Continuazione del reato e mancato riconoscimento della sospensione condizionale della pena

Se sussistono più condotte delittuose, legate dal nesso della continuazione, di cui alcune integrate prima del compimento dei settant’anni, non trova applicazione il beneficio di cui all’art. 163, comma 3, c.p. sospensione condizionale della pena tutti i fatti devono essere stati realizzati dopo il raggiungimento del limite di età prescritto per legge.

E’ quanto affermato dalla Corte di cassazione, con la sentenza 49700/2018, depositata il 30 ottobre. Il caso. La Corte d’Appello competente, confermando la statuizione del giudice di prime cure, condannava un imputato per il reato di violenza sessuale aggravata e reiterata. Il condannato, tramite legale di fiducia, ricorreva per cassazione, lamentando – tra gli altri motivi – violazione di legge e carenza motivazionale, in relazione all’applicazione dell’art. 81 c.p. reato continuato e al riconoscimento, in virtù dell’età dell’imputato più di 70 anni , della sospensione condizionale della pena. In particolare, l’impugnante rilevava come la violazione più grave addebitabile all’imputato avvenuta quando lo stesso era ormai ultrasettantenne fosse stata indicata soltanto indirettamente, con conseguente mancata concessione del beneficio di cui sopra. L’esame strumentale a tale riconoscimento, infatti, doveva avere ad oggetto il reato base, considerato più grave, e, quindi, quello commesso dopo i settanta anni. Sospensione condizionale della pena. La Suprema Corte ha ritenuto inammissibili tutti i motivi di ricorso. Gli Ermellini hanno preliminarmente tacciato di genericità tutte le doglianze, concentrandosi su quella concernente la continuazione e il mancato riconoscimento della sospensione condizionale della pena. A tal proposito, il Collegio ha inizialmente riportato le motivazioni fornite dalla Corte d’Appello in merito alla determinazione della pena ha, poi, segnalato come i Giudici avessero ritenuto piuttosto contenuto l’aumento della pena, per la continuazione, soprattutto considerata la reiterazione delle condotte abusanti da parte del ricorrente. I giudici avevano, peraltro, motivato anche il relazione alla concessione del beneficio, ritenendo che la stessa non fosse possibile a causa dell’entità della pena e del fatto che l’imputato aveva integrato la maggior parte delle condotte prima del compimento dei settant’anni di età. Gli Ermellini hanno, quindi, ricordato il pacifico orientamento giurisprudenziale per cui, al fine dell’applicazione della sospensione condizionale della pena, ex art. 163, comma 3, c.p., la pena inflitta non deve eccedere i due anni e sei mesi. L’autore dell’illecito, inoltre, deve aver compiuto settant’anni al momento della commissione del reato. Il fatto che la condotta più grave sia stata integrata dopo tale compimento, non assume alcun rilievo, dal momento che non è possibile operare una distinzione tra i reati unificati dal vincolo della continuazione. I Giudici del Palazzaccio hanno confermato che la misura massima della pena, di cui all’art. 163 c.p., deve essere determinata con riguardo all’entità complessiva della pena risultante dalla sentenza di condanna e non in relazione alla pena applicata per ciascun reato le pene concorrenti devono ritenersi una sola pena e non si può scorporare il reato più grave. Il criterio cui il legislatore attribuisce rilevanza, insomma, è quello cronologico. Se sussistono più condotte delittuose, legate dal nesso della continuazione, di cui alcune commesse prima del compimento dei settant’anni, non trova applicazione il beneficio di cui all’art. 163, comma 3, c.p., poiché tutti i fatti devono essere stati realizzati dopo il raggiungimento del limite di età prescritto per legge. Per le ragioni sopra esposte, la Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 5 luglio – 30 ottobre 2018, n. 49700 Presidente Savani – Relatore Scarcella Ritenuto in fatto 1. Con sentenza 23.05.2017, la Corte d’appello di Brescia confermava la sentenza GUP/tribunale di Brescia 28.10.2016, appellata dal B. , che lo aveva condannato alla pena di 2 anni ed 8 mesi di reclusione, applicata la diminuente di rito, con il concorso di attenuanti generiche prevalenti sull’aggravante contestata, in quanto ritenuto colpevole del reato di violenza sessuale reiterata ed aggravata, posto in essere ai danni della propria nipote, contestato come commesso secondo le modalità esecutive e spazio - temporali meglio descritte nel capo di imputazione, in relazione a fatti consumati tra il 2006 ed il 2014. 