È onere dell’amministratore indicare i beni della società da sottoporre a confisca, se vuole evitare che sia colpito il proprio patrimonio personale

L’amministratore di una società condannata per reati fiscali ha l’onere di allegazione e di prova di indicare i beni sui quali sia possibile disporre la confisca diretta nei confronti della società, in difetto non può dolersi del fatto che siano stati sottoposti a sequestro per equivalente beni nella sua disponibilità, anziché quelli costituenti il profitto del reato e asseritamente reperibili presso la persona giuridica.

Questo l’importante chiarimento contenuto nella pronuncia n. 42966/15 della Terza Sezione, sulla sussidiarietà del sequestro per equivalente in danno dell’amministratore rispetto al sequestro diretto del profitto in danno della società. I principi delle Sezioni Unite Gubert. La comprensione della rilevanza, invero non marginale, della pronuncia in commento deve necessariamente prendere le mosse dai principi in diritto dettati dalla ormai nota sentenza Gubert Cass. SS.UU., n. 10561/2014 , che anche nella pronuncia in commento viene richiamata come leading case . La pronuncia a Sezioni Unite del 2014 ha infatti chiarito che non è consentito il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente nei confronti di una persona giuridica qualora non sia stato reperito, nella disponibilità della stessa, il profitto del reato tributario compiuto dagli organi della persona giuridica, salvo che la persona giuridica sia stata utilizzata dagli stessi come un mero schermo fittizio. Per contro, tuttavia, sempre tale pronuncia ha affermato che è consentito, nei confronti di una persona giuridica, il sequestro preventivo finalizzato alla confisca di denaro o di altri beni fungibili o di beni direttamente riconducibili al profitto del reato tributario c.d. sequestro diretto commesso dagli organi della persona giuridica stessa, quando tale profitto o beni direttamente riconducibili al profitto sia nella disponibilità di tale ente. Non è, invece, consentito il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente nei confronti degli amministratori della società per reati tributari da costoro commessi, quando sia possibile il sequestro c.d. diretto” finalizzato alla confisca di denaro o di altri beni fungibili o di beni direttamente riconducibili al profitto del reato tributario compiuto dagli organi della persona giuridica stessa in capo a costoro o a persona compresa quella giuridica non estranea al reato. Come noto l’impossibilità del sequestro diretto del profitto del reato può essere anche solo transitoria, senza che sia necessaria la preventiva ricerca generalizzata dei beni costituenti il profitto del reato. I limiti al sequestro dei beni in danno della persona giuridica. La conseguenza della affermazione dei suddetti principi è che, eccezion fatta per il caso in cui la società sia utilizzata come mero schermo fittizio, l’unica via per disporre il sequestro e, quindi, la successiva confisca dei beni della persona giuridica costituenti il profitto dei reati tributari consiste nel rinvenire e, dunque, nel provare che nella disponibilità della medesima vi sia ancora il profitto del reato. Tale prova viene resa ancora più difficile dal rilievo che assai spesso, in caso di reati tributari, il profitto del reato è costituito da un mero risparmio di spesa e non dall’ingresso di nuovo denaro o beni nelle casse delle società. Detto limite nasce, come noto, dal mancato inserimento dei reati tributari nel novero di quelli per cui è configurabile una responsabilità amministrativa dell’ente ai sensi del d.lgs. n. 231/2001. Limite la cui irragionevolezza è stata segnalata anche dalle stesse Sezioni unite Gubert, che hanno auspicato sul punto un intervento del legislatore per colmare l’evidente lacuna. Il denaro nella disponibilità della persona giuridica. È, purtuttavia, vero che, secondo la giurisprudenza della Cassazione Cass., sez. III Penale, sentenza n. 30484/15, depositata il 15 luglio 2015 , qualora il profitto del reato sia costituito da denaro, l’adozione del sequestro preventivo finalizzato alla confisca non è subordinato alla verifica che le somme provengano dal delitto e siano confluite nella