Falsità ideologica del privato nell’atto pubblico: il confine tra la tenuità e l’insussistenza del fatto

Le dichiarazioni rilasciate da un privato su un modulo precompilato di difficile comprensione non integrano il delitto di falsa sottoscrizione e trascrizione del verbale ex art. 483 c.p

Principio enunciato a seguito della trattazione di una controversia proposta all’attenzione dai Giudici di legittimità Corte di Cassazione, sentenza n. 48604/18, depositata il 24 ottobre . La falsa dichiarazione. Un soggetto è stato citato in giudizio per aver sottoscritto una falsa dichiarazione all’interno di un atto di notorietà in particolare, nella parte in cui veniva chiesto al dichiarante stesso se era gravato da condanne o patteggiamenti passati, l’imputato aveva risposto negativamente dichiarando il falso dato che registrava a suo carico una datata condanna per lesioni colpose ex art. 444 c.p.p Tuttavia a seguito del rito abbreviato, il Tribunale aveva prosciolto l’imputato dal reato ex art. 438 Sottoscrizione e trascrizione del verbale c.p., per aver rilevato la tenuità del fatto nella condotta criminosa ai sensi dell’art. 131- bis c.p La difesa dell’accusato, non accontentandosi del proscioglimento dal reato rilevato, appella la sentenza eccependo due diversi motivi preliminarmente l’incostituzionalità dell’art. 443, comma 1 Limiti all’appello c.p.p. riferito agli artt. 3 e 24 Cost. e nel merito eccependo l’insussistenza del reato così censurando il proscioglimento precedentemente deciso. Riguardo la prima deduzione la Corte d’appello ritiene manifestatamente infondata la questione di illegittimità sottesa riguardo la seconda doglianza l’organo giudicante ha riqualificato il gravame come ricorso in Cassazione ex art. 568, comma 5 c.p.p Legittimità costituzionale. Circa la questione di illegittimità costituzionale eccepita dall’appellante, la Suprema Corte conclude in concordo con la Corte d’appello non sussistente alcuna questione di illegittimità, infatti una decisione assunta tramite il rito abbreviato, preclusivo quindi della possibilità di appellare il provvedimento, non contrasta con norme costituzionalmente garantite dato l’intervenuta accettazione dell’imputato di adottare il rito abbreviato, consapevole quindi dei limiti da esso prospettati. Insussistenza del reato. La seconda doglianza presentata dalla difesa è stata un argomento chiave per le sorti dell’imputato. Gli Ermellini, nel caso di specie, hanno rilevato che il giudizio di prime cure aveva errato nel prosciogliere l’accusato per via della ritenuta tenuità del fatto realizzato e che diversamente si doveva confluire in un esito - positivo” - differente. Orbene, la linea difensiva sottolineava come in realtà il dichiarante non avesse l’intenzione di dichiarare il falso ma l’erronea iscrizione, relativa alla presenza di precedenti penali, era dovuta ad un’articolata e non chiara struttura del modulo, condizione che ha portato una incomprensione della domanda posta al dichiarante. La Suprema Corte ha altresì condiviso suddetta arringa difensiva, precisando il principio secondo il quale quando un soggetto sottoscrive dichiarazioni all’interno di un atto di notorietà di difficile comprensione non può ritenersi esistente l’elemento soggettivo sulla base di un dovere di accertamento del privato dato che in tal caso, in ragione della tortuosità comprensiva del documento, non è rilevabile alcun omissione colposa del dichiarante suscettibile di integrare il delitto ex art. 483 c.p La Corte di Cassazione annulla la sentenza senza rinvio ritenendo che il fatto in esame non costituisce reato.

