“Ti faccio vedere io…”: impossibile parlare di minaccia

Scontro tra due donne una si rivolge con rabbia verso l’altra e pronuncia la frase “Ti faccio vedere io”. Quelle parole non sono sufficienti però per una condanna, perché, secondo i Giudici, sono prive di qualsiasi valenza minatoria.

Scontro verbale e fisico tra due donne. Volano parole grosse, e anche una velata minaccia “Ti faccio vedere io”, dice l’una all’altra. Ma quella frase non basta per arrivare a una condanna Cassazione, sentenza numero 53228/18, sez. V Penale, depositata oggi . Parole. Centrali nell’episodio posto all’attenzione dei Giudici sono soprattutto alcune parole che hanno caratterizzato lo scontro tra le due donne. Per il GdP, la frase incriminata – cioè “Ti faccio vedere io” – è catalogabile come minaccia in piena regola, e quindi sufficiente per una condanna. Di parere opposto, invece, i Giudici della Cassazione, che applicano un’ottica più moderna e ritengono che le parole su cui si poggia l’ipotetica accusa di «minaccia» sono in realtà «prive di qualsiasi valenza minatoria, neanche larvata». Tirando le somme, per i Magistrati del Palazzaccio la frase “Ti faccio vedere io” è «una espressione generica, non evocativa di un male ingiusto per la destinataria», e molto meno grave di quella indicata in origine nel capo d’imputazione, ossia “Stai attenta a dove vai e cosa fai”.

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 25 ottobre – 27 novembre 2018, numero 53228 Presidente Palla – Relatore Borrelli Ritenuto in fatto 1. Il 6 luglio 2017, Il Giudice di pace di Udine ha condannato Of. Ca. Dr. per i reati di minaccia e percosse ai danni di Fr. Fr., assolvendola, perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato, dal reato di ingiuria contro la medesima parte lesa. 2. Contro l'anzidetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione il difensore dell'imputata, articolando tre motivi di ricorso. 2.1. Con il primo si lamenta una nullità ex articolo 178, comma 1, lett. c , cod. proc. penumero perché non era stata acquisita una relazione di servizio dei Carabinieri di Udine da cui si sarebbe potuto evincere che vi erano rapporti di inimicizia tra l'imputata e due dei testimoni dell'accusa. Un'altra censura concerne la mancata ammissione, in luogo di un teste di lista ammesso ma poi deceduto, di un altro soggetto che svolgeva la stessa funzione di direttore di un centro sociale e lavorativo, dal momento che questi doveva essere escusso solo per fornire l'identità dei giardinieri presenti al fatto. 2.2. Con una successiva doglianza, la ricorrente contesta il giudizio di sussistenza della minaccia perché la persona offesa era un soggetto che non si faceva intimorire da lei e perché i testi escussi non avevano confermato il contenuto della frase incriminata . 2.3. A seguire la ricorrente lamenta violazione di legge quanto alla condanna per il reato di cui all'articolo 581 cod. penumero , irrogata senza che nessuno dei testimoni della pubblica accusa avesse assistito al litigio fin dall'inizio, mente la teste della difesa Ce. aveva negato aggressioni dall'una e dall'altra parte. Sarebbe stato quanto mai necessario, pertanto, assumere le dichiarazioni dei due giardinieri presenti al fatto. Considerato in diritto 1. Il ricorso è parzialmente fondato. 2. Il primo motivo di ricorso - laddove la parte si duole della mancata acquisizione di una relazione di servizio e della mancata ammissione di un teste - è inammissibile. In particolare, va osservato che il riferimento all'articolo 237 cod. proc. penumero per quanto concerne la relazione di servizio dei Carabinieri è errato, perché l'atto de quo non può ritenersi un documento proveniente dall'imputato. La doglianza, pertanto, è in parte qua manifestamente infondata. L'impostazione della ricorrente è, poi, manifestamente infondata dal momento che, dietro una questione di nullità che è formulata senza riferirsi ad una norma specifica che la preveda, mira a contestare l'esercizio discrezionale della prerogativa del Giudice di ammettere le prove richieste dalle parti. La questione di nullità, infine, è stata proposta intempestivamente solo dinanzi a questa Corte mentre essa, integrando al più una nullità relativa, era soggetta al regime di cui agli articolo 181 e 182, comma 2, cod. proc. penumero , sicché la parte pregiudicata, presente all'atto, era tenuta, a pena di decadenza, ad eccepire la nullità prima del suo compimento o al massimo immediatamente dopo, e così pure ad opporsi alla dichiarazione di chiusura dell'istruttoria dibattimentale, in caso contrario dovendosi ritenere tale nullità sanata Sez. 5, numero 39764 del 29/05/2017, Rhafor, Rv. 271849, relativa ad una caso in cui il giudicante non si era neanche espresso sulla richiesta di ammissione di prova da parte della difesa . 3. Il terzo motivo di ricorso - quello concernente la violazione di legge circa il reato di cui all'articolo 581 cod. penumero - invoca una rivalutazione delle risultanze processuali, vieppiù senza operare un reale confronto con la motivazione avversata, della quale, peraltro, non denunzia vizi rilevanti ex articolo 606, comma 1, lett. e , cod. proc. penumero Il ricorso sul punto, in definitiva, è teso a richiedere una nuova ponderazione delle risultanze processuali che è fuori dall'ambito decisionale di questa Corte, che non può rivalutare i fatti storici accertati nel corso dei gradi di merito e valutati con congrua motivazione, né può verificare l'adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali Sez. U, numero 6402 del 30/04/1997, Dessimone e altri, Rv. 207944 . A ciò va aggiunto che la parte ricorrente omette di confrontarsi con la motivazione, sia pur sintetica, della sentenza avversata, che ha indicato i dati probatori sulla base dei quali ha ritenuto dimostrato l'assunto accusatorio contravvenendo a quanto di recente ribadito da Sez. U, numero 8825 del 27/10/2016, dep. 2017, Galtelli, Rv. 268823, secondo cui i motivi di ricorso per cassazione sono inammissibili non solo quando risultano intrinsecamente indeterminati, ma altresì quando difettino della necessaria correlazione con le ragioni poste a fondamento del provvedimento impugnato . 4. E' fondato, invece, il secondo motivo di ricorso, quello che denunzia violazione di legge in ordine alla condanna per minaccia, dal momento che il Giudice di pace ha ritenuto dimostrata non già quella indicata nel capo di imputazione «Stai attenta a dove vai e cosa fai» , ma la diversa espressione «Ti faccio vedere io». Ebbene, si tratta di un enunciato oggettivamente privo di qualsiasi valenza minatoria univoca e neanche larvata, trattandosi di un'espressione generica non evocativa di un male ingiusto per la destinataria. Sul punto, la sentenza va pertanto annullata senza rinvio perché il fatto non sussiste. 5. All'annullamento della sentenza impugnata per il reato di minaccia consegue la rimodulazione del trattamento sanzionatorio in Euro 600,00 di multa, eliminando dalla pena stabilita dal Giudice di pace, l'aumento di 50 Euro di multa individuato ex articolo 81, comma 2, cod. penumero P.Q.M. annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto di cui all'articolo 612 cod. penumero non sussiste e ridetermina la pena per il reato di cui all'articolo 581 cod.penumero , con le già concesse circostanze attenuanti generiche, in Euro 600,00 di multa.