effettiva disponibilità dell’indagato, in quanto il denaro oggetto dell’ablazione, quale bene fungibile, deve solo equivalere all’importo che corrisponde per valore al profitto del reato. Con la conseguenza che, nel caso di reato tributario di omesso versamento di somme di denaro all’Erario, come nell’ipotesi in esame – in cui il profitto si identifica nel risparmio di spesa conseguito dal soggetto obbligato –, se nelle casse di detto soggetto, e dunque della persona giuridica, viene rinvenuto del denaro, bene fungibile per eccellenza, detto denaro costituisce profitto del reato e, in quanto tale, è suscettibile di sequestro diretto finalizzato alla confisca, ancor prima che di sequestro per equivalente. Correttamente, dunque, in tale caso si procede alla confisca diretta di somme rinvenute nella disponibilità della persona giuridica nel cui interesse era stato commesso il reato tributario. Proprio su tali principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità si fondava il terzo ed ultimo, ma invero più significativo, motivo di ricorso dell’imputato. Lo stesso, condannato per violazione degli artt. 2 e 10 quater, d.lgs. n. 74/2000, lamentava di aver subito la confisca per equivalente di propri beni personali, quale amministratore della società nel cui interesse erano stati commessi i reati, senza che i giudici di appello avessero in sede di motivazione chiarito, nonostante la specifica doglianza già sollevata in quella sede, perché, in ossequio alla citata giurisprudenza, non era stato possibile procedere al sequestro diretto ed alla conseguente confisca del patrimonio della società e si era, dunque, proceduto a colpire, in via equivalente, il patrimonio personale del legale rappresentante dell’ente. Limiti all’annullamento per mancato esame di un motivo di gravame. La Cassazione esplicitamente investita sul punto non può fare altro che constatare come effettivamente, nella decisione impugnata, la motivazione sul punto fosse del tutto carente. La decisione della Suprema Corte, tuttavia, non è, come ci si potrebbe attendere, di annullamento con rinvio. Ricorda, infatti, la Cassazione che la mancata motivazione della Corte d’appello su uno dei motivi sollevati dal condannato non sempre e necessariamente implica l’annullamento della sentenza censurata. In particolare, ciò non deve accadere quando la doglianza, se astrattamente esaminata, non sarebbe stata suscettibile di accoglimento, in quanto, in tal caso, l’omessa motivazione sul punto non arreca alcun danno alla parte che ne lamenta l’omissione. L’esito nel caso in esame. Sulla base di tale premessa la Corte passa ad esaminare se la doglianza sollevata in Corte d’appello e dalla medesima non esaminata sarebbe stato o meno suscettibile di accoglimento, in quanto, osservano gli Ermellini, trattasi di questione in diritto alla cui omissione può porre rimedio la stessa Corte di Cassazione, quale giudice di legittimità ai sensi dell’art. 619, c.p.p Rileva sul punto la Corte che in capo all’imputato esiste un vero e proprio onere di allegazione e di prova di indicare i beni nella disponibilità della società sui quali sia possibile disporre la confisca diretta, e allorché detto onere di prova ed allegazione non sia, come nel caso di specie, osservato, la doglianza che siano stati sottoposti a sequestro per equivalente beni nella propria disponibilità senza preventiva escussione del profitto del reato nella disponibilità della persona giuridica costituisce una censura generica, priva di specificità e dunque inammissibile, con conseguente declaratoria di inammissibilità anche per il proposto ricorso. Il principio di diritto è pregno di conseguenze concrete se il legale rappresentante di una società vuole evitare di essere colpito da sequestro per equivalente sui propri beni, a seguito di condanna per reati tributari commessi nell’interesse della persona giuridica, dovrà assolvere all’onere probatorio di indicare quali beni nella disponibilità della società potevano essere assoggettati a sequestro diretto, siccome costituenti profitto del reato.