2. Contro la sentenza ha proposto ricorso per cassazione il difensore di fiducia del ricorrente, iscritto all’Albo speciale ex art. 613, cod. proc. pen., prospettando cinque motivi, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen 2.1. Deduce, con il primo motivo, violazione di legge in relazione agli artt. 609 bis e 609 bis, u. co. c.p Si sostiene che il primo giudice aveva osservato che le condotte del reo, benché reiterate, fossero consistite in abusi non violenti, e, quanto al più grave episodio, quello della rincorsa nel ripostiglio non si potesse parlare di atti connotati da violenza di particolare spessore pur non avendo la difesa contestato la reiterazione, si sostiene che era stata contestata la relativa modesta incidenza delle stesse in termini di danno psicologico derivato alla minore sul punto, la difesa aveva chiesto l’assunzione della psicologa al fine di riferire sul danno provocato, prova che avrebbe potuto ritenersi decisiva ex art. 606, lett. d , c.p.p. ai fini della qualificazione giuridica dei fatti come di minore gravità. 2.2. Deduce, con il secondo motivo, violazione di legge, sub specie del divieto di ne bis in idem sanzionatorio penale, attesa la duplica valutazione ex artt. 609 bis e 133, c.p., ai fini della gravità dei fatti e del quantum di pena irrogato. Si sostiene che la sentenza sarebbe incorsa nella violazione del principio del ne bis in idem sanzionatorio operando una doppia valutazione negativa di gravità e sulla qualificazione giudica, negando l’attenuante, e sul quantum di pena irrogato, comunque superiore al minimo edittale la Corte avrebbe dovuto riconoscere la minore gravità del fatto, muovendo da una pena inferiore ai 5 anni ed applicare l’aumento in continuazione in misura più contenuta, rispondente alla gravità dei fatti i giudici, sul punto, non avrebbero acquisito la relazione redatta dal c.r Liberatore, in cui si dava conto del sincero pentimento del ricorrente e della disponibilità ad effettuare un percorso terapeutico sulla sua persona, rivolgendosi ad un esperto clinico. 2.3. Deduce, con il terzo motivo, violazione di legge in relazione all’applicazione dell’art. 81, c.p., non essendo stata indicata la violazione più grave ed il tempo di tale commesso reato e degli altri avvinti in continuazione, in considerazione dell’età ultra settantenne del reo, ai fini del riconoscimento del beneficio di cui all’art. 163, co. 3, c.p. all’epoca dei fatti, con applicazione del favor rei. I giudici avrebbero solo indirettamente indicato quale fosse la violazione più grave addebitabile al reo in quella dell’episodio dell’armadio, avvenuta quando la minore aveva 4/5 anni, dunque quando ormai l’imputato aveva compiuto 70 anni ciò avrebbe pregiudicato il riconoscimento del beneficio della sospensione condizionale della pena ex art. 163, co. 3, c.p., in quanto la valutazione andava condotta con riferimento al reato base, ritenuto più grave, commesso quando l’uomo aveva più di 70 anni, con conseguente erroneità della motivazione sul punto. 2.4. Deduce, con il quarto motivo, vizio di motivazione in relazione agli artt. 133 e 163, co. 3, c.p. circa la pena individuata e il mancato riconoscimento del beneficio della sospensione condizionale. In ogni caso, richiamato quanto esposto nel terzo motivo, sarebbe comunque censurabile la motivazione con cui è stato negato il beneficio di cui all’art. 163, co. 3, c.p., non avendo motivato né sul favor rei, né sulla circostanza di aver commesso il fatto più grave quando aveva più di 70 anni, senza nemmeno prendere in esame la relazione Liberatore. 2.5. Deduce, con il quinto motivo, vizio di mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine a tutte le doglianze di cui ai precedenti motivi. Si sostiene poi il deficit motivazionale della sentenza, in ordine a tutti i motivi di censure dedotti nei primi 4 motivi, sia quanto alla qualificazione giuridica dei fatti per non essere stato presa in esame l’incidenza del motivo attinente il danno psichico presente sulla p.o., anche eventualmente assumendo la dottoressa M. , psicologa si chiede a questa Corte di valutare se detta audizione fosse stata opportuna, valutando la superficialità ed apoditticità dell’affermazione della Corte d’appello laddove ne ha rilevato la superfluità dell’esame, affermando che il trauma fosse gravissimo ed indelebile. Considerato in diritto 3. Il ricorso è inammissibile. 