La crisi di liquidità non convince e comunque non si rivaluta in Cassazione

Non possono, in astratto, escludersi casi – il cui apprezzamento è devoluto al giudice di merito ed è, come tale, insindacabile in sede di legittimità, se congruamente motivato - nei quali si arrivi a escludere il dolo o dimostrare l’assoluta impossibilità di adempiere gli obblighi tributari. È tuttavia necessario che siano assolti gli oneri di allegazione, che dovranno investire non solo la non imputabilità della crisi economica, ma anche la impossibilità di fronteggiarla, per non aver potuto il contribuente reperire le risorse, pur ponendo in essere tutte le azioni possibili, ivi comprese quelle anche sfavorevoli al suo patrimonio personale.

Questo il principio di diritto espresso dalla sez. III della Corte di Cassazione, con la pronuncia n. 10503, depositata il 12 marzo 2015. Il rigido rigorismo del Palazzaccio. Le ultime sentenze della Corte di Cassazione sulla possibile rilevanza della crisi di liquidità quale causa di esclusione della penale responsabilità dai reati di omesso versamento IVA o ritenute certificate paiono, invero, improntate ad una rigidità davvero difficilmente superabile. Tra le più recenti pronunce merita, senza dubbio, menzione la sentenza n. 52038/2014 con cui la sez. III Penale ha di fatto blindato la concessione della ormai costantemente invocata esimente della causa di forza maggiore. La Corte, infatti, con tale pronuncia, ha demolito le tre ipotesi di scuola di motivi di illiquidità, normalmente sollevate dalle difese a l’avere ritenuto di privilegiare il pagamento delle retribuzioni ai dipendenti per evitare licenziamenti b l'avere dovuto pagare i debiti ai fornitori, a pena di fallimento della società c la mancata riscossione di crediti vantati e documentati, spesso nei confronti dello Stato. Non basta il dover pagare i dipendenti. Come chiarito infatti proprio nella appena menzionata pronuncia la scelta di pagare in via preferenziale i lavoratori non consente di ritenere sussistente lo stato di necessità previsto dall’art. 54 c.p., che, come noto, esclude la sanzione solo per chi ha commesso il fatto costretto dalla necessità da salvare sé stesso o altre persone dal pericolo attuale di un danno grave alla persona. Orbene, secondo la Cassazione, è da escludere che la perdita del diritto al lavoro, di cui pure è riconosciuta l’importanza, possa essere annoverata tra i casi di danno grave alla persona, riferiti invece solo ai beni morali e materiali che costituiscono l’essenza stessa dell’essere umano . né il fallimento. Ugualmente aveva chiarito la Cassazione, non scrimina l’aver destinato le risorse disponibili ad evitare un possibile fallimento. Il fallimento, infatti, ricordarono gli Ermellini nella pronuncia di dicembre 2014, ben può essere chiesto anche dall’Erario creditore, dunque la finalità di evitare la dichiarazione di fallimento non può certo essere perseguita postergando rispetto ad altri il pagamento del credito vantato dalla Amministrazione Finanziaria dello Stato. né, infine, i crediti verso lo Stato. Né a diversa conclusione era giunta la Corte circa l’ipotesi di forza maggiore, nel caso in cui l’imputato invocasse crediti anche verso lo Stato. È la legge infatti a disciplinare nel dettaglio quando è possibile procedere alla compensazione del debito tributario. Al di fuori di tale ipotesi, per contro, rimarca la Corte, il mancato pagamento dei crediti pubblici entra a fare parte del normale rischio d’impresa e non può certo evitare o giustificare il procrastinare l’obbligazione di natura pubblicistica che l’imprenditore ha verso il Fisco. Dal miraggio nel deserto E’ in tale sconfortante panorama costituto della giurisprudenza di legittimità che deve essere riallocata la apertura operata dagli Ermellini alla possibile valenza scriminante della crisi di liquidità, che si rinviene nella pronuncia in commento Non possono, in astratto, escludersi casi nei quali si arrivi a escludere il dolo o dimostrare l’assoluta impossibilità di adempiere gli obblighi tributari . Quali sarebbero dunque, seppur in ipotesi, quei casi cui la Cassazione ha appena fatto cenno? Difficile, anche sul piano astratto invocato dalla Cassazione, costruire una - pur di scuola – ipotesi. ad una probatio diabolica. Lo spiraglio che lascia la pronuncia in esame è dunque davvero stretto. Quello che ormai viene definito, quasi ossessivamente, anche nella pronuncia in commento un onere di allegazione”, cela in realtà la necessità rigorosa di provare, per l’imputato, quanto alla asserita crisi di liquidità, non solo l’aspetto della non imputabilità della difficoltà economica a chi ha omesso il versamento tributario, ma anche