Il divieto di reformatio in peius della pena per i reati satelliti

Il giudice dell’esecuzione, in sede di applicazione del reato continuato, non può quantificare gli aumenti di pena per i reati satellite in misura superiore a quelli fissati dal giudice della cognizione con la sentenza irrevocabile di condanna.

Così si sono espresse le Sezioni Unite Penali della Corte di Cassazione con la sentenza n. 6296/17 depositata il 10 febbraio. La questione. La sentenza in commento dirime il contrasto interpretativo maturato tra le sezioni semplici in ordine al potere del giudice dell’esecuzione, in sede di applicazione della disciplina della continuazione tra reati già giudicati nella fase di cognizione, di aumentare anziché diminuire la pena per i reati satellite, salva la determinazione della pena in misura non superiore alla somma di quelle inflitte con ciascuna sentenza o ciascun decreto, secondo quanto previsto dall’art. 671, comma 2, c.p.p Come è noto, vi sono due orientamenti contrastanti. Secondo il primo di essi, deve escludersi che il giudice dell’esecuzione possa rettificare in aumento le pene inflitte per le singole fattispecie criminose dal giudice della cognizione, mentre secondo il contrario orientamento, è nella potestà del giudice dell’esecuzione quantificare la pena relativa ai reati satellite anche in misura maggiore di quella determinata originariamente, senza che ciò implichi violazione del divieto di reformatio in peius. Il divieto della reformatio in peius. La Corte di Cassazione ha stabilito che è precluso al giudice dell’esecuzione aumentare la pena per i reati satellite stabilita dal giudice, anche restando nei limiti imposti dall’art. 671, comma 2, c.p.p La Suprema Corte ha basato tale decisione su diversi criteri, il primo dei quali di carattere storico nell’intenzione del legislatore del 1988 l’istituto disciplinato dall’art. 671 c.p.p. aveva la funzione di mitigare il regime sanzionatorio risultante dalle sentenze pronunciate dal giudice della cognizione, considerata la difficoltà di pervenire alla celebrazione di processi coinvolgenti plurime condotte riferibili ad un medesimo imputato. In secondo luogo, osserva la Corte, l’art. 671 c.p.c. è norma di confine tra cognizione ordinaria ed esecuzione penale, posto che essa conferisce al giudice dell’esecuzione poteri più incisivi di quelli tradizionalmente riconosciutigli dall’ordinamento, in quanto gli sono demandati poteri di rivalutazione del fatto sostanzialmente analoghi a quelli riservati in sede di cognizione al giudice del processo, pur trattandosi di una potestà di tipo correttivo, subordinata alla decisione del giudice del merito circa ogni accertamento finalizzato all’applicazione della continuazione. A ciò s’aggiunga che il giudizio esecutivo ha carattere sommario, consente un contraddittorio limitato e attribuisce al giudice limitati poteri istruttori che, di fatto, si risolvono nel mero esame della sentenza. Inoltre, proseguono gli Ermellini, l’art. 553, comma 2, c.p.p. pone la regola che, nella determinazione della pena per più reati ritenuti tra loro in continuazione, il giudice provvede ad indicare la sanzione per ciascuno di essi, di tal che – data la natura atomistica dei reati – non è possibile applicare il divieto di reformatio in peius della pena con riferimento solo al complesso derivante dalla continuazione, dovendosi invece fare riferimento a ciascun reato. Si ricorda, peraltro, che in generale e anche nella continuazione la possibilità di non tenere conto del giudicato in punto di trattamento sanzionatorio è strettamente correlata all’esigenza di salvaguardare il principio del favor rei, sicché risulterebbe asistematica un’interpretazione delle disposizioni che consenta l’applicazione di un trattamento sanzionatorio anche solo pro quota più sfavorevole. Da ultimo, nel sistema processuale è previsto che il giudice dell’esecuzione venga adito direttamente dall’interessato, il quale con la domanda delinea l’ambito della conoscenza rimessa al giudice, sicché questi, secondo il principio devolutivo, non può introdurre effetti non domandati, peggiorativi della posizione dell’istante, in assenza di richieste in tal senso della pubblica accusa.

