La Cassazione individua i criteri da seguire nel giudizio di riparazione per ingiusta detenzione

Quali sono i parametri da considerare per valutare la concessione dell’indennizzo di legge a chi si trovi vittima di illegittime restrizioni personali?

Con la sentenza n. 17212, depositata il 5 aprile scorso, il Supremo Collegio ritorna ad occuparsi dei parametri da considerare per valutare la concessione dell’indennizzo di legge a chi si trovi vittima di illegittime restrizioni personali, sotto il profilo sostanziale o procedurale. Lo fa, riaffermando l’autonomia tra i compiti assegnati ai giudici di cognizione e quelli attribuiti ai giudici della riparazione, ma chiarendo che tale ampio spazio di manovra” trova rituale contrappeso in un aggravamento dell’onere motivazionale, che può essere assolto solo tenendo adeguatamente conto, nei diversi passaggi, dell’esito dell’istruttoria dibattimentale. Interviene, da ultimo, in relazione al significato rilevante di colpa del prevenuto ed all’eventuale preclusione scaturente dall’ipotesi di connivenza nel delitto. Il caso. Il processo a quo concerne un caso di qualche anno fa, balzato agli onori delle cronache per la gravità dei delitti investigati e, al contempo, per la popolarità di alcune delle vittime oggetto della violenza terrorista. Più in dettaglio, riguarda un uomo che avrebbe aderito, in via collaterale e successiva, al gruppo eversivo ritenuto responsabile dell’omicidio del Prof. Massimo D’Antona, supportandone le attività e partecipando ad iniziative di propaganda ideologica per altro verso, il suo contributo si sarebbe sostanziato nel ricevere materiale dell’organizzazione riservato e crittato, conoscendone le credenziali di accesso e custodendolo per le cc.dd. Brigate Rosse per la Costruzione del Partito Comunista Combattente. Sebbene l’ordinanza coercitiva avesse imposto la misura custodiale più afflittiva, applicata, poi, per circa 6 mesi, il contraddittorio dimostrava l’estraneità ai fatti dell’imputato, che sin dalla pronuncia di primo grado era immediatamente scarcerato, ritenendo equivoco il quadro indiziario, composto da fonti di prova telefonate e corrispondenza utilizzo di applicazioni di crittografia e cancellazione dei file possesso di materiale cartaceo non convergenti ed inidonee a dimostrare con certezza la partecipazione del prevenuto, a qualunque livello, alla consorteria criminale sotto inchiesta. La Corte d’Appello, tuttavia, rigettava l’istanza promossa da quest’ultimo ai sensi dell’art. 314 c.p.p., valorizzando i riscontri posti alla base del provvedimento cautelare del G.I.P. capitolino. Ricorre per cassazione l’istante, tramite il proprio difensore di fiducia, denunciando con unico ed articolato motivo i vizi della motivazione i giudici distrettuali, invero, non si sarebbero confrontati con la doppia conforme, limitandosi ad una mera parafrasi dei contenuti del provvedimento impositivo, inferendo l’esistenza di fatti esclusi nell’ambito del processo di cognizione e non approfondendo neppure, come avrebbero dovuto, i profili della condotta contestata che avrebbero potuto dar adito ad un supposto incolpevole errore degli inquirenti sarebbe contraddittoria, infine, la giustificazione degli elementi a carico, totalmente privi di conferma nell’ambito della fase di cognizione e che vengono accreditati, invece, senza alcun vaglio critico. La IV Sezione – su parere conforme del Procuratore generale e difforme dell’Avvocatura Generale dello Stato, che aveva concluso insistendo per il rigetto – accoglie l’impugnazione ed annulla l’ordinanza, rinviando alla Corte territoriale per un nuovo esame e per la decisione in ordine alle spese del grado di legittimità . L’Estensore tende, in realtà, a valicare gli stretti confini del tema processuale, ribadendo anche principi di diritto che afferiscono più all’apprezzamento dell’ingiustizia della misura restrittiva patita – con particolare riguardo ad ipotesi simili a quelle oggetto di giudizio – che non all’errore commesso in prime cure. Inevitabile abbrivio, tuttavia, è costituito da una riflessione sui rapporti tra la procedura in