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 24 settembre – 24 ottobre 2018, n. 48604 Presidente Sabeone – Relatore Borrelli Ritenuto in fatto 1. Con sentenza dell’8 luglio 2015, il Tribunale in composizione monocratica di Potenza, giudicando con rito abbreviato, ha prosciolto A.L. dal reato di cui all’art. 483 cod. pen. perché non punibile per particolare tenuità del fatto, previa delibazione sulla sussistenza del falso e sul coefficiente soggettivo si trattava del falso in una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà presentata per attestare il possesso dei requisiti morali degli ufficiali dell’Esercito in congedo, rispetto al quale all’imputato è addebitato di aver dichiarato falsamente di non aver riportato condanne o patteggiamenti, mentre egli registrava a suo carico una sentenza ex art. 444 cod. proc. pen. per lesioni colpose. 2. La sentenza è stata appellata dal difensore dell’imputato che ha formulato tre doglianze. 2.1. In primo luogo, il ricorrente ha eccepito l’illegittimità costituzionale dell’art. 443, comma 1, cod. proc. pen. con riferimento agli artt. 3 e 24 Cost. nella parte in cui non consente all’imputato prosciolto in abbreviato, per particolare tenuità del fatto, di appellare la sentenza, benché tale formula di proscioglimento non escluda che il Giudice valuti la sussistenza del fatto-reato, la sua riferibilità all’imputato e l’assenza di cause di giustificazione e nonostante l’assoluzione ex art. 131-bis cod. pen. venga annotata nel casellario giudiziale. 2.2. In secondo luogo il ricorrente ha lamentato la falsa applicazione dell’art. 483 cod. pen. perché mancava l’elemento soggettivo doloso. La dichiarazione incriminata era stata determinata dall’infelice formulazione del modulo, dove il compilatore doveva attestare di non avere riportato condanne penali/patteggiamenti e di non aver procedimenti penali pendenti per delitti non colposi , sicché l’imputato aveva ritenuto di dover segnalare, oltre che la pendenza di procedimenti penali, anche di aver riportato condanne o patteggiamenti per soli delitti non colposi e pertanto aveva omesso di segnalare il patteggiamento per lesioni colpose che si registrava a suo carico. Vi era stato, quindi, come affermato dal ricorrente nel suo esame, niente altro che un errore di interpretazione dell’infelice formulazione grammaticale della proposizione presente nel modulo prestampato, ma non la volontà di attestare il falso l’assenza di dolo era altresì dimostrata dal fatto che la dichiarazione era funzionale solo ad ottenere il titolo onorifico di capitano medico , che non aveva alcun risvolto economico, morale, etico o professionale, nonché dalla circostanza che la sentenza taciuta non era ostativa al riconoscimento del titolo. 2.3. Un altro motivo di appello lamenta la contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in punto di elemento soggettivo, dal momento che il Giudice monocratico non aveva spiegato perché l’imputato fosse animato da volontà mistificatoria e perché, al contrario, non avesse solo errato nel comprendere il significato della proposizione. 3. La Corte di appello di Potenza ha ritenuto manifestamente infondata l’eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 443, comma 1, cod. proc. pen. di cui al primo motivo di appello ed ha poi qualificato l’impugnazione come ricorso per cassazione, disponendo, ai sensi dell’art. 568, comma 5, cod. proc. pen., la trasmissione degli atti a questa Corte. Considerato in diritto 1. Il ricorso è fondato e la sentenza va pertanto annullata senza rinvio perché il fatto non costituisce reato. 2. Prima di dare conto delle ragioni dell’annullamento, appare doveroso pronunziarsi sull’eccezione di illegittimità costituzionale formulata dal ricorrente nel primo dei motivi sottoposti al vaglio della Corte potentina. Ebbene, il Collegio condivide le conclusioni cui è pervenuta la Corte di appello circa l’eterogeneità della situazione odierna rispetto a quella oggetto della sentenza della Corte costituzionale n. 274 del 2009 evocata nell’impugnazione e concorda, altresì, con l’incedere logico del Giudice di appello che proprio dalla sentenza suddetta ha ricavato la chiave di lettura per fugare il dubbio di costituzionalità che pone il