Corte di Cassazione, sez. Unite Penali, sentenza 24 novembre 2016 – 10 febbraio 2017, n. 6296 Presidente Canzio – Relatore Bonito Ritenuto in fatto 1. La Corte di appello di Napoli, accogliendo, in funzione di giudice dell’esecuzione, la richiesta proposta da N.B. , con ordinanza del 26 giugno 2015 riconosceva, ai sensi degli artt. 81, secondo comma, cod. pen., e 671 cod. proc. pen., la continuazione tra i reati in materia di stupefacenti di cui alle sentenze della medesima Corte del 5 ottobre 2011 e del 4 ottobre 2013 - la prima di condanna alla pena di sette anni e sei mesi di reclusione e novemila Euro di multa, la seconda di condanna alla pena di sei anni di reclusione e ventiduemila Euro di multa - e rideterminava la pena, per l’effetto, in undici anni ed otto mesi di reclusione e undicimila Euro di multa la pena complessiva in espiazione essendo pari a tredici anni ed otto mesi di reclusione e trentunomila Euro di multa . Ai fini della quantificazione della pena la Corte territoriale individuava la pena-base in quella inflitta con la prima delle sentenze considerate già portatrice di continuazione interna tra il reato associativo, finalizzato al narcotraffico e quelli relativi alla commercializzazione della sostanza stupefacente, pena richiamata nella sua interezza in assenza di scioglimento del vincolo, ed applicava aumenti di due anni di reclusione e 1000 Euro di multa per ciascuna delle due imputazioni di spaccio di cui alla seconda sentenza, richiamando la gravità delle contestazioni e la protrazione dell’attività criminosa . 2. Avverso tale ordinanza ricorre per cassazione il condannato, assistito dal difensore di fiducia, dolendosi del regolamento sanzionatorio e sviluppando due motivi di impugnazione. 2.1. Col primo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 81 cod. pen., 597 e 671 cod. proc. pen., contestando la legittimità degli aumenti di pena, pari a due anni di reclusione, applicati ai due reati-satellite di cui alla sentenza del 4 ottobre 2013, giacché superiori a quelli decisi dal giudice della cognizione, il quale aveva applicato per ciascuno di essi l’aumento di un anno e quattro mesi. Il giudice dell’esecuzione avrebbe violato il divieto di reformatio in peius , giacché il riconoscimento del vincolo avrebbe dovuto comportare non solo la riduzione del trattamento sanzionatorio finale, ma anche quello riferito a ciascuno dei reati portati in continuazione, e avrebbe alterato il rapporto proporzionale tra le pene quantificate con la prima sentenza in applicazione dell’art. 81 cod. pen., pari ad un anno e sei mesi di reclusione per ciascuna delle condotte giudicate, e quelle difensivamente contestate, tenuto conto della maggiore gravità dei reati giudicati con la sentenza dell’ottobre 2011. 2.2. Col secondo motivo denuncia l’assenza di motivazione in merito all’aumento complessivo di pena, pari a quattro anni di reclusione, ed alle ragioni di siffatto regolamento, tenuto conto che per condotte più gravi il giudice della esecuzione aveva tenuto ferme le pene, meno severe, inflitte dal giudice della cognizione discrasia, questa, che imponeva un adeguato fondamento motivazionale. 3. Con ordinanza del 22 giugno 2016, depositata il 3 agosto successivo, la Prima Sezione ha rimesso il procedimento alle Sezioni Unite, in relazione al contrasto interpretativo maturato tra le sezioni semplici in ordine ai poteri del giudice dell’esecuzione in sede di applicazione della disciplina della continuazione tra reati già giudicati nella fase della cognizione. La questione, in particolare, si sostanzia nel quesito se il giudice dell’esecuzione, salva la determinazione della pena in misura non superiore alla somma di quelle inflitte con ciascuna sentenza o con ciascun decreto , secondo l’esplicito limite posto dall’art. 671, comma 2, cod. proc. pen., possa o meno applicare aumenti di pena per taluni dei reati-satellite in misura