argomento ed il rito ordinario. Autonomia del giudizio ed obbligo di motivazione. Il punto principale della sentenza riguarda, infatti, la maggior o minor proattività del Collegio che si trovi a sindacare l’operato dei Magistrati, inquirenti o giudicanti, che abbiano determinato la privazione della libertà personale. In proposito, sebbene la nuova valutazione operi con giudizio autonomo ed ex ante delle fonti di prova, gli Ermellini sottolineano come i giudici della riparazione siano comunque tenuti a confrontarsi con quanto emerso dal processo, non potendosi limitare a prendere a prestito le ragioni del provvedimento che ha causato la detenzione. Operazione ermeneutica totalmente assente nel caso di specie, in cui le motivazioni delle due sentenze di assoluzione emesse dalla Corte di Assise e dalla Corte di Assise d’Appello sono state totalmente pretermesse dall’iter logico che ha portato, con argomentazioni spesso generiche, al rigetto dell’istanza. I fattori ostativi della colpa del prevenuto e della connivenza. A margine di tale assorbente questione, il Collegio riafferma da un lato, la nozione di colpa rilevante, intesa come condotta che ponga in essere per macroscopica negligenza, imprudenza, trascuratezza o inosservanza delle norme una situazione tale da costituire una non voluta, ma prevedibile, ragione di intervento restrittivo dell’Autorità giudiziaria o di mancata revoca di un provvedimento coercitivo già emesso dall’altro, la possibile efficacia ostativa al beneficio della connivenza, condizione che impedisce il riconoscimento dell’indennizzo quando sia indice del venir meno di fondamentali doveri di solidarietà sociale, di colpevole tolleranza al delitto o di rafforzamento del proposito criminoso altrui. I giudici di rinvio, dunque, dovranno tener conto anche di queste indicazioni per condurre il nuovo esame della richiesta. Conclusioni. La decisione in commento interviene in una tematica oggetto di forti implicazioni pratiche e che, bisogna ammetterlo senza infingimenti, risente di orientamenti di merito spesso ristrettivi, tesi all’indulgenza verso l’operato degli inquirenti ed allo svilimento della reale portata, materiale ed emotiva, dell’ingiusta privazione della propria libertà forse per una malcelata intenzione di disincentivare il ricorso a tali forme di ristoro . In quest’ambito, dunque, costituisce un monito nei confronti di impostazioni, per così dire, conservative, tese al passivo accreditamento di tesi che, già solo per essere state smentite – parzialmente o totalmente – dalle emergenze processuali, meriterebbero un filtro più severo.

Corte di Cassazione, sez. IV Penale, sentenza 9 marzo – 5 aprile 2017, numero 17212 Presidente Blaiotta – Relatore Pezzella Ritenuto in fatto 1. La Corte di Appello di Roma, con ordinanza del 12.2.2015 rigettava la richiesta di riparazione per ingiusta detenzione avanzata il 3/6/2014 ex art. 314 cod. proc. penumero dall’odierno ricorrente P.M. in relazione alla custodia cautelare in carcere subta dal 10 ottobre 2009 al 23 marzo 2011 a seguito dell’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa nei suoi confronti dal GIP presso il Tribunale di Roma in data 18.9.2009 nel corso del procedimento penale numero 3482/09 RGNR in ordine al reato di cui agli articolo 110,112 numero l e 306 co 1 e 2 c.p. perché partecipava con B.M.D. ed altri ad una associazione terrori-stica/eversiva costituita in banda armata denominata dapprima omissis e, in vista e a seguito dell’omicidio del prof D.M. , omissis omissis . Al P. veniva, in particolare, veniva contestata la condotta - esposta nell’ordinanza cautelare ed oggetto del capo di imputazione per il quale veniva poi tratto a giudizio - estrinsecatasi nell’aderire, attraverso il referente B.M.D. , militante dell’organizzazione condannata anche per tale reato associativo con sentenza passata in giudicato , al programma eversivo dei prima e omissis nei livelli di militanza previsti nell’organizzazione medesima rafforzando con la sua piena disponibilità l’operatività della medesima -nel ricevere dalla militante B.M.D. materiale d’organizzazione criptato