Derubricazione del reato: il Giudice d'appello non è vincolato alla prima sentenza

Il giudice di appello, il quale proceda alla derubricazione del reato per cui vi era stata condanna in primo grado in altra meno grave, non deve necessariamente attestarsi sulla pena stabilita dal primo giudice, ma deve valutare autonomamente la nuova fattispecie, ferma restando l’impossibilità di applicare una pena più grave se l’appello è proposto dal solo imputato, secondo il principio generale stabilito dall’art. 597, comma 3, c.p.p

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 26784, depositata in cancelleria il 28 giugno 2016, decide quanto segue. Il caso. La Corte d’appello di Milano confermava la sentenza emessa dal gip del Tribunale locale, appellata dai ricorrenti, dichiarati responsabili del delitto di falso per induzione in errore degli agenti di polizia penitenziaria addetti al controllo, all’autorizzazione e alla registrazione degli ingressi in una casa di reclusione di Milano, ai quali avevano affermato, falsamente, che il primo fosse collaboratore dell’altro, onorevole, e conseguentemente condannati alla pena di 2 anni di reclusione, l’uno, e due anni e 8 mesi di reclusione, l’altro. La Corte di Cassazione, previa qualificazione del fatto ai sensi dell’art. 483 c.p., annullava la predetta pronuncia limitatamente al trattamento sanzionatorio con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Milano, la quale determinava la pena nei confronti del primo imputato in 6 mesi di reclusione e nei confronti del secondo in 8 mesi di reclusione. Avverso quest’ultima sentenza hanno proposto ricorso per cassazione entrambi. L’aggravamento del trattamento sanzionatorio. Con un unico motivo, il primo imputato ha denunciato la mancata concessione delle attenuanti generiche, aggiungendo che la possibile concessione delle attenuanti in parola è tema che rientrava certamente nel trattamento sanzionatorio il secondo, invece, ha rilevato carenza assoluta di motivazione ricavabile dal testo stesso del provvedimento impugnato, in relazione all’aggravamento del trattamento sanzionatorio disposto con la sentenza di secondo grado, in assenza di appello del pm e, pertanto, in violazione del divieto di reformatio in peius . Con il secondo motivo, lo stesso denuncia la mancata concessione della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna nel certificato penale. Secondo la Suprema Corte i ricorsi meritano accoglimento, ma nei seguenti limiti. Quanto alla posizione del primo imputato, il motivo relativo al trattamento sanzionatorio è infondato. La Corte ha ritenuto infatti che, ai fini del trattamento sanzionatorio, è sufficiente che il giudice di merito prenda in esame, tra gli elementi indicati nell’art. 133 c.p., quello che ritiene atto a consigliare la determinazione della pena, e il relativo apprezzamento discrezionale non è censurabile in sede di legittimità. Merita, invece, accoglimento il motivo della mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche, atteso che, nella sentenza di rinvio, non vi è stata alcuna valutazione in merito al beneficio richiesto. Il motivo relativo all’aggravamento del trattamento sanzionatorio è invece infondato. E’, infatti, principio del tutto pacifico quello secondo cui il giudice di appello, il quale proceda alla derubricazione del reato per cui vi era stata condanna in primo grado in altra meno grave, non deve necessariamente attestarsi sulla pena stabilita dal primo giudice, ma deve valutare autonomamente la nuova fattispecie, ferma restando l’impossibilità di applicare una pena più grave se l’appello è proposto dal solo imputato, secondo il principio generale stabilito dall’art. 597, comma 3, c.p.p. . Merita accoglimento anche il motivo relativo alla concessione della sospensione condizionale della pena che non ha formato oggetto di valutazione alcuna da parte del giudice del rinvio. La Corte annulla pertanto la sentenza impugnata nei limiti esposti.

Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 4 maggio – 28 giugno 2016, n. 26784 Presidente Bonito – Relatore Talerico Ritenuto in fatto 1. Con sentenza in data 9 aprile 2013, la Corte di appello di Milano confermava la pronuncia emessa in data 11 luglio 2012 dal Giudice per le indagini preliminari del locale Tribunale, appellata da T.G. e F.R., dichiarati responsabili, all'esito del giudizio abbreviato, del delitto di falso per induzione in errore degli agenti di polizia penitenziaria addetti al controllo, all'autorizzazione e alla registrazione degli ingressi nella casa di reclusione di Milano Opera, ai quali avevano affermato falsamente, con la sottoscrizione di apposito modulo, che il T. era collaboratore dell'onorevole F., con rapporto stabile e continuativo e qualifica di consulente rapporti umani e, conseguentemente condannati, rispettivamente, alla pena di anni due di reclusione e di anni due, mesi otto di reclusione. Con sentenza del 12 novembre 2014, la Corte di cassazione, previa qualificazione del fatto ai sensi dell'art. 483 cod. pen., annullava la predetta pronuncia limitatamente al trattamento sanzionatorio con rinvio, per nuovo giudizio sul punto, ad altra sezione della Corte di appello di Milano, la quale, in data 22 giugno 2015, determinava la pena nei confronti del T. in mesi sei di reclusione e nei confronti del F. in mesi otto di reclusione. 2. Avverso quest'ultima sentenza hanno proposto ricorso per cassazione gli imputati, per il tramite dei rispettivi difensori di fiducia. 2.1. Con un unico motivo, il T. ha denunciato difetto di motivazione in relazione agli artt. 133 e 62 bis cod. pen., evidenziando, con riguardo alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche - già richieste nei motivi di appello - che il giudice del rinvio avrebbe omesso qualsiasi motivazione sul punto ha, inoltre, aggiunto che la possibile concessione delle attenuanti in parola è tema che rientrava certamente nel trattamento sanzionatorio, avendo la Corte di cassazione accolto preliminarmente il motivo di ricorso concernente la qualificazione giuridica del fatto, nel quale rimaneva assorbito ogni valutazione circa le qualità personali e le caratteristiche oggettive del fatto da valutarsi ai fini della determinazione della pena. 2.2. Con il primo motivo di ricorso, il F. ha denunciato violazione dell'art. 597, comma 2, cod. proc. pen., nonché carenza assoluta di motivazione ricavabile dal testo stesso del provvedimento impugnato con riferimento all'art. 606, lett. b , c ed e cod. proc. pen. in relazione all'aggravamento del trattamento sanzionatorio disposto con la sentenza di secondo grado in assenza di appello del Pubblico Ministero e, pertanto, in violazione del divieto di reformatio in peius . E' stato osservato che, secondo consolidata giurisprudenza della Corte di cassazione, il rispetto, da parte del giudice di appello, del divieto della reformatio in peuis deve valutarsi mediante la comparazione non soltanto della pena finale applicata nei diversi gradi di giudizio, ma anche dei criteri seguiti dai giudici di merito per la commisurazione della pena fra il minimo e il massimo edittale o, comunque, fra il minimo e il massimo degli aumenti e delle diminuzioni previste per la continuazione e le circostanze del reato che nel caso di specie, sarebbe agevole verificare che nel primo giudizio, in relazione alla originaria contestazione di falsità ideologica per induzione in atto pubblico fidefacente, il giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Milano aveva determinato la pena base da infliggere all'imputato in misura prossima al minimo edittale anni quattro di reclusione e, comunque, significativamente inferiore alla metà del massimo della pena prevista per detto reato punito con la reclusione da tre a dieci anni che inspiegabilmente il giudice del rinvio, nel determinare la pena per il reato così come riqualificato dalla Corte di cassazione avrebbe decisamente inasprito i criteri di commisurazione della pena tra minimo e massimo edittale, determinandola in misura addirittura coincidente con la metà del massimo anni uno di reclusione rispetto alla pena edittale prevista per detto reato fino ad anni due di reclusione senza fornire al riguardo alcuna spiegazione e per di più omettendo totalmente di rispondere alle censure difensive formulate nell'atto di appello in relazione al trattamento sanzionatorio applicato all'imputato. 2.3. Con il secondo motivo, il F. ha denunciato violazione degli artt. 164 e 175 cod. pen., nonché carenza assoluta di motivazione ricavabile dal testo stesso del provvedimento impugnato con riferimento all'at. 606, lett. b ed e cod. proc. pen. in relazione alla mancata concessione della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna nel certificato penale a seguito della riqualificazione del fatto operata dalla Corte di cassazione e dell'applicazione di un trattamento sanzionatorio chiaramente compatibile con la concessione di entrambi i benefici, sarebbe stato compito del giudice affrontare esplicitamente il motivo di appello relativo agli invocati benefici e verificare l'esistenza o meno delle condizioni previste dalla legge per la loro concessione. Considerato in diritto 1. I ricorsi meritano accoglimento nei limiti e per le ragioni di seguito esplicitate. 