superiore alle sanzioni inflitte dal giudice della condanna. Al riguardo, annota la Sezione rimettente, sono in campo due diversi orientamenti. Secondo il primo di essi, deve escludersi che il giudice della esecuzione possa rettificare in aumento le pene inflitte per le singole fattispecie criminose dal giudice della cognizione. Secondo il contrario orientamento, viceversa, è nella potestà del giudice della esecuzione quantificare la pena relativa ai reati-satellite anche in misura maggiore di quella determinata originariamente, senza che ciò implichi violazione del divieto di reformatio in peius . Con l’ordinanza in esame la Prima Sezione esprime adesione a tale secondo orientamento, richiamando a sostegno Sez. U, n. 16208 del 27/03/2014, C., Rv. 258652, che ha valorizzato l’ampiezza dei poteri cognitivi del giudice della esecuzione e ha affermato il principio secondo cui Rv. 258653 non viola il divieto di reformatio in peius previsto dall’art. 597 cod. proc. pen. il giudice dell’impugnazione che, quando muta la struttura del reato continuato come avviene se la regiudicanda satellite diventa quella più grave o cambia la qualificazione giuridica di quest’ultima , apporta per uno dei fatti unificati dall’identità del disegno criminoso un aumento maggiore rispetto a quello ritenuto dal primo giudice, pur non irrogando una pena complessivamente maggiore . 4. Con requisitoria scritta il Procuratore generale presso la Corte di cassazione ha concluso per l’annullamento dell’ordinanza impugnata. In particolare osserva che impropriamente era stata richiamata dalla Sezione rimettente il precedente costituito dalla sentenza Sez. U, n. 42858 del 2014, Gatto, posto che con essa i poteri correttivi del giudice della esecuzione sono stati posti a servizio della tutela dei diritti primari della persona. Osserva altresì che la disciplina in materia di continuazione è ispirata al favor rei e che l’adattamento del giudicato in sede esecutiva non può che flettere a favore del condannato. In tale direzione si pone, infine, la Relazione al testo definitivo del codice di procedura penale, nella quale la fase dell’esecuzione viene valorizzata come strumento di umanizzazione della pena. 5. In data 8 novembre 2016 la difesa ricorrente ha depositato motivi nuovi, sviluppando, maggiormente argomentandoli, i motivi affidati al ricorso principale. Considerato in diritto 1. La questione sottoposta al Collegio può così essere riassunta Se, ai fini della quantificazione della pena in materia di reato continuato, una volta individuato il reato più grave in applicazione del disposto di cui all’art. 187 disp. att. cod. proc. pen., il giudice dell’esecuzione possa quantificare l’aumento di pena relativo ai singoli reati-satellite, già uniti in continuazione dal giudice della cognizione, in misura superiore a quella originariamente indicata, quando il risultato finale della operazione si mantenga nei limiti fissati dal comma 2 dell’art. 671 cod. proc. pen. . 1.1. Al riguardo giova prendere le mosse dal disposto normativo di cui all’art. 671 cod. proc. pen. 1. Nel caso di più sentenze o decreti penali irrevocabili pronunciati in procedimenti distinti contro la stessa persona, il condannato o il pubblico ministero possono chiedere al giudice dell’esecuzione l’applicazione della disciplina del concorso formale o del reato continuato, sempre che la stessa non sia stata esclusa dal giudice della cognizione . - 2. Il giudice dell’esecuzione provvede determinando la pena in misura non superiore alla somma di quelle inflitte con ciascuna sentenza o ciascun decreto . 