con password chiavi pubbliche e private in uso alla medesima e a M.R. , Ba.Ci. e Br.Pa. anch’essi condannati , materiale riservato dell’organizzazione omissis al quale, mediante l’utilizzo delle password segrete poteva quindi avere accesso - nel tenere con la militante B.M.D. rapporti riservati di organizzazione secondo le modalità tipiche degli associati anche mediante l’utilizzo di almeno 8 schede dedicate di telefonia prepagata nell’espletare attività di propaganda e di supporto all’organizzazione partecipando ad attività di rivendicazione e di sostegno alle attività dell’organizzazione. Con sentenza in data 23/3/2011 la Corte di Assise di Roma lo assolveva ex art. 530 c.p.p. dal reato ascrittogli per non aver commesso il fatto e ne ordinava l’immediata scarcerazione La sentenza di primo grado veniva appellata dal P.M., ma confermata dalla Corte di assise di Appello con sentenza del 13/3/2012. 2. Avverso tale provvedimento ha proposto ricorso per Cassazione, a mezzo del proprio difensore di fiducia, il P. , deducendo quale unico motivo, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall’art. 173, comma 1, disp. att., cod. proc. penumero , il vizio motivazionale del provvedimento impugnato in relazione agli articolo 125 e 314 cod. proc. penumero Il ricorrente ricorda che questa Corte di legittimità ha stabilito che il giudice della riparazione può apprezzare i fatti esaminati dal giudice della cognizione in modo diverso, rivalutandoli per verificare se vi sia stato dolo o colpa grave che possa avere avuto efficacia causale sull’emissione della misura. Questa possibilità di rivalutazione ha, tuttavia, un limite riguarda i fatti che il giudice del merito abbia ritenuto accertati e non quelli la cui esistenza abbia ritenuto di escludere. Per questi ultimi fatti non accertati non vi è alcuna possibilità di rivalutazione perché si tratta di condotte la cui esistenza non è stata accertata in giudizio e quindi deve essere esclusa, non se ne può tenere conto nel giudizio di riparazione essendo state escluse nel giudizio di responsabilità il richiamo è a sez. 4 sent. 19/3/2015 numero 11636 sent. 29/1/2015 numero 4372 testo della decisione sent. numero 1573 del 19/5/1994 ne. Tinacci . Orbene, apparirebbe evidente che, nel caso che ne occupa, i giudici della riparazione si sono limitati svolgere una mera parafrasi dell’ordinanza di custodia cautelare, senza prendere in considerazione le motivazioni delle due sentenze di assoluzione emesse dalla Corte di Assise e dalla Corte di Assise di Appello di Roma atti, ovviamente, allegati alla richiesta di riparazione le sentenze in questione hanno esaminato tutti gli elementi di accusa richiamati dall’impugnata ordinanza ed hanno escluso la loro valenza indiziaria e, dunque la loro forza probatoria. Non è un caso, in effetti, che alle motivazioni delle due sentenze assolutorie non si faccia riferimento alcuno nel corpo dell’impugnata ordinanza. La Corte di Assise rileva in conclusione che nessuno degli elementi di prova a carico dell’imputato modalità di comunicazioni telefoniche, incontri, colloqui in carcere, corrispondenza epistolare con B.M.D. , utilizzo di programmi di criptazione e cancellazione di files, possesso di documenti cartacei , sottoposti al vaglio dell’istruttoria dibattimentale, contenga in sé i necessari requisiti di gravità, precisione e concretezza che consentano di ritenere che l’imputato abbia partecipato, a qualsiasi livello, alle attività della associazione eversiva di cui all’imputazione e che tale giudizio debba esprimersi anche a seguito di una valutazione globale ed unitaria di quei medesimi elementi, in quanto inidonei a porre in luce l’esistenza di collegamenti che ne individuino la convergenza in un unico contesto dimostrativo cfr. sent. Assise pag. 51 . Ci si duole che, con la scelta di riproporre, ostinatamente, in maniera pedissequa le cadenze della richiesta di misura cautelare e dell’ordinanza di misura cautelare, senza tenere in conto alcuno la motivazione delle due sentenze di assoluzione, l’ordinanza della corte di Appello romana abbia palesemente violato la regola