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 10 giugno – 26 ottobre 2015, n. 42966 Presidente Fiale – Relatore Di Nicola Ritenuto in fatto 1. K.J.A. ricorre per cassazione impugnando la sentenza indicata in epigrafe con la quale la Corte di appello di Torino, in parziale riforma della pronuncia resa dal tribunale della medesima città, ha rideterminato la pena, già condizionalmente sospesa, inflitta al ricorrente in anni uno, mesi uno e giorni dieci di reclusione per il reato capo a previsto dall'articolo 2 decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74 perché, in qualità di amministratore unico di Residenza del Sole S.r.l., al fine di evadere l'Iva, avvalendosi di fatture per operazioni inesistenti emesse da Sesto Grado S.r.l. dichiarava nella dichiarazione fiscale modello unico società di capitali relativi al periodo di imposta 2006 elementi passivi fittizi. Commesso in Torino in data 28 dicembre 2007 nonché del reato capo b previsto dagli articoli 81 capoverso codice penale, 10 quater decreto legislativo n. 74 del 2000 perché, con più azioni esecutive di uno medesimo disegno criminoso, in qualità di amministratore unico di Residenza Del Sole S.r.l., non versava le somme dovute, utilizzando in compensazione negli anni 2007, 2008 e 2009, ai sensi dell'articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, numero 241, crediti Iva non spettanti o inesistenti pari ad Euro 166.010,01 nell'anno 2007, Euro 255.131,75 nell'anno 2008 ed Euro 195.378,51 nell'anno 2009, importi superiori alla soglia di punibilità di 50.000 Euro. In Torino dal maggio 2007 al dicembre 2009. 2. Per la cassazione dell'impugnata sentenza il ricorrente, tramite il difensore, ha articolato i tre seguenti motivi di gravame, qui enunciati, ai sensi dell'articolo 173 disposizioni di attuazione al codice di procedura penale, nei limiti strettamente necessari per la motivazione. 2.1. Con il primo motivo il ricorrente deduce la mancanza, la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione in punto di qualificazione dell'operazione di cessione immobiliare di cui alla fattura n. 75 del 2006, emittente Sesto Grado S.r.l., come inesistente. Assume il ricorrente come l'impugnata sentenza, sinteticamente richiamando le motivazioni del giudice di primo grado, ha fondato il proprio convincimento circa l'inesistenza della vendita del complesso immobiliare di Gressoney da Sesto Grado s.r.l. a Residenza del Sole S.r.l. e conseguentemente fraudolenta la dichiarazione fiscale 2007 della società ricevente nonché indebite le compensazioni operate negli anni successivi, essenzialmente su due rilievi la sentenza del tribunale civile costituirebbe forte indizio nel senso della simulazione assoluta la tesi difensiva sarebbe stata modificata in sede penale adducendo quale fittizia causale del negozio una restituzione di somme mutuate dal padre di B.S. suocera dell'imputato al di lei marito R.D. . Carente, sotto il profilo motivazionale, appare poi il riferimento operato dalla Corte di merito alla sentenza del tribunale civile, trattandosi di pronuncia - ritualmente appellata - avente natura di mero accertamento e non efficacia costitutiva, dalla quale pertanto non risultava possibile trarre, nemmeno sotto il profilo indiziario, dimostrazione alcuna rispetto alla sussistenza del presupposto dei reati fiscali contestati in sede penale, e così l'inesistenza dell'operazione. Del tutto illogico, in quanto documentalmente smentito, sarebbe poi l'aver definito nuova e fantasiosa la difesa esposta in sede penale l'esistenza di un debito della Sesto grado S.r.l. verso l'architetto R. per importo superiore a 10.000.000 di Euro - somma che i soci avevano anticipato nel tempo per consentire la costruzione del complesso immobiliare - risultava dai bilanci di Sesto grado già nell'anno 2000, alla voce del passivo caparre e cauzioni e, diversamente da quanto affermato in sentenza, alla data del 24 aprile 2006, il finanziamento non venne affatto iscritto, bensì girato a favore della moglie B.S. . E, come risulta dalla citata sentenza civile, ed in particolare dai richiami alla CTU espletata in quella sede, proprio la compensazione operata su tale finanziamento soci costituì la modalità - astrattamente regolare - con la quale il prezzo per la cessione del complesso immobiliare, a rogito notaio Liotta in data 31 maggio 2006, venne corrisposto. E