1.2. Secondo un primo e meno diffuso orientamento giurisprudenziale, la norma richiamata deve essere interpretato nel senso che essa esclude la possibilità di rettificare in aumento la pena inflitta per le singole fattispecie criminose minori. A sostegno di tale conclusione le pronunce di legittimità a valorizzano il principio del favor rei che ispirerebbe l’istituto b evidenziano il dato processuale che è l’interessato a domandare l’applicazione del principio a sentenze rimesse alla sua esclusiva scelta, di guisa che ricorre nella specie la legittima aspettativa dell’intangibilità in peius della decisione c argomentano che, pur in assenza di un disposto normativo espresso, il giudicato è vincolante in sede di esecuzione, e che esso può essere superato soltanto a favore del condannato tra le più recenti Sez. 1, n. 37618 del 01/06/2016, Cavallo, non mass. Sez. 1, n. 3276 del 21/12/2015, dep. 2016, Di Girolamo, Rv. 265909 Sez. 1, n. 31424 del 07/06/72015, Bianco, non mass. Sez. 1, 38331 del 05/06/2014, Fall, Rv. 260903 . 1.3. Secondo il contrario e maggioritario indirizzo esegetico il giudice dell’esecuzione è vincolato alla individuazione del reato più grave ed alla pena per esso stabilita, senza che analogo vincolo ricorra quanto al trattamento sanzionatorio relativo ai reati-satellite, per i quali può pertanto rideterminare la pena in misura superiore a quella inflitta in sede di cognizione. A sostegno della tesi si richiama il dettato normativo dell’art. 671, comma 2, cod. proc. pen., il quale fa riferimento al solo limite della entità complessiva della pena inflitta col singolo titolo dedotto per la continuazione, e si assume che siffatta operazione non viola il divieto di reformatio in peius tra le più recenti Sez. 1, n. 24117 del 19/02/2016, De Cesare, non mass. Sez. 1, n. 29941 del 11/11/2015, Tomassetti, non mass. Sez. 1, n. 29939 del 29/10/2015, dep. 2016, Afeltra Sez. 5, n. 7432 del 27/09/2013, Selis, Rv. 259508 Sez. 2, n. 43768 del 08/10/2012, Bacio Terracino, Rv. 257664 . 2. La disciplina della continuazione e quella del concorso formale applicabili in sede esecutiva rappresentano una novità assoluta del codice di rito del 1988 rispetto all’ordinamento passato, giustificata dalla considerazione che il novellato rito, attesa la sua natura accusatoria, si caratterizza per lo sfavore nei confronti dei c.d. maxiprocessi e per la drastica riduzione delle ipotesi di riunione processuale per connessione in sede di cognizione. Di qui la necessità di contemperare siffatti principi regolatori, propri del rito accusatorio, con l’esigenza di evitare pregiudizio a carico degli imputati di vari fatti-reato, i quali, ancorché inseriti in precisi ed analoghi contesti di luogo e di tempo, siano separatamente giudicati. In altri termini, è stata rimessa alla sede esecutiva la possibilità di recuperare, in favor rei, l’operatività del vincolo della continuazione, consentendo l’applicazione di una più mite disciplina rispetto al cumulo materiale in ipotesi di più condotte passate in giudicato ma separatamente giudicate intento ulteriormente perseguito con la novella legislativa recata dal d.l. n. 367 del 1991, convertito dalla legge n. 8 del 1992, che ha inserito la continuazione tra le ipotesi di connessione ex art. 12 cod. proc. pen. giustificative della riunione di procedimenti . Di qui un primo criterio di giudizio utile nella specie, quello storico, poiché l’istituto disciplinato dall’art. 671 cod. proc. pen., nella intenzione del legislatore, ha la funzione di mitigare il regime sanzionatorio riveniente dalle sentenze pronunciate dal giudice della cognizione, considerata la difficoltà, attesa la natura del processo accusatorio, di pervenire alla celebrazione di processi complessi e coinvolgenti plurime condotte riferibili ad un medesimo imputato, difficoltà che il legislatore non ha inteso far gravare su quest’ultimo. In tal senso, già Corte cost., ord. n. 56 del 2010, efficacemente sottolineava come le previsioni dell’art. 671 cod. proc. pen. rendano palese e attuino l’intenzione del legislatore di agevolare, senza pregiudizio per le garanzie difensive, lo svolgimento di processi separati, quando la riunione potrebbe ritardarne la definizione, in conformità con il