che la crisi non è stata fronteggiabile in altro modo, per esempio attraverso il ricorso da parte dell’imprenditore a misure la cui idoneità sarebbe da valutare in concreto, ivi comprese quelle tali da pregiudicare lo stesso patrimonio personale dell’imprenditore. Sul punto la Terza sezione è nuovamente lapidaria. Insomma una prova tanto ardua quanto dimostrare che il diavolo non esiste una vera e propria probatio diabolica. Insindacabile in sede di legittimità. Ad astra per aspera , avrebbero chiosato nella antica Roma. Non solo la prova che il contribuente è chiamato a fornire è estremamente rigorosa, ma la valutazione della sua sussistenza è giudizio di stretto merito, che, in quanto tale, – ricordano gli Ermellini nella pronuncia in commento – è insindacabile in Cassazione, laddove adeguatamente motivato. Dopo nove anni di stretta crisi economica non resta che chiedersi se sopraggiungerà prima o poi una seria e duratura ripresa” ovvero una adeguata riforma legislativa in grado di valorizzare la possibile valenza scriminante di obbiettive e gravi situazioni di difficoltà economica. In difetto l’interpretazione, ormai consolidatasi, della giurisprudenza di legittimità lascia davvero poche speranze e restano le manette per il debitore che, seppur senza intento decettivo alcuno, non paga o non può pagare lo Stato.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 21 gennaio – 12 marzo 2015, n. 10503 Presidente Squassoni – Relatore Orilia Ritenuto in fatto 1. La Corte d'Appello di Catanzaro con sentenza 3.6.2014 ha confermato quella del Tribunale di Paola che aveva riconosciuto C.F. colpevole del reato di cui all'art. 10 ter D.L.vo n. 74/2000 omesso versamento di IVA per l'anno di imposta 2005 . La Corte di merito ha motivato la decisione disattendendo, così come aveva fatto il primo giudice, la questione di legittimità costituzionale della norma e ritenendo irrilevante nel caso di specie la crisi di illiquidità dedotta a fondamento della censura sull'inesistenza dell'elemento soggettivo del reato. 2. Il difensore ricorre per cassazione con due censure seguite da due motivi nuovi depositati il 7.1.2015. Considerato in diritto 1. Con il primo motivo il ricorrente denunzia, ai sensi dell'art. 606 comma 1 lett. b, c ed e cpp, l'inosservanza degli artt. 192 e 533 cpp, nonché degli artt. 45 o 54 cp e il difetto di motivazione. Ripropone la questione di legittimità costituzionale dell'art. 10 ter D. Lvo n. 74/2000 per violazione degli artt. 3, 27 comma 1, 117 comma 1 Cost. in relazione all'art. 7 CEDU. Rilevando di avere avuto solo sei mesi di tempo per adempiere all'obbligo fiscale e di trovarsi in una grave situazione di dissesto finanziario, il ricorrente sostiene che la motivazione adottata dalla Corte d'Appello risulta in spregio al principio della personalità della responsabilità penale, mancando nel caso di specie il fine di evadere l'imposta, essendo stata invece privilegiata la tutela dei lavoratori mediante il pagamento delle retribuzioni e dei fornitori per evitare il fallimento. Ritiene pertanto sussistente la forza maggiore e comunque, lo stato di necessità. Richiama la pratica commerciale e professionale secondo cui non sempre il compimento di una operazione imponibile viene seguito dal pagamento della relativa fattura, come nei casi di successivo fallimento del debitore di Patrocinio a spese dello Stato. Rinnova la questione di illegittimità costituzionale della norma per avere usufruito per l'anno di imposta 2005 un termine per il versamento assai più ridotto di quello concesso per gli anni successivi richiama in proposito un'ordinanza del Tribunale di Torino del 22.9.2010. Tele termine ridotto assume rilievo anche ai fini dell'obbligo di accantonamento perché prima del luglio 2006 egli non era in grado di calcolare l'entità delle conseguenze a cui si stava esponendo. Col primo motivo aggiunto vengono riproposte le tematiche dell'obbligo di versamento anche nell'ipotesi di IVA non incassata e quello della legittimità costituzionale della norma. Tali censure sono infondate. È opportuno, per evidenti ragioni di priorità logica, partire dal profilo riguardante l'applicabilità della legge alla fattispecie concreta asserita violazione del divieto di applicazione retroattiva della norma incriminatrice . A norma del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 ter, inserito con il D.L. 4 luglio del 2006, art. 35, comma 7, convertito con modificazioni nella L. 4 agosto del 2006, la sanzione prevista dall'art. 10 bis per il delitto di omesso versamento di ritenute certificate si applica anche a chiunque non versi l'imposta sul valore aggiunto, dovuta in base alla dichiarazione annuale, entro il termine