Violenza contro la madre, il fine di lucro lo incastra per estorsione

L’elemento caratterizzante il reato di estorsione è l’esercizio della violenza al fine di procurarsi un profitto ingiusto

Così ha deciso la Cassazione con la sentenza n. 40257/17, depositata il 5 settembre. Il caso. La Corte d’Appello confermava la sentenza di primo grado, condannando l’imputato per il reato di tentata estorsione ai danni della madre. Avverso tale pronuncia la difesa ricorreva in Cassazione , lamentando vizio di legge e di motivazione in relazione alla qualificazione giuridica del fatto, che sarebbe dovuto essere inquadrato nella fattispecie prevista all’art. 572 c.p. maltrattamenti contro familiari o conviventi o 610 c.p. violenza privata . Il reato di estorsione. La Cassazione, esaminando quando sostenuto dalla difesa, afferma che al fine di inquadrare la fattispecie di reato vada investigata la direzione soggettiva della minaccia e della violenza. Ciò che caratterizza il reato di estorsione, infatti, è l’esercizio della violenza al fine di procurarsi un profitto ingiusto, la direzione soggettiva dell’aggressione deve essere finalizzata a costringere la vittima ad un’azione che si caratterizza per il fatto che consente l’ottenimento di un profitto ingiusto. Al contrario qualora manchi tale fine e si tratti di un facere generico la condotta sarà riconducibile alla fattispecie residuale dell’art. 610 c.p. Per quanto attiene al reato di maltrattamenti, invece, l’elemento della violenza o minaccia è funzionale alla prostrazione psicologica e fisica della vittima, connotandosi, inoltre, per la serialità delle condotte violente, elemento non costitutivo del delitto di estorsione. Nel caso di specie, la Corte rileva come l’aggressione dell’imputato alla madre fosse finalizzata al conseguimento del denaro per l’acquisto di stupefacenti e dunque per un profitto ingiusto. Sulla base di tali constatazioni la Cassazione rigetta il ricorso.

Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 5 luglio – 5 settembre 2017, n. 40257 Presidente Diotallevi – Relatore Recchione Ritenuto in fatto 1. La Corte di appello di Napoli, parzialmente riformando la sentenza del Tribunale, confermava la responsabilità dell’imputato per il reato di tentata estorsione consumato ai danni della madre. 2. Avverso tale sentenza proponeva ricorso per cassazione il difensore dell’imputato che deduceva vizio di legge e di motivazione in relazione alla qualifica giuridica del fatto che, tenuto conto delle circostanze emerse, avrebbe dovuto essere inquadrato nella fattispecie prevista dall’art. 572 cod. pen. o in quella prevista dall’art. 610 cod. pen. Considerato in diritto 1. Il ricorso è inammissibile. 1.1. Il collegio rileva che la diagnosi differenziale tra il delitto di maltrattamenti in famiglia e quello di estorsione deve essere effettuata sulla base della valutazione della direzione soggettiva della minaccia e della violenza queste nel delitto di maltrattamenti sono funzionali alla prostrazione psicologica e fisica della vittima, mentre nel delitto di estorsione sono dirette all’abbattimento delle sue facoltà volitive, e dunque alla costrizione della stessa per ottenere un profitto ingiusto, con altrui danno Cass. sez. 2 n. 7382 del 18/03/1986, Rv 173385 . Peraltro il reato di maltrattamenti in famiglia si connota per la serialità delle condotte aggressive, che non è elemento costitutivo del delitto di estorsione, e si perfeziona con l’ottenimento di un profitto ingiusto da parte dell’autore del reato. Con riguardo ai criteri distintivi tra il reato di estorsione e quello di violenza privata il collegio ribadisce, invece, che si configura l’estorsione ogni volta che l’azione violenza sia diretta a procurare all’autore del reato un profitto ingiusto, e non ad un facere generico Cass. sez. 6 n. 53429 del 5/11/2014, Rv 261800 Cass. sez. 2 n. 9024 del 5/11/2013 dep. 2014, Rv 259065 . Quello che caratterizza il delitto di estorsione è infatti la direzione soggettiva della aggressione, agita con minacce o con violenza fisica finalizzate a costringere la vittima ad una azione che si caratterizza per il fatto che consente l’ottenimento di un profitto ingiusto. Ove tale specifica finalizzazione dell’azione violenta manchi ed alla non consegua alcun profitto, la condotta deve essere invece inquadrata nella fattispecie residuale prevista dall’art. 610 cod. pen. 1.3. Nel caso di specie, in coerenza con tali linee ermeneutiche, la Corte territoriale confermava la legittimità dell’inquadramento giuridico del fatto contestato nel reato di estorsione, rilevando come l’aggressione agita dall’imputato nei confronti della madre fosse univocamente diretta ad ottenere la consegna di denaro per l’acquisto di stupefacente, dunque per lucrare un profitto ingiusto. La motivazione offerta non presenta illogicità manifeste e si presenta coerente sia con le emergenze processuali, che con le indicazioni ermeneutiche fornite dalla Corte di legittimità, e si sottrae, pertanto, ad ogni censura in questa sede. 2. Alla dichiarata inammissibilità del ricorso consegue, per il disposto dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché al versamento, in favore della Cassa delle ammende, di una somma che si determina equitativamente in Euro 1500,00. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1500.00 a favore della Cassa delle ammende.