precetto costituzionale di ragionevole durata art. 111, secondo comma, Cost. . E Corte cost., sent. n. 183 del 2013, ribadiva come proprio il favor separationis che ispira il sistema processuale di tipo accusatorio aveva reso particolarmente acuta la necessità di introdurre strumenti atti ad evitare l’irrimediabile perdita dei vantaggi derivanti dalla continuazione cumulo giuridico delle pene da parte dell’imputato che, in quanto giudicato separatamente anziché cumulativamente per i singoli episodi criminosi, si fosse vista preclusa la possibilità di una valutazione globale della sua posizione in sede cognitiva, con evidente pregiudizio di posizioni costituzionalmente presidiate, a cominciare dal principio di eguaglianza art. 3 Cost. . 2.1. Va poi rammentato che l’art. 671 cod. proc. pen. viene tradizionalmente ritenuto norma di confine tra cognizione ordinaria ed esecuzione penale, posto che essa conferisce al giudice dell’esecuzione poteri più incisivi di quelli tradizionalmente riconosciutigli dall’ordinamento come ad esempio in materia di amnistia, indulto, verifica del divieto di bis in idem ecc. , in quanto gli sono demandati poteri di rivalutazione del fatto sostanzialmente analoghi a quelli riservati in sede di cognizione al giudice del processo, quanto alla ricostruzione della continuazione cfr. Corte cost. n. 183 del 2013, cit., che, sulla scorta di considerazioni analoghe, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli articoli 34, comma 1, e 623, comma 1, lett. a , cod. proc. pen., nella parte in cui non prevedono che non possa partecipare al giudizio di rinvio dopo l’annullamento il giudice che ha pronunciato o concorso a pronunciare ordinanza di accoglimento o rigetto della richiesta di applicazione in sede esecutiva della disciplina del reato continuato o del concorso formale, ai sensi dell’art. 671 del medesimo codice . Trattasi, comunque, di una potestà di tipo correttivo, rimessa in executivis , pur sempre subordinata alla decisione del giudice del processo circa ogni accertamento finalizzato all’applicazione della continuazione. Di qui una seconda ragione di giudizio. L’intervento del giudice dell’esecuzione ha natura sussidiaria e giammai può contrastare le decisioni del giudice del processo. A tale proposito non può ritenersi privo di rilievo valorizzare la natura del giudizio esecutivo, il suo carattere sommario, il limitato contraddittorio che lo caratterizza, i limiti istruttori riconosciuti dall’ordinamento al giudice della esecuzione, il quale non può recepire i profili di conoscenza del fatto e della colpevolezza propri del processo ordinario. Di regola, anzi, il giudice della esecuzione limita la sua cognizione all’esame delle sentenze e questo rende incongrua una valutazione di maggiore gravità dei fatti portati in continuazione tanto presuppone l’aumento delle relative sanzioni rispetto a quella del giudice della cognizione. 2.2. Vi è poi un aspetto sistemico che merita di essere approfondito e valorizzato ai fini della presente decisione. L’art. 533, comma 2, cod. proc. pen., pone la regola che, nella determinazione della pena per più reati ritenuti tra loro in continuazione, il giudice provvede ad indicare la sanzione per ciascuno di essi. Il reato continuato infatti, pur avendo natura unitaria, conserva la sua sostanza atomistica sicché quando, in sede esecutiva, interviene la necessità di applicare particolari istituti, ciascun reato riacquista la sua autonomia. Si pensi all’applicazione dell’amnistia e dell’indulto, alla estinzione delle misure cautelari personali per decorso della durata massima dei relativi termini, alla disciplina ostativa al riconoscimento delle misure alternative al carcere. Di qui il rilievo connesso alla entità della sanzione riferita a ciascun reato portato in continuazione e, altresì, la incongruità di sistema di vedere peggiorato in sede esecutiva, all’esito di una cognizione sommaria, il trattamento sanzionatorio e, con esso, di vedere preclusi una serie di diritti riconosciuti dall’ordinamento in favore dei detenuti, rivendicabili se applicata la sentenza del giudice della cognizione passata in giudicato e, viceversa, non più tutelabili a seguito di una pronuncia in peius resa in executivis . 