L’obbligo dell’indagato di comunicare la variazione del domicilio eletto

Il verbale di elezione di domicilio è preordinato a consentire il recapito sicuro degli atti diretti all’indagato o all’imputato e deve contenere sia l’avviso che un procedimento penale è o può essere instaurato, sia l’avvertimento che l’indagato o l’imputato ha l’obbligo di comunicare ogni mutamento del domicilio dichiarato. In assenza di tale comunicazione, le notificazioni sono eseguite mediante consegna al difensore.

Lo ha ribadito la Corte di Cassazione con sentenza n. 47683/18 depositata il 19 ottobre con riferimento ad un giudizio nei confronti di un imputato per il reato di rapina aggravata. In particolare c’era stata erronea interpretazione della dichiarazione di domicilio allegata all’atto di appello. Il domicilio eletto. La Suprema Corte sottolinea che il verbale di elezione di domicilio è preordinato a consentire il recapito sicuro degli atti diretti all’indagato o all’imputato e deve contenere sia l’avviso che un procedimento penale è o può essere instaurato sia l’avvertimento che l’indagato o l’imputato ha l’obbligo di comunicare ogni mutamento del domicilio dichiarato. In assenza di tale comunicazione, le notificazioni sono eseguite mediante consegna al difensore. Non è richiesto che in esso siano indicate le norme violate o il numero del relativo procedimento con l’indicazione dell’autorità giudiziaria presso cui esso pende. Tuttavia, l’interessato ha l’obbligo di comunicare la variazione del domicilio anche in assenza di dette indicazioni, la cui mancanza non impedisce all’indagato diligente di risalire all’autorità giudiziaria competente cui indirizzare la comunicazione di variazione. Spetta dunque, all’interessato informarsi con la necessaria diligenza in merito all’autorità giudiziaria dinanzi alla quale pende il procedimento penale che lo riguarda. Ne deriva che, per la validità della prima dichiarazione di domicilio, ci sia indicata con esattezza l’autorità giudiziaria. Pertanto, tale motivo di ricorso è infondato dato che la difesa avrebbe dovuto dimostrare di aver comunicato l’eventuale mutamento di domicilio alla Procura. Irreperibilità del testimone. Con il secondo motivo di ricorso la difesa sostiene che la Corte territoriale non si è pronunciata non tanto sulla previsione di irreperibilità del testimone quanto sull’effettività delle ricerche eseguite prima di ritenerlo irreperibile. A tal proposito, la Suprema Corte ricorda che per l’utilizzabilità delle dichiarazioni dibattimentali di soggetti divenuti poi irreperibili, è necessario che il giudice compia tutti gli accertamenti sulle cause di irreperibilità. Nel caso in esame, il Tribunale si è limitato a dichiarare l’irreperibilità del teste senza effettuare ulteriori indagini. Per questo motivo, la Suprema Corte annulla la sentenza impugnata.

Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 27 settembre – 19 ottobre 2018, n. 47683 Presidente Gallo – Relatore Borsellino Fatti di causa Il Tribunale di Livorno accolse parzialmente il ricorso proposto dalla società I Tre Moschettieri s.n.c. ed annullò la parte dell’ordinanza-ingiunzione n. 585/2011, emessa dalla Direzione territoriale del lavoro di Livorno a seguito di accertamenti ispettivi, limitatamente alla violazione codificata col numero 5200, confermandola nel resto unitamente all’altra ordinanza-ingiunzione n. 580/2011. A seguito di impugnazione principale di M.F. , B.G. e della società I Tre Moschettieri di M.F. e B.G. s.n.c., nonché di impugnazione incidentale della predetta Direzione territoriale, la Corte d’appello di Firenze sentenza del 23.7.2015 ha accolto parzialmente entrambi gli atti d’appello ed ha dichiarato non dovuta la sanzione di cui al codice 5200 dell’ordinanza-ingiunzione n. 585/2011, né la maxi-sanzione di cui al codice 9106 dell’ordinanza-ingiunzione n. 580/2011. La Corte territoriale ha spiegato che a seguito della sentenza n. 254/2014 del giudice delle leggi era da ritenere illegittima la c.d. maxi-sanzione prevista per il c.d. lavoro nero, per cui era affetta da nullità assoluta sopravvenuta l’ordinanza-ingiunzione n. 580/2011 che la contemplava. Quanto all’ordinanza-ingiunzione n. 585/2011, rispetto alla quale il primo giudice aveva annullato la sola violazione codificata col numero 5200 relativa all’omessa consegna del prospetto paga ai lavoratori C. ed E. sulla base della ritenuta natura collaborativa occasionale coordinata delle prestazioni rese da questi ultimi, la Corte d’appello ha considerato, invece, che si trattava di prestazioni lavorative rese in regime di subordinazione, per cui, in accoglimento dell’appello incidentale della predetta Direzione, ha affermato che la sanzione era dovuta. Per la cassazione della sentenza propone ricorso il Ministero del Lavoro - Direzione territoriale del lavoro di Livorno con un solo motivo, cui resistono con controricorso la società I Tre Moschettieri s.n.c. di M.F. e B.G. , nonché personalmente