di giudizio che impedisce al giudice della riparazione di porre a base della motivazione fatti, la cui esistenza il giudice della cognizione ha escluso. Apparirebbero evidenti, inoltre, alla luce della, precedente, doverosa disamina delle due sentenze di assoluzione, i plurimi vizi di motivazione che attingono l’ordinanza impugnata, e cioè che a il provvedimento impugnato è viziato da mancanza di motivazione, ovvero da motivazione meramente apparente avendo i giudici della corte di appello posto a base del provvedimento impugnato gli elementi di accusa contenuti nell’ordinanza di custodia cautelare, elementi tutti smentiti ed esclusi dalle due sentenze di assoluzione b il provvedimento impugnato presenta un vizio di contraddittorietà con le risultanze del procedimento per aver platealmente riproposto fatti e circostanze per rigettare la richiesta di P. , pacificamente esclusi dalle motivazioni delle due sentenze di assoluzione, nonostante che nella richiesta di riparazione fosse stato evidenziato che le due sentenze di assoluzione avevano evidenziato come tutti gli elementi di accusa non avevano trovato conferma alcuna c la motivazione del provvedimento impugnato è manifestamente illogica atteso che, assumendo come premesse gli elementi indicati nell’ordinanza di custodia cautelare, rivelatisi inesistenti ed esclusi dalla Corte di Assise e dalla Corte di Assise. di Appello di Roma, giunge al rigetto della richiesta del ricorrente attribuendo al P. condotte e comportamenti che questi non ha tenuto e che gli vengono attribuite immotivatamente cadere in apparenti contraddizioni se sono apparenti non sono contraddizioni e, comunque, le due sentenza di assoluzione danno ampiamente conto della coerenza e credibilità delle dichiarazioni di P. fornire versioni dei fatti di difficile credibilità, non tenendo in alcun conto il dato che la versione dei fatti di P. è risultata, ampiamente, credibile ed entrambe le sentenze di assoluzione ne danno conto. Sostenere che P. nell’interrogatorio reso al P.M. il 9/10/2009 e nelle sit rese in precedenza non avrebbe reso sufficienti chiarimenti, appare contraddittorio rispetto alle motivazioni delle, due sentenze di assoluzione che hanno riconosciuto - la credibilità, la coerenza e la costanza nel tempo del racconto del ricorrente. I giudici della Corte di appello, infine, non hanno tenuto in alcun conto che gli investigatori e gli inquirenti erano a conoscenza delle regole di condotta degli associati relativi alle comunicazioni e degli strumenti informatici da questi utilizzati già dalla fine del 2003 dopo l’arresto e l’inizio della collaborazione della Ba. P. è stato arrestato il omissis e, che, quindi gli investigatori e gli inquirenti erano perfettamente in grado di comprendere quali erano i comportamenti da associato e quali non lo erano P. era, costantemente, intercettato da molti mesi prima dell’arresto e, gli investigatori e gli inquirenti sapevano che era in costante contatto con la sorella di B.M.D. per informarla sulle condizioni di salute della stessa e per provare a farla visitare in carcere da uno psichiatra, sapevano anche risulta dalle intercettazioni in atti e dalla motivazione della sentenza di Assise di Appello che P. aveva intenzione di chiedere al direttore del carcere di registrare i colloqui che lui intratteneva con la B. . Secondo il ricorrente, non avere tenuto in alcun conto gli elementi appena richiamati ha impedito alla Corte di Appello di Roma di dare conto, con motivazione esaustiva ed esente da illogicità, del motivo per il quale, pure in presenza di questi dati di fatto certi ed incontrovertibili dei quali investigatori e inquirenti erano a conoscenza, la condotta di P.M. sarebbe stata gravemente imprudente, avrebbe dato adito all’apparenza di illecito penale ed avrebbe avuto efficacia sinergica per l’emissione della ordinanza di detenzione domiciliare. Chiede, pertanto, l’annullamento della ordinanza impugnata. 3. Il P.G. presso questa Corte Suprema ha rassegnato ex art. 611 c.p.p. le proprie conclusioni scritte chiedendo l’accoglimento del proposto ricorso e l’annullamento della ordinanza impugnata con rinvio alla Corte di Appello di Roma per un nuovo giudizio. 