che il finanziamento provenisse dalla famiglia B. , alla quale nell'intendimento di R.D. , dominus della società cedente, doveva essere restituito, era stato allegato dal ricorrente anche in sede tributaria, come risulta dalla pagina 8 del processo verbale di constatazione del 24 maggio 2012 della Residenza del sole S.r.l. acquisito al procedimento penale. Ove correttamente valutato, anche dal punto di vista cronologico, l'esatto iter dell'operazione in esame, in uno con la diagnosi di malattia tumorale a carico del predetto R.D. che lo condusse al decesso in qualche tempo - condizione inopinatamente ignorata dalla Corte di merito - si sarebbe dovuta riconoscere come indimostrata la natura fittizia della cessione. Da analoga illogicità appare affetto, ad avviso del ricorrente, l'argomento della Corte territoriale secondo il quale qualora il negozio di cui si discute fosse stato reale, esso avrebbe costituito una operazione eccessiva rispetto allo scopo perseguito posto che, se la B. avesse realmente vantato il preteso credito verso la Sesto grado, la disponibilità dell'immobile nel patrimonio della società avrebbe rappresentato sufficiente garanzia dell'adempimento , atteso che la compagine sociale di Sesto grado era costituita per il 99% da BCSP S. S. e soltanto per l'1% da B.S. la quale pertanto, non avendone alcun formale e sostanziale controllo, non poteva che risultare menomata nella tutela del proprio credito ove non fosse stata costituita la new company Residenza del sole nella quale era invece socia al 98%. Del tutto carente appare poi la motivazione del provvedimento impugnato rispetto all'asserita natura fittizia dell'operazione immobiliare, definita apoditticamente un espediente per distrarre dal patrimonio della Sesto grado un complesso di beni costituenti garanzia per i creditori . La sequenza cronologica dimostrava infatti come venne dato corso alla cessione del credito da R. a B. aprile 2006 prima dell'accesso ispettivo della Guardia di Finanza alla Sesto grado maggio 2006 . 2.2. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta la mancanza, la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione di individuazione in capo al ricorrente dell'elemento soggettivo di fattispecie. Secondo l'impugnata sentenza l'elemento soggettivo di fattispecie dovrebbe ritenersi sussistente posto che il K. era amministratore della Residenza del sole fin dal 2002 e che, essendo intervenuto in tale sua veste alla stipula dell'atto, non poteva non avere consapevolezza della fittizieta del trasferimento . L'affermazione appare al ricorrente vistosamente errata e comunque sfornita di adeguato supporto motivazionale, tale non apparendo il ricorso alla apodittica massima non poteva non avere consapevolezza . 2.3. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia l'erronea applicazione della legge penale in punto di individuazione dei requisiti per l'applicazione, in conformità del provvedimento di sequestro preventivo, della confisca sui beni personali dell'amministratore, difetto di motivazione risultante dal testo del provvedimento impugnato articolo 606, comma 1, lettere b ed e , codice procedura penale . La Corte del merito non avrebbe dedicato una parola alla presente questione benché ritualmente dedotta nei motivi di appello, apparendo il difetto di motivazione sul punto manifesto. Considerato in diritto 1. Il ricorso è inammissibile per manifesta infondatezza e perché presentato nei casi non consentiti. 2. Quanto al primo motivo di gravame è sufficiente osservare che, secondo la doppia conforme decisione del Giudici del merito, l'imputato si era avvalso, al fine di evadere l'Iva, di una fattura dell'importo di Euro 8.200.000, emessa dalla società Sesto grado S.r.l. per operazioni inesistenti, ed inoltre non aveva versato al fisco le somme dovute, negli anni 2007, 2008 e 2009, utilizzando in compensazione crediti Iva non spettanti o inesistenti. Nel pervenire a tale conclusione, i Giudici del merito hanno rilevato che, come emerso a seguito di una verifica fiscale effettuata dall'agenzia delle entrate del Piemonte sulla Residenza del sole S.r.l. di cui il K. era amministratore , tale società operante nel settore della gestione di alberghi