4. Tutti i motivi di ricorso sono inammissibili, prestando anzitutto il fianco al giudizio di genericità per aspecificità, non tenendo conto delle ragioni esposte dal giudice di appello a confutazione delle identiche doglianze esposte nei motivi di appello. Deve quindi essere fatta applicazione del principio, già affermato da questa Corte, secondo cui è inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi non specifici, ossia generici ed indeterminati, che ripropongono le stesse ragioni già esaminate e ritenute infondate dal giudice del gravame o che risultano carenti della necessaria correlazione tra le argomentazioni riportate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione Sez. 4, n. 18826 del 09/02/2012 - dep. 16/05/2012, Pezzo, Rv. 253849 . 5. I motivi si appalesano, peraltro, manifestamente infondati. 6. Ed invero, quanto al primo ed al quinto motivo, da trattarsi congiuntamente, con cui si deduce violazione di legge e vizio motivazionale in relazione agli artt. 609 bis e 609 bis, u. co. c.p., la Corte d’appello esclude che i fatti possano essere considerati di minore gravità, ciò in quanto, almeno in un caso, la condotta di abuso sessuale sulla nipote minorenne venne esercitata con vera e propria violenza fisica nei confronti della stessa. Si tratta del richiamato episodio della rincorsa nel ripostiglio che, diversamente da quanto sostenuto dalla difesa de ricorrente, la nipote ricordava come l’episodio di maggior dolore in quanto, nonostante il suo pianto, il nonno aveva proseguito a fare quello che voleva. A ciò si aggiunge come la stessa p.o., si legge in sentenza, aveva ben descritti il timore e il terrore che il nonno le incuteva, sicché, tenuto conto che si tratta di abusi del nonno sulla nipotina in tenerissima età, è evidente per la Corte territoriale che si tratta di atti compiuti con imposizione dell’uomo sulla minore, oltre che con le minacce ed il divieto di raccontare tali cose a qualcuno, perché altrimenti la mamma l’avrebbe sgridata dicendole che poi lei e la mamma sarebbero finite in carcere. Ancora, i giudici di appello si fanno carico di confutare l’affermazione del ricorrente secondo cui il danno psichico alla vittima sarebbe stato modesto, richiamando l’irrilevanza delle argomentazioni difensive circa la asserita normalità della vita familiare e relazionale che la bambina avrebbe ripreso dopo i fatti e circa la necessità di ascoltare la psicologa che avrebbe in cura la minore. I giudici, sul punto, escludono la necessità di ulteriori accertamenti, rilevando come il danno subito fosse gravissimo ed indelebile, ritenendo a tal fine sufficienti le espressioni utilizzate dalla minore nel tema svolto in classe in cui la stessa sentì il bisogno di esternare all’insegnante gli abusi subiti, già narrati alla sorella maggiore ed alla madre in precedenza. La minore, infatti, descrisse gli abusi nel dettaglio, a distanza di anni sentendoli come un profondissimo disagio protrattosi per tutta la sua infanzia. A ciò si aggiunge in sentenza come la circostanza che la vita familiare e relazionale si fosse normalizzata dopo i fatti, e che la minore fosse in cura da una psicologa proprio per superare il trauma subito, non sarebbero idonei a cancellare il ricordo, il quale è destinato a restare tale sia per i fatti in sé che per il dolore causato alla bambina, amplificato enormemente dal loro reiterarsi un arco temporale assai lungo, dal primo anno di asilo della bambina, quando aveva 3 - 4 anni, sino alle scuole elementari, quando la stessa aveva 11 anni, nonché in considerazione del fatto che gli abusi vennero posti in essere dal nonno materno, approfittando dei costanti rapporti di vicinanza e frequentazione familiare con la famigli della bambina. In ogni caso, concludono i giudici di appello, la normalità della vita relazionale e familiare come sostenuto dal ricorrente, a seguito della cessazione degli abusi, non è idonea ad escludere il turbamento anche a distanza di anni, e le inevitabili ripercussioni anche in futuro nel corretto e sano sviluppo della personalità della bambina anche sulla sfera della sessualità. 7. Orbene, al cospetto di tale apparato argomentativo, le doglianze difensive esposte nei predetti motivi, oltre che generiche per aspecificità per le ragioni dianzi evidenziate, si appalesano manifestamente infondate, in quanto sotto l’apparente censura di inesistenti vizi di violazione di legge o di presunti vizi motivazionali, in realtà il ricorrente svolge argomenti che finiscono per risolversi nell’evidente manifestazione di dissenso di quest’ultimo sulla ricostruzione dei fatti e, soprattutto, sulla valutazione delle prove operata dalla Corte d’appello, operazione vietata in questa sede. 8. Deve, sul punto, essere ricordato che gli accertamenti giudizio ricostruttivo dei fatti e gli apprezzamenti giudizio