3. Deve a questo punto affrontarsi il rapporto tra la disciplina dettata all’art. 671 cod. proc. pen. e l’istituto del giudicato, posto che è questa una delle ipotesi in cui l’ordinamento consente la modifica di una decisione processuale assunta con sentenza passata in giudicato. 3.1. Sulla intangibilità del giudicato, dogma e punto fermo della teoria generale del processo, la giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte di cassazione va ormai delineando un sistema volto alla tutela dei diritti di libertà e al perseguimento di decisioni giuste non solo perché rispettose della legge, ma perché percepibili come sostanzialmente tali dal comune senso di giustizia. La riconosciuta cedevolezza del giudicato è stata applicata sempre e soltanto in favore del condannato e mai contro, di guisa che l’opzione favorevole alla possibilità di una decisione in peius del giudice dell’esecuzione, chiamato a determinare la sanzione del reato-satellite nella situazione data dal ricorso in esame, si appalesa contraria all’attuale fase evolutiva del diritto penale e processuale. È sufficiente al riguardo richiamare Sez. U, n. 4258 del 29/05/2014, Gatto, Rv. 260196, che a sua volta richiama Sez. U, n. 7682 del 21/06/1986, Nicolini, Rv. 173419 e Corte cost. n. 115 del 1987, per ribadire che non solo, in tema di continuazione, la possibilità di non tenere conto del giudicato in punto di trattamento sanzionatorio è strettamente correlata all’esigenza di salvaguardare il principio del favor rei, ma che già, in via generale, è proprio il principio di autorità del giudicato ad essere tendenzialmente ispirato alla medesima esigenza. Sicché sarebbe doppiamente asistematica una interpretazione delle disposizioni che consentono il superamento del giudicato al fine del riconoscimento della continuazione in sede esecutiva verso un approdo tale da facoltizzare l’applicazione di un trattamento sanzionatorio anche solo pro quota più sfavorevole. 3.2. V’è poi un ulteriore aspetto che merita approfondimento, relativo alla valutazione se, nella ipotesi data, possa legittimamente sostenersi che venga in considerazione il divieto di reformatio in peius . Va osservato sul punto che il modello processuale delineato dagli artt. 666 e ss. cod. proc. pen. prevede che il giudice dell’esecuzione venga adito direttamente dall’interessato, il quale con la domanda delinea l’ambito della conoscenza rimessa al giudice, sicché questi, secondo il principio devolutivo, non può introdurre effetti non domandati, peggiorativi della posizione dell’istante, in assenza di richieste in tal senso della pubblica accusa. Né appare congruo, in contrario, il richiamo all’insegnamento delle Sezioni Unite sviluppato con la sentenza n. 16208 del 27/03/2014, C., Rv. 258653. Tra la fattispecie sottoposta al giudizio della Corte e quella valutata dalla pronuncia appena evocata ricorrono infatti differenze di decisiva rilevanza ai fini delle correlate delibazioni. Procedendo con ordine appare opportuno ribadire la massima della evocata sentenza Non viola il divieto di reformatio in peius previsto dall’art. 597 cod. proc. pen. il giudice dell’impugnazione che, quando muta la struttura del reato continuato come avviene se la regiudicanda satellite diventa quella più grave o cambia la qualificazione giuridica di quest’ultima , apporta per uno dei fatti unificati dall’identità del disegno criminoso un aumento maggiore rispetto a quello ritenuto dal primo giudice, pur non irrogando una pena complessivamente maggiore . Orbene, la Corte è pervenuta a tale principio di diritto in applicazione