4. L’Avvocatura Generale dello Stato in data 9.1.2017 ha rassegnato le conclusioni scritte nell’interesse del Ministero dell’Economia e delle Finanze ed ha chiesto rigettarsi il ricorso. 5. In data 18.1.2017 il difensore di P.M. ha depositato memoria ex art. 611 cod. proc. penumero affermando di condividere la requisitoria del P.G. ripercorrendo l’intera vicenda, precisando la successione cronologica dei fatti, evidenziando che l’affermazione di una condotta gravemente imprudente del P. che dava adito all’apparenza di illecito penale ed aveva efficacia sinergica per l’emissione dell’ordinanza cautelare, in relazione a vicende conosciute con anni di anticipo da parte degli inquirenti, costituirebbe una mera congettura priva di fondamento. Insiste, pertanto, nella richiesta di accoglimento del ricorso. Considerato in diritto 1. Le doglianze proposte sono fondate e, pertanto, l’impugnata ordinanza va annullata con rinvio alla Corte di Appello di Roma, cui va demandato anche il regolamento delle spese tra le parti in questo giudizio, per un nuovo esame. 2. Con il provvedimento impugnato la Corte di Appello di Roma ha individuato nella condotta tenuta dall’odierno ricorrente, valutata nell’ambito di un procedimento nel corso del quale veniva sottoposto a custodia cautelare in carcere per partecipazione ad associazione terroristica - eversiva costituita in banda armata e poi assolto per non aver commesso il fatto con la sentenza di primo grado, confermata in appello - consistita nell’aver intrattenuto negli anni di riferimento rapporti di frequentazione con alcuni esponenti dell’associazione terroristica denominata omissis tramite schede telefoniche dedicate e nell’avere custodito materiale, anche informatico protetto da chiavi di accesso criptate, utile per gli scopi dell’associazione un atteggiamento gravemente imprudente, qualificabile come colpa grave ostativa al riconoscimento della riparazione richiesta Il ricorso proposto, con il quale si eccepisce la erronea applicazione dei presupposti del diritto all’equa riparazione per ingiusta detenzione e la manifesta illogicità della motivazione che ha valorizzato fatti e circostanze ricostruite diversamente dalla tesi accusatoria nel corso dei giudizi di merito risulta fondato in quanto il contenuto decisorio del provvedimento impugnato si pone in contrasto con i consolidati orientamenti della giurisprudenza di questa Corte di legittimità, nella parte in cui, attraverso una ricostruzione dei fatti ritenuti significativi di una colpa grave, si basa esclusivamente sulla motivazione del provvedimento cautelare, non aggiornata alla luce delle risultanze utilizzate nel percorso motivazionale delle due sentenze di merito che hanno assolto il ricorrente dal grave reato contestatogli per non aver commesso il fatto. Fondata appare, in altri termini, la doglianza secondo cui i giudici della riparazione si sarebbero limitati a svolgere una mera parafrasi dell’ordinanza di custodia cautelare, senza prendere in considerazione le motivazioni delle due sentenze di assoluzione emesse dalla Corte di Assise e dalla Corte di Assise di Appello di Roma, laddove, invece, le sentenze in questione hanno esaminato tutti gli elementi di accusa richiamati dall’impugnata ordinanza ed hanno escluso la loro valenza indiziaria e, dunque la loro forza probatoria. 3. Il provvedimento impugnato appare generico laddove fa riferimento a taluni fatti che non sarebbero stati esclusi, senza precisare quali. Il giudice del rinvio sarà perciò chiamato a confrontarsi con quanto affermato dai giudici della cognizione secondo cui nessuno degli elementi di prova a carico dell’imputato modalità di comunicazioni telefoniche, incontri, colloqui in carcere, corrispondenza epistolare con B.M.D. , utilizzo di programmi di criptazione e cancellazione di files , possesso di documenti cartacei , sottoposti al vaglio dell’istruttoria dibattimentale, contenga in sé i necessari requisiti di gravità, precisione e concretezza che consentano di ritenere che l’imputato abbia