ricorrente. Con tale pronunzia, la Consulta sancì l’illegittimità costituzionale, per contrasto con gli artt. 3 e 24, secondo comma, Cost., dell’art. 443, comma 1, cod. proc. pen., come modificato dalla legge 20 febbraio 2006, n. 46, nella parte in cui escludeva che l’imputato potesse proporre appello contro le sentenze di assoluzione per difetto di imputabilità, derivante da vizio totale di mente, emesse all’esito di giudizio abbreviato. I punti di partenza da cui muovere nella valutazione del dubbio di costituzionalità del ricorrente sono gli stessi evidenziati dal Giudice delle leggi nella pronunzia citata, secondo cui il doppio grado di merito non è costituzionalmente garantito se non correlato al diritto di difesa, che gli conferisce una più accentuata forza di resistenza di fronte a sollecitazioni di segno inverso, legate alla realizzazione di obiettivi di speditezza processuale e le limitazioni alle prerogative difensive del giudizio abbreviato ivi compresa quella alla facoltà di proporre appello sono frutto di una scelta libera e consapevole dell’imputato, bilanciano lo sconto di pena di cui questi gode e sono connaturate ad un modulo procedimentale che persegue esigenze di razionalizzazione dei tempi del processo. Ebbene, proprio seguendo gli snodi del ragionamento della Consulta, deve opinarsi che la limitazione all’appello nel giudizio abbreviato ai sensi dell’art. 443, comma 1, cod. proc. pen. anche in caso di proscioglimento per particolare tenuità del fatto non presenta profili di irragionevolezza che consentano - come intenderebbe fare il ricorrente - di sovrapporre la situazione del prosciolto a tale titolo con quella dell’imputato assolto per difetto di imputabilità a cagione di vizio totale di mente. Le due situazioni si differenziano per non pochi, rilevanti aspetti, che ne segnano la differenza rispetto ad altrettanti indici che la Consulta, per il proscioglimento da incapacità totale di intendere e di volere, ha reputato sintomatici di un’irragionevole disparità di trattamento nel confronto con i casi di perdurante appellabilità e produttivi di un’insostenibile frizione della norma codicistica con il principio della parità di trattamento e con l’inviolabilità del diritto di difesa. Nella specie, occorre, in primo luogo, rimarcare che il proscioglimento per infermità di mente può essere relativo a qualsiasi reato, anche particolarmente grave, mentre la delimitazione sanzionatoria di cui all’art. 131-bis, comma 1, cod. pen. circoscrive la causa di esclusione della punibilità solo a reati puniti con pena pecuniaria o con pena detentiva non superiore a cinque anni. In secondo luogo, il proscioglimento ex art. 131-bis cod. pen. sottende la particolare tenuità dell’offesa e la non abitualità del comportamento, caratteri che connotano positivamente la condotta dell’imputato, contrariamente a quanto accade laddove il proscioglimento sia legato all’incapacità di intendere e di volere al momento del fatto, che - come ritenuto dalla Consulta - può avere conseguenze anche di ordine morale particolarmente intense. Un terzo ma decisivo aspetto nell’economia del ragionamento è costituito dal fatto che, nel proscioglimento ex art. 131-bis cod. pen., manca il carattere afflittivo che connota le possibili conseguenze della pronunzia di proscioglimento ai sensi dell’art. 88 cod. pen., legato all’eventuale applicazione, in presenza di un giudizio di pericolosità sociale - e riguardando il quadro normativo coevo alla pronunzia della Consulta - di misure di sicurezza prive di un termine massimo di durata, la più grave delle quali era da eseguirsi negli ospedali psichiatrici giudiziari e caratterizzata, pertanto, da natura detentiva. Tirando le fila del discorso, può quindi affermarsi che difettano, nella situazione del prosciolto per particolare tenuità del fatto a seguito di rito abbreviato, quelle peculiarità che avevano teso la ragionevolezza del sacrificio dell’imputato rispetto alla facoltà di proporre appello fino a provocare una intollerabile frattura con i principi costituzionali della parità di trattamento e del diritto di difesa. Nel caso dell’odierno ricorrente vi è stata accettazione consapevole del rito alternativo, con le conseguenze normative che ad esso si