dell’art. 597 cod. proc. pen., ovverosia interpretando una norma che disciplina la posizione del giudice di secondo grado, il quale ha cognizione piena del fatto, del grado di colpevolezza dell’imputato ed è adito al fine specifico di sindacare le ragioni poste dal giudice di primo grado a sostegno della sua decisione. Nella ipotesi che viene invece ora alla valutazione del Collegio, il giudice è quello della fase esecutiva, il quale è privo di quel grado di conoscenza del fatto e della colpevolezza dell’imputato proprie del giudice della cognizione. Le strutturali diversità appena evidenziate comportano, come ineludibile conseguenza, che rientra nello schema giuridico del giudizio di merito e della fase di gravame la possibilità, per il giudice dell’appello, di ritenere più o meno grave una condotta e, con riferimento all’art. 597 cod. proc. pen., fermo restando il limite massimo, in tale ambito graduare le pene in misura diversa da quella fissata dal giudice di primo grado potestà viceversa inibite al giudice dell’esecuzione nell’applicazione della disciplina di cui all’art. 671 cod. proc. pen. per le ragioni esposte. 4. In conclusione, alla stregua di quanto sin qui argomentato, va enunciato il seguente principio di diritto Il giudice dell’esecuzione, in sede di applicazione della disciplina del reato continuato, non può quantificare gli aumenti di pena per i reati-satellite in misura superiore a quelli fissati dal giudice della cognizione con la sentenza irrevocabile di condanna . 5. L’ordinanza in scrutinio ha provveduto all’applicazione della disciplina della continuazione di cui all’art. 81, secondo comma, cod. pen., in sede esecutiva, e quindi a mente dell’art. 671 cod. proc. pen., dapprima individuando la pena-base in quella inflitta con la prima delle sentenze dedotte, quella del 5 ottobre 2011, e poi determinando in due anni di reclusione, al netto della riduzione per il rito, la pena per i due reati separatamente giudicati con la sentenza del 4 ottobre 2013 e portati in continuazione. In sede di cognizione, con entrambe le sentenze richiamate il giudice del processo ordinario aveva provveduto ad applicare la continuazione ai reati giudicati, c.d. continuazione interna, e quello della seconda sentenza aveva determinato la pena per la condotta-satellite in un anno e quattro mesi, in misura meno severa rispetto a quella del giudice dell’esecuzione. Di qui la violazione di legge denunciata dalla difesa col primo motivo di impugnazione, che va ritenuto fondato, giacché l’aumento di pena indicato dal giudice della esecuzione confligge col principio di diritto appena enunciato. 6. L’ordinanza impugnata va pertanto annullata limitatamente al trattamento sanzionatorio del reato continuato ritenuto dal giudice della esecuzione, con rinvio per consentire al giudice territoriale, in diversa composizione, una nuova decisione coerente con il principio di diritto sopra enunciato e nel rispetto delle seguenti regole e scansioni procedimentali a individuazione del reato più grave ai sensi dell’art. 187 disp. att. cod. proc. pen., previo scioglimento a tali fini della continuazione interna applicata con le due sentenze dedotte erroneamente il giudice della esecuzione, nella specie, ha assunto come pena più grave quella inflitta per il reato continuato giudicato con la prima sentenza, senza distinguere le pene riferibili a ciascun reato in essa portato in continuazione b applicazione degli aumenti di pena per le singole condotte di reato in misura comunque non superiore a quella indicata dal giudice della cognizione con la sentenza irrevocabile di condanna e con quella, altresì, comunque indicata dal giudice a quo con l’ordinanza annullata. Ogni altra doglianza rimane assorbita dall’accoglimento del principale motivo di impugnazione. P.Q.M. Annulla l’ordinanza impugnata e rinvia alla Corte di appello di Napoli per la rideterminazione delle pene.