partecipato, a qualsiasi livello, alle attività della associazione eversiva di cui all’imputazione e che tale giudizio debba esprimersi anche a seguito di una valutazione globale ed unitaria di quei medesimi elementi, in quanto inidonei a porre in luce l’esistenza di collegamenti che ne individuino la convergenza in un unico contesto dimostrativo . È vero, infatti, che vi è totale autonomia tra giudizio penale e giudizio per l’equa riparazione anche atteso che i due afferiscono piani di indagine del tutto diversi che ben possono portare a conclusioni affatto differenti pur se fondanti sul medesimo materiale probatorio acquisito agli atti, in quanto sottoposto ad un vaglio caratterizzato dall’utilizzo di parametri di valutazione del tutto differenti. Ciò perché è prevista in sede di riparazione per ingiusta detenzione la rivalutazione dei fatti non nella loro portata indiziaria o probatoria, che può essere ritenuta insufficiente e condurre all’assoluzione, occorrendo valutare se essi siano stati idonei a determinare, unitamente ed a cagione di una condotta negligente od imprudente dell’imputato, l’adozione della misura cautelare, traendo in inganno il giudice. Tuttavia è altrettanto pacifico cfr. tra le tante questa Sez. 4, ord. 25.11.2010, numero 45418 che, in sede di giudizio di riparazione ex art. 314 cod. proc. penumero ed al fine della valutazione dell’ an debeatur occorra prendere in considerazione in modo autonomo e completo tutti gli elementi probatori disponibili ed in ogni modo emergenti dagli atti, al fine di valutare se chi ha patito l’ingiusta detenzione vi abbia dato o abbia concorso a darvi causa con dolo o colpa grave, con particolare riferimento alla sussistenza di condotte che rivelino eclatante o macroscopica negligenza, imprudenza o violazione di leggi o regolamenti. A tale fine è necessario che venga esaminata la condotta posta in essere dall’istante sia prima che dopo la perdita della libertà personale e, più in generale, al momento della legale conoscenza della pendenza di un procedimento a suo carico cfr. Sez. Unumero 27.5.2010, numero 32383 , onde verificare, con valutazione ex ante, in modo del tutto autonomo e indipendente dall’esito del processo di merito, se tale condotta, risultata in sede di merito tale da non integrare un fatto-reato, abbia ciononostante costituito il presupposto che abbia ingenerato, pur in eventuale presenza di un errore dell’autorità procedente, la falsa apparenza della sua configurabilità come illecito penale, dando luogo alla detenzione con rapporto di causa ad effetto cfr. anche la precedente Sez. Unumero 26.6.2002, Di Benedictis . A tal fine vanno prese in considerazione tanto condotte di tipo extraproces-suale grave leggerezza o trascuratezza tale da avere determinato l’adozione del provvedimento restrittivo , quanto di tipo processuale autoincolpazione, silenzio consapevole sull’esistenza di un alibi che non siano state escluse dal giudice della cognizione cfr. questa sez. 4, numero 45418 del 25.11.2010 . La colpa dell’istante è ostativa al diritto per le argomentazioni espresse, tra le altre, dalle recenti sez. 4, numero 1710 del 27.11.2013 sez. 4, numero 1422 del 16 ottobre 2013 non potendo l’ordinamento, nel momento in cui fa applicazione della regola solidaristica, obliterare il principio di autoresponsabilità che incombe su tutti i consociati, allorquando interagiscono nella società trattasi, infondo, della regola che trova esplicitazione negli arti. 1227 e 2056 c.c. , deve intendersi idonea ad escludere la sussistenza del diritto all’indennizzo non solo la condotta volta alla realizzazione di un evento voluto e rappresentato nei suoi termini fattuali, sia esso configgente o meno con una prescrizione di legge, ma anche la condotta consapevole e volontaria i cui esiti, valutati dal giudice del procedimento riparato-rio con il parametro dell’ id quod plerumque accidit secondo le regole di esperienza comunemente accettate, siano tali da creare una situazione di allarme sociale e di doveroso intervento dell’autorità giudiziaria a tutela della comunità, ragionevolmente ritenuta in pericolo. Poiché inoltre, anche ai fini che qui ci interessano, la nozione di colpa è data dall’art. 43 c.p., deve ritenersi ostativa al riconoscimento del diritto alla riparazione quella condotta che, pur tesa ad altri risultati, ponga in essere, per evidente, macroscopica, negligenza, imprudenza, trascuratezza, inosservanza di leggi, regolamenti o norme disciplinari, una situazione tale da costituire una non voluta, ma prevedibile, ragione di intervento dell’autorità giudiziaria che si sostanzi nell’adozione di un provvedimento restrittivo della libertà personale o nella mancata revoca di uno già emesso . 