e attività di ristorazione si era avvalsa, nella dichiarazione dei redditi per l'anno 2006, di elementi passivi fittizi, avendo indicato a tal fine la fattura n. 75 del 2006. risultata in realtà inesistente per essere stato ritenuto simulato in senso assoluto il negozio di trasferimento, emessa dalla società Sesto grado S.r.l. per un imponibile di Euro 8.200.000 oltre ad Euro 850.000 per Iva, relativa alla pretesa cessione di alcuni immobili in OMISSIS , operazione da ritenersi, in realtà, inesistente. In particolare la cessione appariva inesistente alla stregua di una significativa serie di indici univocamente ritenuti indicativi in tal senso il tribunale di Torino, adito da tale C.L. già amministratore unico di Sesto grado S.r.l. , con sentenza in data 12 maggio 2011, aveva dichiarato la simulazione assoluta del negozio e la nullità assoluta dell'atto di trasferimento dei beni, cui era seguita l'emissione della fattura citata. L'inesistenza del negozio era confermata inoltre dalla circostanza che la compravendita era avvenuta senza dazione effettiva di denaro posto che, contabilmente, il debito risultava soldato mediante artifizi contabili coinvolgenti il conto in conto finanziamenti in fruttiferi , ed il carattere fittizio dell'operazione era ulteriormente dimostrato dalla mancanza delle garanzie che normalmente vengono richieste del venditore dei negozi immobiliari. Le argomentazioni svolte in sentenza che la Corte di appello ha interamente condiviso, non sono apparse in alcun modo scalfite dai rilievi difensivi essendosi precisato come la sentenza del tribunale civile, in quanto appellata, non avesse valore di giudicato, ma fosse indubbio che la stessa costituisse uno rilevante indizio nel senso dell'inesistenza dell'operazione cui apparentemente si riferiva la fattura n. 75 del 2006, oggetto di imputazione del resto, dalla motivazione della sentenza del tribunale civile, si ricavava che in quella sede le convenute Sesto grado e Residenza del sole si erano difese dalla domanda del C. , volta a far dichiarare la simulazione assoluta del trasferimento immobiliare del 31 maggio 2006, semplicemente negando l'esistenza di un interesse dell'attore a far valere la simulazione in quanto, secondo la tesi difensiva smentita dal tribunale civile, l'attore non vantava crediti nei loro confronti e, comunque, asserendo essere frutto della fantasia del C. l'assunto di costui, secondo il quale la cessione dell'intero patrimonio immobiliare - da Sesto grado a Residenza del sole - era stata fittiziamente posta in essere al solo fine di sottrarre i beni alla garanzia verso i creditori, e segnatamente verso l'attore. Dal momento che il giudice civile, accogliendo la domanda attorea, aveva dichiarato la simulazione assoluta del trasferimento immobiliare in oggetto osservando che non risultavano provati né l'incasso del prezzo da parte della venditrice né il versamento del prezzo da parte dell'acquirente e definendo di singolare inconsistenza la tesi difensiva delle convenute , in sede penale il ricorrente, chiamato a rispondere del reato quale amministratore unico di Residenza del sole aveva modificato la tesi difensiva sostenuta in sede civile, asserendo, così come ha ribadito con il ricorso per cassazione, che il trasferimento immobiliare in questione costituiva la restituzione di somme mutuate dal padre di B.S. suocera dell'imputato , al di lei marito, tale R.D. effettivo dominus della società Sesto grado . Il R. , ad avviso del ricorrente, avrebbe vantato uno credito di Euro 12.678.161,89 nei confronti della società Sesto grado e asseritamente iscritto in data 24 aprile 2006 nelle scritture contabili della società a titolo di caparre e cauzioni passivi , credito che la stesso R. avrebbe in larga parte stornato a favore della B. . Correttamente i Giudici del merito hanno rilevato che tale assunto difensivo non è stato in alcun modo documentato, giacché si fonda unicamente sulle confuse e ritenuta compiacenti dichiarazioni della B. , la quale, nel corso del suo esame, non era stata infatti in grado di quantificare, neppure approssimativamente, l'entità dell'asserito prestito da restituire. A seguito di ciò quindi i Giudici del merito hanno correttamente osservato