questi due soci. Ragioni della decisione 1. Osserva la Corte che l’eccezione preliminare sollevata dai controricorrenti in ordine all’asserita nullità della notifica via PEC posta elettronica certificata del ricorso per cassazione effettuata dall’Avvocatura dello Stato nell’interesse dell’Agenzia delle Entrate nullità, questa, ricondotta al fatto che la parte processuale è stata sin dall’inizio il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali - Direzione Territoriale di Livorno - è infondata. Invero, è agevole rilevare che trattasi di un vizio di natura formale che investe solo la parte introduttiva della relata di notifica e che non inficia in alcun modo la validità della notifica del ricorso, in quanto dalla lettura complessiva dello stesso emerge chiaramente che la parte interessata alla cassazione dell’impugnata sentenza è esclusivamente il ricorrente Ministero nella sua articolazione territoriale livornese. Oltretutto, in nessuna parte del ricorso si fa riferimento all’Agenzia delle Entrate e, d’altra parte, l’atto di notifica ha raggiunto il suo scopo consentendo ai controricorrenti di difendersi adeguatamente. 2. È, altresì, da respingere la richiesta preliminare, già proposta dai controricorrenti alla Sezione sesta di questa Corte prima della rimessione del procedimento all’udienza pubblica, volta a sentir dichiarare cessata la materia del contendere per effetto della loro scelta di avvalersi dell’adesione agevolata in relazione all’irrogazione delle sanzioni amministrative con impegno a rinunciare ai giudizi pendenti aventi ad oggetto i carichi ai quali si riferisce la dichiarazione. Invero, non solo nell’ordinanza della Sesta sezione si evidenzia che non vi è in atti una rinunzia dei controricorrenti, ma a ciò va aggiunto che manca proprio la prova dell’accettazione del Ministero alla predetta definizione agevolata, per cui non ricorrono i presupposti per l’invocata cessazione della materia del contendere. 3. Con un solo motivo il ricorrente Ministero deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 36-bis, comma 7, lett. a , del D.L. 4 luglio 2006, n. 223, convertito con modificazioni nella legge 4 agosto 2006, n. 248, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., precisando che la presente impugnazione è diretta esclusivamente contro il capo della sentenza di secondo grado attraverso il quale è stata annullata la sanzione individuata, all’interno dell’ordinanza-ingiunzione e degli atti da essa presupposti, con il numero di codice 9106 c.d. maxi-sanzione connessa al c.d. lavoro nero, cioè impiego di lavoratori non risultanti dalle scritture o da altra documentazione obbligatoria . Il ricorrente censura, dunque, la decisione della Corte territoriale nella parte in cui ha escluso l’applicabilità, nel caso di specie, della predetta disposizione sanzionatoria sulla base del convincimento che nelle more del giudizio la stessa fosse stata espunta dall’ordinamento per effetto della sentenza n. 254 del 2014 della Corte Costituzionale. L’erroneità di tale decisione, secondo il ricorrente, dipende dal fatto che i giudici d’appello non hanno considerato che l’art. 36-bis, comma 7, lett. a , della legge n. 223 del 2006, nel modificare il precedente art. 3 del D.L. n. 12 del 2002, ha introdotto una duplice previsione, vale a dire sia la cosiddetta maxi-sanzione amministrativa primo periodo della disposizione connessa al c.d. lavoro nero concernente l’impiego di lavoratori non registrati, rappresentante l’oggetto del presente giudizio, sia le sanzioni civili secondo periodo della disposizione , volte a compensare, in forma risarcitoria, il mancato versamento dei dovuti contributi e premi. Aggiunge il ricorrente che la declaratoria di incostituzionalità richiamata nell’impugnata sentenza ha riguardato unicamente l’ipotesi prevista delle sanzioni civili, senza andare ad incidere in alcun modo sulla maxi-sanzione amministrativa contemplata dalla citata disposizione normativa. In definitiva, secondo il presente assunto difensivo, la Corte d’appello di Firenze, nell’interpretare erroneamente la portata della declaratoria di incostituzionalità di cui trattasi, è incorsa nell’illegittima disapplicazione del primo periodo dell’art. 36-bis, comma 7, lett. a del D.L. n. 223 del 2006, vale a dire della disposizione concretamente applicata nella fattispecie. 4. Il ricorso è fondato. Invero, il decreto legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito con modificazioni dalla L. 4 agosto 2006, n. 248, stabilisce all’art. 36-bis Misure urgenti per il contrasto del lavoro nero e per la promozione della sicurezza nei luoghi di lavoro , comma 7, quanto segue All’articolo 3 del decreto-legge 22 febbraio 2002, n. 12, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2002, n. 73, sono apportate le seguenti modificazioni a il comma 3 è sostituito dal seguente 3. Ferma restando l’applicazione delle sanzioni già previste dalla normativa in vigore, l’impiego di lavoratori non risultanti dalle scritture o da altra documentazione obbligatoria è altresì punito con la sanzione amministrativa da Euro 1.500 a Euro 12.000 per ciascun lavoratore, maggiorata di Euro 150 per ciascuna giornata di lavoro effettivo. L’importo delle sanzioni civili connesse all’omesso versamento dei contributi e premi riferiti a ciascun lavoratore di cui al periodo precedente non può essere inferiore a Euro 3.000, indipendentemente dalla durata della prestazione lavorativa accertata . 