valutativo dei fatti cui il giudice del merito sia pervenuto attraverso l’esame delle prove, sorretto da adeguata motivazione esente da errori logici e giuridici, sono sottratti al sindacato di legittimità e non possono essere investiti dalla censura di difetto o contraddittorietà della motivazione solo perché contrari agli assunti del ricorrente ne consegue che tra le do-glianze proponibili quali mezzi di ricorso, ai sensi dell’art. 606 cod. proc. pen., non rientrano quelle relative alla valutazione delle prove, specie se implicanti la soluzione di contrasti testimoniali, la scelta tra divergenti versioni ed interpretazioni, l’indagine sull’attendibilità dei testimoni e sulle risultanze peritali, salvo il controllo estrinseco della congruità e logicità della motivazione v., tra le tante Sez. 4, n. 87 del 27/09/1989 - dep. 11/01/1990, Bianchesi, Rv. 182961 . Il controllo di legittimità sulla motivazione è, infatti, diretto ad accertare se a base della pronuncia del giudice di merito esista un concreto apprezzamento del materiale probatorio e/o indiziario e se la motivazione non sia puramente assertiva o palesemente affetta da vizi logici. Restano escluse da tale controllo sia l’interpretazione e la consistenza degli indizi e delle prove sia le eventuali incongruenze logiche che non siano manifeste, ossia macroscopiche, eclatanti, assolutamente incompatibili con altri passaggi argomentativi risultanti dal testo del provvedimento impugnato ne consegue che non possono trovare ingresso in sede di legittimità i motivi di ricorso fondati su una diversa prospettazione dei fatti né su altre spiegazioni, per quanto plausibili o logicamente sostenibili, formulate dal ricorrente Sez. 6, n. 1762 del 15/05/1998 - dep. 01/06/1998, Albano L, Rv. 210923 . 9. Resta solo da precisare che la necessità di esame della psicologa, in realtà difetti del requisito della decisività, come del resto correttamente chiarito dalla sentenza impugnata che fonda il proprio giudizio di non necessità dell’esame sulla base di ulteriori elementi che lo rendevano superfluo. 10. Quanto, poi, al diniego dell’ipotesi attenuata, la sentenza appare in linea con la giurisprudenza di questa Corte secondo cui in tema di violenza sessuale, ai fini del riconoscimento della diminuente per i casi di minore gravità di cui all’art. 609-bis, ultimo comma, cod. pen., deve farsi riferimento ad una valutazione globale del fatto, nella quale assumono rilievo i mezzi, le modalità esecutive, il grado di coartazione esercitato sulla vittima, le condizioni fisiche e psicologiche di quest’ultima, anche in relazione all’età, mentre ai fini del diniego della stessa attenuante è sufficiente la presenza anche di un solo elemento di conclamata gravità Fattispecie, sostanzialmente sovrapponibile a quella qui esaminata, nella quale questa Corte ha escluso che la reiterazione degli abusi nel tempo, in quanto approfondisce il tipo di illecito e compromette maggiormente l’interesse giuridico tutelato dalla norma incriminatrice, possa essere compatibile con la minore gravità del fatto Sez. 3, n. 6784 del 18/11/2015 - dep. 22/02/2016, P.G. in proc. D, Rv. 266272 . 11. Ad analogo approdo deve pervenirsi quanto alla doglianza sviluppa con il secondo ed il quinto motivo, da trattarsi congiuntamente, con cui si censura una presunta violazione di legge ed un vizio motivazionale, sub specie del divieto di ne bis in idem sanzionatorio penale, attesa la duplice valutazione ex artt. 609 bis e 133, c.p., ai fini della gravità dei fatti e del quantum di pena irrogato. Nessuna violazione è invero rilevabile nel caso in esame, in quanto è pacifico che ai fini della determinazione della pena, il giudice può tenere conto di uno stesso elemento nella specie la gravità della condotta che abbia attitudine a influire su diversi aspetti della valutazione, ben potendo un dato polivalente essere utilizzato più volte sotto differenti profili per distinti fini senza che ciò comporti lesione del principio del ne bis in idem v., tra le tante Sez. 2, n. 24995 del 14/05/2015 - dep. 16/06/2015, P.G., Rechichi e altri, Rv. 264378 . 