4. È possibile, dunque, che venga attribuito valore ostativo a circostanze di fatto valorizzate nella fase delle indagini preliminari in particolare, la frequentazione ed i contatti de ricorrente P.M. con B.M.D. anche in momenti topici dell’attività del gruppo eversivo , ma il giudice della riparazione non può sottrarsi al confronto con le sentenze di merito di primo e secondo grado che hanno fornito una lettura del tutto diversa delle predette risultanze Il giudice del rinvio dovrà, dunque, spiegare in che termini il comportamento del P. sia stato tale da configurare un contributo sinergico, gravemente colposo, alla emanazione della misura custodiale, rivalutando la richiesta avanzata e tenendo conto del principio già affermato da questa Corte di legittimità che va qui ribadito, secondo cui, in tema di riparazione per l’ingiusta detenzione, la colpa grave, pur potendo essere ravvisata anche in relazione ad un atteggiamento di connivenza passiva allorché esso risulti aver rafforzato la volontà criminosa dell’agente, richiede, tuttavia, per esser accertata, la prova positiva che il connivente fosse a conoscenza dell’attività criminosa dell’agente medesimo così questa Sez. 4, numero 6878 del 17/11/2011 dep. il 2012, Cantarella, Rv. 252725, in relazione ad una fattispecie in cui la Corte ha ritenuto legittimo il rigetto della domanda riparatoria alla luce degli stretti e frequenti collegamenti telefonici tra l’imputata prosciolta e il cognato, personaggio di spicco di un’organizzazione criminale dedita al traffico di stupefacenti . Con specifico riferimento all’ipotesi della connivenza, in relazione al diritto all’equa riparazione, questa Corte, peraltro, già in precedenza, aveva avuto modo di affrontare la problematica della valenza della connivenza stessa ad essere condotta ostativa al riconoscimento della riparazione, riconoscendola 1. nell’ipotesi in cui l’atteggiamento di connivenza sia indice del venir meno di elementari doveri di solidarietà sociale per impedire il verificarsi di gravi danni alle persone o alle cose sez. 4, numero 8993 del 15/1/2003, Lushay, Rv. 223688 2. nel caso in cui la connivenza si concreti non già in un mero comportamento passivo dell’agente riguardo alla consumazione di un reato, ma nel tollerare che tale reato sia consumato, sempreché l’agente sia in grado di impedire la consumazione o la prosecuzione dell’attività criminosa in ragione della sua posizione di garanzia sez. 4, numero 16369 del 18/3/2003, Cardillo, Rv. 224773 3. nell’ipotesi in cui la connivenza passiva risulti aver oggettivamente rafforzato la volontà criminosa dell’agente, sebbene il connivente non intenda perseguire questo effetto in tal caso è necessaria la prova positiva che il connivente fosse a conoscenza dell’attività criminosa dell’agente medesimo sez. 4, numero 42039 dell’8/11/2006, Cambareri, rv. 235397 . E ancora di recente tale principio è stato ribadito in relazione ad un caso in cui è stato ritenuto connotato da colpa grave il comportamento del locatario del capannone, il quale, ben a conoscenza che il locatore usava l’immobile come deposito di pezzi di ricambio per autovetture di provenienza furtiva, continuava ad utilizzare il bene locato per depositarvi oggetti di sua proprietà sez. 4, numero 15745 del 19/2/2015, Di Spirito, Rv. 263139 . P.Q.M. Annulla il provvedimento impugnato con rinvio, per nuovo esame, alla Corte d’Appello di Roma, cui demanda anche il regolamento delle spese tra le parti quanto al presente giudizio di legittimità.