che, in ogni caso, qualora il negozio immobiliare in discussione fosse stato reale, esso avrebbe costituito una operazione eccessiva rispetto allo scopo perseguito posto che, se la B. avesse realmente vantato il credito preteso presso la Sesto grado S.r.l., la disponibilità dell'immobile nel patrimonio della società avrebbe certamente rappresentato sufficiente garanzia dell'adempimento, risultando pertanto evidente come l'operazione immobiliare in questione fosse del tutto fittizia e costituisse, in realtà, solo un espediente, come affermato anche dal giudice civile, per distrarre dal patrimonio della Sesto grado S.r.l. un complesso di beni immobili costituenti garanzia per i creditori. Logico corollario di tale rigorosa argomentazione è che l'indicazione nella dichiarazione dei redditi 2006 dell'elemento passivo fittizio, costituito dalla fattura numero 75, configura il reato di cui all'articolo 2 del decreto legislativo 74 del 2000, e l'utilizzo in compensazione dell'apparente credito Iva connesso alla stessa configura il reato di cui all'articolo 10 stessa legge, reati dei quali pertanto il K. è stato correttamente ritenuto responsabile in quanto la censura propone una ricostruzione alternativa diversa da quella che, con adeguata motivazione priva di vizi logici, la Corte d'appello ha posto a fondamento della decisione impugnata. Nella quale non è riconoscibile dunque alcuna lacuna argomentativa o vizio di illogicità manifesta, sicché le doglianze del ricorrente, oltre a reiterare critiche già disattese dalla Corte d'appello, si risolvono pertanto in censure fattuali tendenti a sostenere un'interpretazione alternativa dei fatti, preclusa in sede di legittimità. A questo proposito va ricordato che la Corte di cassazione è giudice della motivazione del provvedimento impugnato e non giudice delle prove acquisite nel corso del procedimento, con la conseguenza che il vizio di motivazione, che risulti dal testo del provvedimento impugnato o da altri atti del processo specificamente indicati, in tanto sussiste se ed in quanto si dimostri che il testo del provvedimento sia manifestamente carente di motivazione e/o di logica, e non invece quando si opponga alla logica valutazione degli atti effettuata dal giudice di merito una diversa ricostruzione, magari altrettanto logica Sez. U, n. 16 del 19/06/1996, Di Francesco, Rv. 205621 , e peraltro significativamente diversa, come hanno osservato puntualmente i Giudici del merito, rispetto a quella, diametralmente opposta, sostenuto nel corso del giudizio civile. Infatti, come più volte affermato da questa Corte, l'indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato al giudice di legittimità essere limitato - per espressa volontà del legislatore - a riscontrare l'esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di verificare l'adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento, esulando dai poteri della Corte di cassazione quello di una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, Dessimone ed altri, Rv. 207944 , con la specificazione che l'illogicità della motivazione, come vizio denunciabile, deve essere evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi , dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purché le ragioni del convincimento siano spiegate in modo logico e adeguato Sez. U, n. 24 del 24/11/1999, Spina, Rv. 214794 Sez. U, n. 47289 del 24/09/2003, Petrella, Rv. 226074 . Consegue da ciò la manifesta infondatezza dell'assunto coltivato con il primo motivo del ricorso circa la carenza motivazionale della sentenza impugnata. 3. Anche il secondo motivo di gravame è manifestamente infondato in quanto la consapevolezza del ricorrente circa la natura fittizia della fattura emessa dalla società supposta venditrice nei confronti della società apparentemente acquirente, della quale il ricorrente era amministratore, non è altro che il precipitato logico della simulazione assoluta del negozio di trasferimento immobiliare. La Corte d'appello, in buona sostanza, ha tratto il convincimento circa il fatto che il ricorrente non potesse non avere la consapevolezza della fondamentale circostanza che la fattura fosse stata emessa a fronte di un'operazione inesistente sul rilievo, del tutto trascurato dal ricorrente nel motivo di ricorso, secondo il quale il K. , essendo amministratore della Residenza del sole fin dal 2002 ed essendo intervenuto in tale sua veste alla stipula dell'atto notarile, aveva certamente la consapevolezza dell'inesistenza dell'operazione negoziale posto che alcuna somma era stata corrisposta al simulato alienante e alcun bene era stato realmente trasferito al simulato acquirente. 