per il versamento dell'acconto relativo al periodo d'imposta successivo. Come già chiarito da questa Corte cfr. in proposito Cass. Sez. 3, Sentenza n. 38619 del 14/10/2010 Cc. dep. 03/11/2010 Rv. 248626 , l'anzidetta norma ha introdotto una nuova fattispecie criminosa diretta a sanzionare l'omesso versamento dell'IVA in base alle risultanze della dichiarazione annuale A tale nuova fattispecie è stata estesa la sanzione penale prevista per il delitto di omesso versamento di ritenute certificate dal precedente art. 10 bis, in forza del quale è punito con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto d'imposta ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti,per un ammontare superiore a cinquantamila Euro per ciascun periodo d'imposta . Il comportamento del soggetto che non versa l'IVA dichiarata a debito in sede di dichiarazione annuale è stato quindi dal legislatore assimilato, sotto il profilo sanzionatorio, a quello del sostituto che non versa le ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti. Il momento consumativo del reato è individuato alla scadenza del termine previsto per il versamento dell'acconto relativo al periodo d'imposta successivo. Tale termine è fissato dalla L. n. 405 del 1990, art. 6, comma 2, al 27 dicembre. Conseguentemente per la consumazione del reato non è sufficiente un qualsiasi ritardo nel versamento rispetto alla scadenze previste, ma occorre che l'omissione del versamento dell'imposta dovuta in base alla dichiarazione si protragga fino al 27 dicembre dell'anno successivo al periodo d'imposta di riferimento. Nella fattispecie, al 27 dicembre del 2006 giacché, come si è detto, l'omesso versamento si riferiva all'anno di imposta 2005 . Orbene, dal fatto che la disposizione in commento è entrata in vigore il 4 luglio del 2006 e che il delitto si perfeziona alla data del 27 dicembre di ciascun anno per IVA relativa alla dichiarazione dell'anno precedente deriva che la nuova disposizione sanzionatoria troverà applicazione per tutti i reati di omesso versamento consumati entro il 27 dicembre del 2006 riguardanti l'IVA relativa all'anno 2005. È opportuno ricordare che di recente, la questione della individuazione del momento consumativo del reato è stata definitivamente risolta dalle sezioni unite. Infatti, con la sentenza 28 marzo - 12 settembre 2013 n. 37424, è stato affermato che l'art. 10-ter d.lgs 10 marzo 2000, n. 74, inserito dall'art. 35, comma 7, d.l. 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, entrato in vigore il 4 luglio 2006 il quale punisce con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa, entro il termine per il versamento dell'acconto relativo al periodo di imposta successivo, l'imposta sul valore aggiunto, dovuta in base alla dichiarazione annuale, per un ammontare superiore a cinquantamila Euro per ciascun periodo di imposta , è applicabile anche alle omissioni dei versamenti IVA relativi all'anno 2005, senza che ciò comporti violazione del principio di irretroattività della norma penale. La questione di legittimità costituzionale che il ricorrente ripropone anche nei motivi aggiunti è manifestamente infondata per le ragioni già evidenziate dalle sezioni unite che, con la citata sentenza, hanno affrontato anche questo tema con riferimento all'art. 27 cost., osservando che lo spazio di condotta virtuosa consentito al soggetto dall'entrata in vigore dell'art. 10-ter fino alla scadenza del termine per il versamento dell'acconto relativo al periodo d'imposta dell'anno successivo porta senz'altro a escludere che dal principio di colpevolezza possa discendere un rilievo ostativo assoluto all'applicabilità della nuova norma penale alle omissioni di versamento relative ai debiti IVA del 2005 cfr. S.U. 37424/2013 cit. . A tale impostazione va data dal Collegio senz'altro continuità ricordandosi che la stessa Corte Costituzionale, con ordinanza n. 25/2012, nel dichiarare la manifesta infondatezza delle questione con riferimento all'art. 3 della Costituzione, aveva rilevato che il termine di oltre cinque mesi e mezzo dal 4 luglio 2006 al 27 dicembre 2006 , riconosciuto al soggetto in questione in luogo dei quasi dodici mesi ordinari , non può ritenersi intrinsecamente incongruo, ossia talmente breve da pregiudicare o da rappresentare, di per sé, un serio ostacolo all'adempimento . Quanto all'elemento soggettivo, come più volte affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, il reato omissivo a carattere istantaneo previsto dal D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 10-ter, consiste nel mancato versamento all'erario delle somme dovute sulla base della dichiarazione annuale che, tranne i casi di applicabilità del