5. Dalla sentenza n. 254 del 2014 della Corte Costituzionale, richiamata nell’impugnata sentenza, risulta che è costituzionalmente illegittimo, per violazione dell’art. 3 Cost., l’art. 36- bis, comma 7, lett. a , del d.l. 4 luglio 2006, n. 223 convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 4 agosto 2006, n. 248 , nella parte in cui, modificando l’art. 3, comma 3, del d.l. n. 12 del 2002 convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 73 del 2002 , stabilisce che l’importo delle sanzioni civili connesse all’omesso versamento dei contributi e premi riferiti a ciascun lavoratore non risultante dalle scritture o da altra documentazione obbligatoria non può essere inferiore a Euro 3.000, indipendentemente dalla durata della prestazione lavorativa accertata. 6. Orbene, balza evidente che la dichiarazione di illegittimità di cui trattasi è rimasta circoscritta all’ipotesi delle sanzioni civili connesse all’omesso versamento dei contributi e premi riferiti a ciascun lavoratore non risultante dalle scritture o da altra documentazione obbligatoria, ma non ha interessato la prima parte della citata disposizione normativa riflettente la diversa ipotesi dell’applicazione delle sanzioni già previste dalla normativa in vigore. Ciò è stato già chiarito da questa Corte Sez. L. -, Ordinanza n. 3208 del 9.2.2018 con la precisazione che In materia di sanzioni civili per la mancata iscrizione di lavoratori nel libro matricola, l’art. 36 bis, comma 7, del d.l. n. 223 del 2006, conv. con modif. nell’art. 1, comma 1, della l. n. 248 del 2006, è inapplicabile, essendo stato dichiarato costituzionalmente illegittimo dalla Corte cost. con sentenza 13 novembre 2014, n. 254, nella parte in cui prevede che l’importo delle sanzioni civili connesse all’omesso versamento dei contributi e premi riferiti a ciascun lavoratore non può essere inferiore a Euro 3.000,00, indipendentemente dalla durata della prestazione lavorativa accertata . 7. D’altronde, nella stessa sentenza n. 254/2014 della Corte Costituzionale è ben spiegato che, come ha chiarito la giurisprudenza di legittimità, l’obbligo relativo alle somme aggiuntive che il datore di lavoro è tenuto a versare in caso di omesso o ritardato pagamento dei contributi assicurativi ha natura di sanzione civile e non amministrativa, costituendo una conseguenza automatica dell’inadempimento o del ritardo, che è posta allo scopo di rafforzare l’obbligazione contributiva e risarcire, in misura predeterminata dalla legge, con una presunzione iuris et de iure, il danno cagionato all’istituto assicuratore. La censurata previsione di una soglia minima disancorata dalla durata della prestazione lavorativa accertata, dalla quale dipende l’entità dell’inadempimento contributivo e del relativo danno, è irragionevole perché può determinare una sanzione del tutto sproporzionata rispetto alla gravità dell’inadempimento del datore di lavoro ed incoerente con la sua riconosciuta natura risarcitoria. Infatti, il legislatore, nel predeterminare in via presuntiva il danno subito dall’ente previdenziale a causa dell’omissione contributiva, ha escluso la rilevanza di uno degli elementi che concorrono a cagionare quel danno, costituito dalla durata dei rapporti di lavoro non risultanti dalle scritture o da altra documentazione obbligatoria e dal correlativo inadempimento dell’obbligo contributivo. In tal modo, la sanzione risulta arbitraria e irragionevole perché, pur avendo funzione risarcitoria, è stabilita con un criterio privo di riferimento all’entità del danno, dipendente dalla durata del periodo in cui i rapporti di lavoro in questione si sono protratti. 8. Ebbene, è evidente che alla Corte territoriale è sfuggita la distinzione contenuta nella norma di cui all’art. 36-bis, sopra riportata, tra le sanzioni civili, aventi funzione risarcitoria connessa all’omesso versamento contributivo, e le sanzioni amministrative applicate nella fattispecie già previste dalla normativa in vigore, la cui disciplina non è stata interessata, differentemente dalle prime, dalla citata sentenza dei giudici delle leggi. 9. In definitiva, il ricorso va accolto e l’impugnata sentenza va cassata, con rinvio del procedimento alla Corte d’appello di Firenze che, in diversa composizione, provvederà anche in ordine alle spese del presente giudizio. P.Q.M. La Corte accoglie il ricorso, cassa l’impugnata sentenza e rinvia la causa anche per le spese, alla Corte d’appello di Firenze in diversa composizione.