4. Quanto al terzo motivo di gravame mosso nei confronti della sentenza impugnata circa il difetto di motivazione sul capo della decisione relativo alla confisca sul rilievo che non sarebbe stato eseguito il sequestro e la conseguente confisca del patrimonio della società a beneficio della quale l'amministratore ha commesso il reato, società residenza del sole s.r.l. che pertanto non poteva considerarsi persona estranea al reato sicché la stessa poteva essere attinta nei beni con esonero di quelli vincolati a scapito del ricorrente, occorre osservare come la mancanza di motivazione sul punto non comporta necessariamente l'annullamento della decisione impugnata. Le Sezioni Unite di questa Corte Sez. U, n. 10561 del 30/01/2014, Gubert hanno affermato che è consentito nei confronti di una persona giuridica il sequestro preventivo finalizzato alla confisca di denaro o di altri beni fungibili o di beni direttamente riconducibili al profitto di reato tributario commesso dagli organi della persona giuridica stessa, quando tale profitto o beni direttamente riconducibili al profitto sia nella disponibilità della persona giuridica. In siffatto caso, ossia solo quando sia possibile nei confronti della società il sequestro c.d. diretto del profitto di reato tributario, non è consentito il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente nei confronti degli organi della persona giuridica per reati tributari da costoro commessi a vantaggio della società, che non è terza estranea al reato. Quando il sequestro c.d. diretto del profitto del reato tributario non è possibile nei confronti della società, non è di conseguenza consentito il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente nei confronti di una persona giuridica qualora non sia stato reperito il profitto di reato tributario compiuto dagli organi della persona giuridica stessa, salvo che la persona giuridica sia uno schermo fittizio Sez. U, n. 10561 del 30/01/2014, Gubert, Rv. 258646. La ragione di ciò scaturisce dal fatto che i reati tributari non sono ricompresi nella lista di quelli che consentono il sequestro per equivalente nei confronti di una persona giuridica. Nel nostro ordinamento, è prevista infatti solo una responsabilità amministrativa e non una responsabilità penale degli enti ai sensi del D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231 , derivando da ciò che la società non può mai essere autore o concorrente nel reato e il D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 19 e, soprattutto, art. 24 e segg., non prevede i reati fiscali tra quelli idonei a giustificare la confisca ed il sequestro alla stessa finalizzato per equivalente. La impossibilità del sequestro del profitto del reato sequestro c.d. diretto può essere anche solo transitoria, senza che sia necessaria la preventiva ricerca generalizzata dei beni costituenti il profitto di reato. La fase della ricerca del profitto c.d. diretto si esaurisce inevitabilmente nel periodo coincidente con la fase genetica della cautela reale ed immediatamente dopo la sua applicazione, perché il sequestro per equivalente nei confronti dell'autore del reato, e soprattutto il suo mantenimento, supera la questione della reperibilità del profitto diretto da parte della persona giuridica in quanto l'aggressione dei beni per equivalente postula l'impossibilità genetica o funzionale, quantunque in ipotesi transitoria, di ricorrere al sequestro diretto. Ne consegue che, al di fuori dei casi in cui sia stato possibile dimostrare che la società non sia altro che uno schermo fittizio questione neppure ipotizzata dal ricorrente , l'unica possibilità esistente per disporre il sequestro e la confisca dei beni della persona giuridica costituenti il profitto di reati tributari generalmente consistente