con il bisogno di pacificazione ideale e sociale senza poterlo facilmente soddisfare. Firma a parte, è sempre il giudice a dover rispondere degli insuccessi? Domanda retorica di senso negativo, le richieste vengono portate in aula secondo una logica manichea ciascuno estremizza la propria, spesso dilatando il diritto di difesa Machiavelli docet, ogni strumento è ben accetto. Le violazioni delle regole fanno parte delle regole nella gestione delle prerogative difensive, ad esempio, può accadere di superare la misura così, nel processo civile, gli articolo 88, 89 e 96 c.p.c. non da soli presidiano il confine. Sul tema si intrecciano prospettive estremamente interessanti, di alto profilo la misura oltre misura porta al presidio penalistico. Frode processuale, truffa, falso per induzione queste categorie individuano la contaminazione del diritto vivente che diventa inaccettabile. Un dato empirico genera facilmente l’equivoco. A fronte dell’inganno, del mendacio o della delazione, cosa può dirsi di più, e soprattutto cosa può farsi per definire argini e sanzioni a derive inaccettabili? Il giudice decide iuxta alligata et probata partium dalle parti recepisce quanto porrà a fondamento del provvedimento. Dalle parti potrà ricevere e accogliere indicazioni buone o cattive che siano , oppure potrà essere manipolato è qui la svolta. Dalla buona dialettica tra parti e giudice il processo viene potenziato è questa la precondizione di una buona sentenza. Allo stesso modo, una buona connessione tre giudice e parti può generare il peggio. Una sentenza scellerata che celebri un turpe connubio tra giudice e parte renderà il giudice complice di una grave ingiustizia. Si legga il fenomeno secondo una categoria complessa quanto “democratica” la verità. Il quadro fenomenico scrutinato nel processo quasi mai è vero spesso le parti offrono al giudice versioni della realtà più o meno appetibili, la curia sceglie la c.d. verità processuale. Ne discende uno scarto tra la realtà e il contenuto di verità del provvedimento giurisdizionale obiettivamente foriero di ingiustizia una buona difesa e un contesto probatorio favorevole erigono un muro invalicabile anche dal giudice più scrupoloso. Il “caso Ruby” dice tutto una non nipote che diventa nipote in una finzione, e tanto basta. Vicende di questo tipo incutono profonda insicurezza nella collettività. Talvolta, però, il giudice emanerà lo stesso provvedimento iniquo sulla base di una serie causale del tutto dissimile egli sarà strumento di ingiustizia, sotto la regia della parte o del pubblico ministero l’eventualità spazia da forme di orientamento eccessivamente pressanti a forme di inganno. In questo caso la logica si capovolge il giudice non partecipa all’ingiustizia se non materialmente, diventando strumento di chi impugna la spada. Un paradigma positivo per inquadrare queste dinamiche è nell’articolo 48 c.p., che conferisce rilevanza al caso in cui un illecito sia perpetrato da qualcuno che si avvale di qualcun altro come strumento di commissione del reato. Giudice complice diventa giudice vittima. Sempre il timone è in mano al giudice, e il giudice saggio, condizioni permettendo, riesce a individuare forme di bilanciamento, immuni a suggestioni di parte talvolta giunge persino a soddisfare, in qualche misura, tutti i contendenti. Ne devono discendere implicazioni legate alla comprensibilità dei provvedimenti giurisdizionali l’alternativa è un vissuto di ingiustizia nella collettività. La giustificazione delle scelte del giudice è un’esigenza superiore è di tale giustificazione che si ha bisogno. Per fortuna, l’uomo di diritto deve credere e confidare nel giudice saggio, vivendo l’ostinata missione di renderlo complice di giustizia e di testimonianza viva di cooperazione nell’interesse comune.