collegano, ivi compresa quella della limitazione all’appello, nonché della possibilità - tenuto conto della pena edittale prevista, nonché delle caratteristiche oggettive dell’addebito e soggettive dell’imputato - che il giudicante potesse prosciogliere, con sentenza inappellabile, ex art. 131-bis cod. pen D’altra parte questa esegesi è coerente anche con altra pronunzia della Consulta pure richiamata nella n. 274, la sentenza n. 288 del 1997, che escluse l’illegittimità costituzionale dell’art. 443, comma 1, lett. b , cod. proc. pen. allora vigente, quanto ad un epilogo decisorio certamente più afflittivo di quello di un proscioglimento ex art. 131-bis cod. pen., vale a dire nella parte in cui la disposizione precludeva all’imputato che avesse scelto il rito abbreviato di proporre appello avverso le sentenze di condanna in cui la pena fosse stata sostituita ex I. 24 ottobre 1981, n. 689. Alla luce di queste riflessioni, deve concludersi che la questione di costituzionalità è manifestamente infondata. 3. La sentenza, come anticipato, va annullata senza rinvio perché il fatto non costituisce reato. Contrariamente a quanto ritenuto dal Giudice di primo grado, la cui motivazione sul punto si presenza irrimediabilmente illogica, la frase riportata nel modulo sottoscritto dall’imputato di non aver riportato condanne penali/patteggiamenti e di non aver procedimenti penali pendenti per delitti non colposi è assolutamente equivoca, apparendo irrazionali le riflessioni del Giudice di merito circa la presenza della congiunzione e e la ripetizione del verbo non aver , la cui concludenza in termini di chiarificazione della frase appare assai discutibile. La scelta di apporre la congiunzione e di non riportare le frasi in due proposizioni distinte, invero, costituisce proprio un indice di segno opposto, che vede il coordinamento tra le due frasi e, di conseguenza, la possibilità che il sintagma per delitti non colposi si riferisse anche alla prima. Lo stesso dicasi per l’espressione non aver , la cui ripetizione anche nella seconda proposizione, ad onta di quanto sostenuto dal Tribunale, non appare indicativa della volontà di distinguere tra le due coordinate, quanto della necessità di assicurare una certa correttezza grammaticale, che sarebbe venuta meno ove la seconda delle frasi fosse stata privata del verbo. L’ulteriore argomentazione della sentenza impugnata circa l’ambito di applicabilità della disposizione di cui alla lettera aa dell’art. 46 d.P.R. 445/2000 e la ratio che la presidiava - secondo cui la normativa vedeva la possibilità solo di attestare di provvedimenti iscritti nel casellario, senza distinguere tra condanne per delitti dolosi e per delitti colposi - non è affatto concludente nell’escludere che l’imputato possa essere stato indotto in errore essa omette, infatti, di considerare che la lettera bb del medesimo articolo prevede ugualmente la possibilità di autodichiarare di non essere a conoscenza di essere sottoposto a procedimenti penali , anche in questo caso senza distinzione tra delitti dolosi e colposi. Deve, dunque, come anticipato, essere sancita la manifesta ed irrimediabile illogicità della motivazione nella parte in cui ha escluso che l’imputato abbia agito in assenza di volontà mistificatoria e sol perché tratto in inganno ovvero perché incorso in un errore di comprensione di un testo obiettivamente oscuro. Sotto questo profilo, va ricordato che questa Corte ha affermato il principio secondo cui, qualora la dichiarazione rilevante ex art. 483 cod. pen. sia contenuta in un modulo prestampato di non immediata comprensione, non può ritenersi esistente l’elemento soggettivo sulla base di un dovere di accertamento del privato determinato dall’assenza di chiarezza del modulo, in quanto, in tal caso, la responsabilità per il delitto di cui all’art. 483 cod. pen., viene fondata non già in ragione della coscienza e volontà di agire contro il dovere giuridico di dichiarare il vero, ma sulla base di una colposa omissione di indagine, insuscettibile di integrare il delitto di cui all’art. 483 cod. pen. punibile a titolo di dolo Sez. 5, n. 12710 del 27/11/2014, dep. 2015, Peccia, Rv. 263888 . P.Q.M. annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non costituisce reato.