regime di IVA per cassa”, è ordinariamente svincolato dall'effettiva riscossione dei corrispettivi relativi alle prestazioni effettuate. È stato altresì precisato che il reato in esame è punibile a titolo di dolo generico, essendo sufficiente a integrarlo la coscienza e volontà di non versare all'erario le ritenute effettuate nel periodo considerato. Tale coscienza e volontà deve investire anche la soglia di Euro cinquantamila prima della recente pronuncia della Corte Costituzionale n. 80/2014 che l'ha elevata a Euro. 103.291,38, ndr , soglia che è un elemento costitutivo del fatto, contribuendo a definirne il disvalore sez. un, 28 marzo 2013, n. 37424, rv. 255758 sez. 3, 6 marzo 2013, n. 19099, rv. 255327 . La prova del dolo - analogamente a quanto affermato in relazione alla fattispecie di cui al precedente art. 10-bis - è insita nella presentazione della dichiarazione annuale, dalla quale emerge quanto è dovuto a titolo di imposta, e che deve, quindi, essere saldato o almeno contenuto non oltre la soglia di punibilità, entro il termine previsto. Non può ovviamente escludersi, in astratto, che siano possibili casi - il cui apprezzamento è devoluto al giudice del merito ed è, come tale, insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato - nei quali possa invocarsi l'assenza del dolo o l'assoluta impossibilità di adempiere all'obbligazione tributaria. È tuttavia necessario che siano assolti gli oneri di allegazione che, per quanto attiene alla crisi di liquidità, dovranno investire non solo l'aspetto della non imputabilità al sostituto di imposta della crisi economica che improvvisamente avrebbe investito l'azienda, ma anche la circostanza che detta crisi non possa essere adeguatamente fronteggiata tramite il ricorso, da parte dell'imprenditore, ad idonee misure da valutarsi in concreto. Occorre cioè la prova che non sia stato altrimenti possibile per il contribuente reperire le risorse necessarie a consentirgli il corretto e puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie, pur avendo posto in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale, dirette a consentirgli di recuperare, in presenza di un'improvvisa crisi di liquidità, quelle somme necessarie ad assolvere il debito erariale, senza esservi riuscito per cause indipendenti dalla sua volontà e a lui non imputabili cfr. sez. 3 sentenza 8.1-4.4.2014 n. 15416 sez. 3, 9 ottobre 2013, n. 5905/2014 . Nel caso in esame la Corte d'Appello, già investita della questione, correttamente ha rigettato la doglianza facendo corretta applicazione di questi principi. La decisione, come si vede, si rivela corretta in diritto e congruamente motivata, e pertanto si sottrae decisamente alla censura mossa dal ricorrente che, peraltro, omette di evidenziare la prova della totale impossibilità di reperimento delle risorse necessarie all'adempimento tributario nel senso sopra inteso, soffermandosi invece sulla idoneità in generale della crisi di liquidità peraltro solo dedotta e n eppure documentata ai fini dell'esclusione dell'elemento psicologico del reato. 2. Col secondo motivo si deduce la violazione dell'art. 36 della Costituzione e il vizio di motivazione rilevandosi di avere agito per motivi di particolare valore morale e sociale art. 62 n. 1 cp evidenziandosi l'impegno profuso per salvaguardare il diritto alla retribuzione dei propri dipendenti e pertanto ritiene che in subordine gli dovesse essere riconosciuta l'attenuante predetta. La censura è inammissibile ai sensi del'art. 606 ultimo comma cpp perché investe una violazione di legge mai dedotta nel giudizio di appello, come si evince dall'esame delle censure ivi proposte. 3. Quanto, infine, al tema della prescrizione - che forma oggetto di trattazione nei motivi aggiunti - il periodo di sospensione del corso della prescrizione non è di 60 giorni come ritiene il ricorrente , ma di mesi sette e giorni uno come da atto anche la Corte d'Appello, essendo stato determinato dall'astensione degli avvocati cfr. verbali di udienza infatti, il rinvio dell'udienza dovuto all'adesione del difensore all'astensione collettiva dalle udienze determina la sospensione del termine prescrizionale per tutto il tempo necessario per gli adempimenti tecnici imprescindibili al fine di garantire il recupero dell'ordinario svolgersi del processo cfr. tra le varie, Sez. 4, Sentenza n. 10621 del 29/01/2013 Ud. dep. 07/03/2013 Rv. 256067 Sez. 5, Sentenza n. 18071 del 08/02/2010 Ud. dep. 12/05/2010 Rv. 247142 . Considerando pacificamente come dies a quo il 27.12.2006, il termine massimo di sette anni e mezzo, maggiorato del periodo sospensione, non è ancora scaduto. P.Q.M. rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.