in un risparmio di spesa sta nel provare che ci si trovi di fronte al profitto del reato, con le difficoltà che ciò comporta, laddove questo, in materia di reati tributari, è costituito, generalmente, da un risparmio di spesa. Le stesse Sezioni Unite Gubert, consapevoli di tali difficoltà, hanno segnalato un'irrazionalità del sistema auspicando un intervento del legislatore volto ad inserire i reati tributari tra quelli per i quali sia configurabile una responsabilità amministrativa dell'ente ai sensi del D.Lgs. n. 231 del 2001. Al contempo, tuttavia, è stato evidenziato come la prova che ci si trovi di fronte al profitto del reato possa dirsi raggiunta solo quando emerga dagli atti, o sia comunque altrimenti provato, che somme equivalenti a quelle sottratte al pagamento all'erario, siano nella disponibilità della società sul sequestro del denaro come sequestro diretto senza necessità di dimostrare il nesso di pertinenzialità con il reato si sono di recente pronunciatele Sezioni Unite Lucci o nei casi, estremamente rari, in cui sia possibile dimostrare che un determinato bene costituisca il profitto diretto del reato. Perciò, nella fase successiva all'imposizione del vincolo cautelare, che presuppone, come si è detto, l'accertata impossibilità, quantunque transitoria, di reperire presso la persona giuridica il profitto c.d. diretto, e prima che sia disposta la confisca per equivalente dei beni nella disponibilità dell'imputato, vi è un onere di allegazione e prova da parte di quest'ultimo di indicare i beni sui quali sia possibile disporre la confisca diretta nei confronti della società, inosservando il quale la doglianza – che cioè siano stati confiscati per equivalente beni nella sua disponibilità e non quelli costituenti il profitto del reato e asseritamente reperibili presso la persona giuridica - integra una censura generica, priva di specificità, e dunque inammissibile, salvo che dagli atti risulti che il profitto del reato sia reperibile presso la persona giuridica e, in tale caso, il ricorrente deve nel ricorso indicare tale possibilità, in concreto, non perseguita e, mancando siffatto riferimento, il ricorso è parimenti privo di specificità sul punto. Ne consegue che il Giudice d'appello si sarebbe dovuto limitare a rigettare, la doglianza, lasciando, come ha fatto, inalterato il capo della sentenza impugnato. Perciò il rilievo, pur essendo esatto in quanto effettivamente il Giudice d'appello non ha motivato sul punto, non comporta l'annullamento della vi decisione impugnata perché, in tema di impugnazioni, il mancato esame, da parte del giudice di secondo grado, di un motivo di appello non comporta l'annullamento della sentenza quando la censura, se esaminata, non sarebbe stata in astratto suscettibile di accoglimento, in quanto l'omessa motivazione sul punto non arreca alcun pregiudizio alla parte e, se trattasi di questione di diritto, all'omissione può porre rimedio, ai sensi dell'art. 619 cod. proc. pen., la Corte di cassazione quale giudice di legittimità Sez. 3, n. 21029 del 03/02/2015, Dell'Utri, Rv. 263980 . Sotto il vigore del codice abrogato, questa Corte, con orientamento consolidato e tuttora valido, ha infatti affermato che non costituisce vizio di motivazione, e non comporta l'annullamento della sentenza, l'omesso esame da parte del giudice di secondo grado di un motivo non suscettibile di accoglimento Sez. 3, n. 14239 del 21/10/1986, Centoze, Rv. 174656 sicché il mancato esame da parte del giudice di appello di un motivo di gravame manifestamente infondato non costituisce causa di annullamento della sentenza in sede di legittimità, non avendo arrecato il mancato esame del motivo nel giudizio di secondo grado alcun pregiudizio all'imputato Sez. 4, n. 656 del 10/03/1969, Melino, Rv. 111559 . 5. Ne consegue che, sulla base delle precedenti considerazioni, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e, non essendovi ragione di ritenere che il gravame sia stato presentato senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità , il ricorrente va anche condannato al versamento della somma, determinata in via equitativa, di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1000,00 in favore della cassa delle ammende.