2. Quanto alla posizione di T.G., il motivo relativo al trattamento sanzionatorio è infondato, atteso che la sentenza impugnata ha espressamente richiamato i criteri di cui all'art. 133 cod. pen. Va, in proposito, ricordato che, ai fini del trattamento sanzionatorio, è sufficiente che il giudice di merito prenda in esame, tra gli elementi indicati dall'art. 133 c.p., quello o quelli che ritiene prevalente e atto a consigliare la determinazione della pena e il relativo apprezzamento discrezionale, laddove supportato da una motivazione congrua a far emergere in misura sufficiente il pensiero dello stesso giudice circa l'adeguamento della pena concreta all'entità effettiva del fatto e alla personalità dell'imputato reo, non è censurabile in sede di legittimità. Ciò tanto più nel caso in cui la pena venga irrogata, come nella fattispecie, in misura di poco superiore al minimo edittale mesi nove di reclusione , in quanto l'obbligo di motivazione del giudice si attenua, sicché è sufficiente anche il richiamo a criteri di adeguatezza, nel quale sono impliciti gli elementi di cui all'art. 133 cod. pen 3. Merita, invece, accoglimento, il motivo relativo alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche, atteso che nella sentenza di rinvio non vi è stata alcuna valutazione in merito al chiesto beneficio. 4. Quanto alla posizione del F., il motivo relativo al trattamento sanzionatorio è infondato. Premesso che il giudice del rinvio ha adeguatamente motivato in ordine alla determinazione della pena inflitta all'imputato in relazione al reato di cui all'art. 483 cod. pen. - così come riqualificata l'accertata condotta delittuosa posta in essere dal predetto imputato - facendo riferimento ai precedenti penali del F., al ruolo istituzionale rivestito dallo stesso al momento del fatto e all'uso strumentale della funzione ricoperta dal medesimo, ritiene il Collegio che non sussiste la lamentata violazione del principio del divieto di reformatio in peius. Come si è cennato, sostiene il ricorrente che il giudice del rinvio - nel procedere alla determinazione della pena a seguito della qualificazione giuridica del fatto accertato ai sensi dell'art. 483 del codice penale - avrebbe dovuto, per non incorrere nella denunciata violazione di legge, rispettare i medesimi criteri aritmetici seguiti nella sentenza annullata in quest'ultima pronuncia, infatti, era stata inflitta al F. per il più grave delitto originariamente contestato una pena di poco superiore al minimo edittale anni quattro di reclusione rispetto a una pena edittale da tre a dieci anni di reclusione , mentre nella sentenza impugnata la pena era stata determinata in misura coincidente con la metà del massimo della pena edittale. Tale tesi non può tuttavia trovare accoglimento. E infatti, è principio del tutto pacifico quello secondo cui il giudice di appello, il quale proceda alla derubricazione del reato per cui vi era stata condanna in primo grado in altra meno grave, non deve necessariamente attestarsi sulla pena stabilita dal primo giudice, rispettandone i criteri aritmetici e di proporzionalità, ma deve valutare autonomamente la nuova fattispecie, ferma restando l'impossibilità di applicare una pena più grave se l'appello è proposto dal solo imputato, secondo il principio generale stabilito dall'articolo 597, comma 3, cod. proc. pen. cfr. per casi analoghi Sez. 2, n. 46830 del 21/11/2003 Rv. 228673 Sez. 6, n. 25256 del 24/02/2015, Rv. 265172 Sez. 4, n. 44799 del 08/10/2015, Rv. 265761 . 5. Del pari infondata è la censura relativa alla mancata applicazione in favore del F. della non menzione della condanna nel certificato penale. E infatti, la non menzione - come risulta espressamente dall'articolo 175 cod. pen. - può essere ordinata solo per la prima condanna, con cui sia stata inflitta una pena detentiva non superiore a due anni ovvero una pena pecuniaria non superiore a euro 516 conseguentemente, la persona che abbia in precedenza riportato altre condanne è esclusa dal suddetto beneficio. Ed è proprio questa la situazione in cui versa il ricorrente il quale - come risulta dalla sentenza impugnata - ha in precedenza riportato condanne per reati commessi anteriormente a quello per cui è processo. 6. Merita, invece, accoglimento il motivo relativo alla concessione della sospensione condizionale della pena che non ha formato oggetto di valutazione alcuna da parte del giudice del rinvio, così che ricorre, nel caso concreto, il vizio di assoluta mancanza della motivazione su tale punto della decisione. 7. Per le ragioni esposte, la sentenza impugnata va annullata nei limiti indicati, con rinvio per nuovo giudizio sui predetti punti ad altra sezione della Corte di appello di Milano. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata limitatamente alle attenuanti generiche in relazione a T.G. e limitatamente alla sospensione condizionale della pena in relazione a F.R. e rinvia, per nuovo giudizio su tali punti, ad altra sezione della Corte di appello d Milano. Rigetta nel resto i ricorsi.