12. Analogamente è a dirsi quanto al terzo, al quarto ed al quinto motivo, da trattarsi congiuntamente attesa l’intima connessione tra gli stessi esistente, con cui è stata dedotta un’asserita violazione di legge ed un vizio motivazionale in relazione all’applicazione dell’art. 81, c.p., non essendo stata indicata la violazione più grave ed il tempo di tale commesso reato e degli altri avvinti in continuazione, in considerazione dell’età ultra settantenne del reo, ai fini del riconoscimento del beneficio di cui all’art. 163, co. 3, c.p. all’epoca dei fatti, con applicazione del favor rei. Sul punto, i giudici non solo puntualizzano che la pena base è stata determinata in misura di poco scostata rispetto al minimo edittale, ma ritengono anche estremamente contenuto l’aumento per la continuazione, considerata la reiterazione degli abusi per tutta l’infanzia della p.o., aggiungendo che l’entità della pena non consentiva il riconoscimento del beneficio, nemmeno quello speciale di cui al comma terzo dell’art. 163, c.p., per gli ultrasettantenni, ciò in base al rilievo per cui l’imputato aveva commesso la gran parte delle condotte quando non aveva ancora compiuto i settanta anni, interpretando la norma nel senso che la stessa si riferisce solo ai fatti commessi da chi ha compiuto gli anni settanta. 13. Orbene, sul punto deve qui ricordarsi che è pacifico in giurisprudenza che ai fini dell’applicazione della sospensione condizionale della pena ai sensi dell’art. 163, comma terzo, cod. proc. pen., è necessario che la pena inflitta non superi i due anni e sei mesi, e che l’autore del reato abbia compiuto gli anni settanta al momento della commissione del fatto, e non a quello della celebrazione del processo da ultimo Sez. 6, n. 14755 del 13/02/2013 - dep. 28/03/2013, Locci e altri, Rv. 256143 . Non rileva, peraltro, la circostanza che il fatto più grave sia stato commesso quando l’imputato aveva già compiuto i settanta anni, non essendo possibile procedere allo scorporo, a fini del riconoscimento del beneficio, dei reati unificati sotto il vincolo della continuazione, atteso che se è vero che la misura massima della pena cui fa riferimento l’art. 163 cod. pen. deve essere stabilita, nel caso di concorso di reati, con riguardo alla entità complessiva della pena risultante dalla sentenza di condanna e non in relazione alla pena applicata per ciascun reato, dovendo le pene concorrenti essere considerate come pena unica per ogni effetto giuridico, salvo che la legge disponga altrimenti v., sul punto Sez. 1, n. 39217 del 12/02/2014 - dep. 24/09/2014, Sforza, Rv. 260502 , ne discende, tuttavia, come conseguenza, che non può operarsi ai fini dell’applicazione dell’art. 163, co. 3, c.p. alcuna differenziazione fondata sul reato individuato come più grave, dovendosi invece tener conto del criterio cronologico di commissione del fatto cui il legislatore riconnette valenza esclusiva ai fini del riconoscimento del beneficio agli ultrasettantenni. Deve, quindi, essere affermato il seguente principio di diritto In presenza di più episodi criminosi, avvinti dal vincolo della continuazione, ove alcuni di essi siano stati commessi in epoca in cui l’imputato non aveva ancora compiuto i 70 anni, non può trovare applicazione il disposto dell’art. 163, co. 3, c.p. che presuppone che tutti i fatti siano stati commessi da chi ha compiuto gli anni settanta, richiedendo dunque che tutti i fatti, e non solo alcuni di essi, siano stati commessi dopo il raggiungimento della predetta età anagrafica . A conferma di quanto sopra, del resto, questa Corte ha chiarito che in tema di concessione della sospensione condizionale della pena, ai fini di una seconda applicazione del beneficio, il giudice, nel calcolo cumulativo della pena ai sensi dell’art. 164, comma quarto, cod. pen., può tenere conto dei più ampi limiti previsti per ragioni di età dall’art. 163, commi secondo e terzo, cod. pen., solo quando sia il primo che il secondo reato siano stati commessi dall’imputato quando aveva un’ età rientrante nei limiti predetti Sez. 1, n. 42822 del 06/07/2016 - dep. 10/10/2016, M, Rv. 267803 . 14. Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché, in mancanza di elementi atti ad escludere la colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al versamento della somma, ritenuta adeguata, di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle ammende. 15. Segue ex lege l’oscuramento dei dati attesa la tipologia di reato contestato. P.Q.M. La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di duemila Euro in favore della Cassa delle ammende. Dispone, a norma dell’art. 52 del D. Lgs. 30 giugno 2003 n. 196, che - a tutela dei diritti o della dignità degli interessati - sia apposta a cura della cancelleria, sull’originale della sentenza, un’annotazione volta a precludere, in caso di riproduzione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalità di informazione giuridica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, l’indicazione delle generalità e di altri dati identificativi degli interessati riportati sulla sentenza.