La riferibilità dei beni all’imputato deve essere sempre dimostrata

In tema di reati societari, tra le utilità confiscabili non vi rientrano i legittimi vantaggi e i risultati economici derivanti da una precedente attività lecita e riconducibile a soggetti terzi. Il parametro della pertinenzialità al reato del profitto rappresenta, infatti, l’effettivo criterio selettivo di ciò che può essere confiscato o meno.

Con la sentenza in commento, la n. 27675, depositata il 26 giugno 2014, la Corte di cassazione ha avuto modo di considerare la portata dei presupposti legali legittimanti la confisca ex art. 240 c.p. e 2641 c.c. relativa ai reati societari. Il caso. Nei fatti è accaduto che il Gup, presso il Tribunale di Roma, nel ratificare il patteggiamento proposto dalle parti, avesse disposto la confisca di taluni beni già sottoposti a sequestro, ritenendoli profitto del reato”. Il ragionamento del Gup – disatteso dalla Corte di legittimità – partiva dal presupposto che tutti i beni di cui l’imputato avesse avuto la possibilità di disporre o che fossero stati oggetto di sue disposizioni dovevano ritenersi suoi” e, quindi, passibili di confisca, laddove riconducili al concetto di profitto” del reato. La difesa, contraria a tale prospettazione, aveva proposto ricorso, lamentando, da un lato, che il Gup avesse parlato di ricavi” e non di profitti” e, dall’altro, che i beni in questione erano in realtà profitti derivanti dalla gestione di beni di terzi. La decisione. Sul primo aspetto la Cassazione, richiamandosi ad un indirizzo giurisprudenziale oramai consolidato, ha avuto facile gioco nell’escludere qualsiasi rilevanza alla semplice nomenclatura, dovendosi in realtà verificare se, nei fatti, il Gup avesse correttamente interpretato ed applicato il concetto di profitto” richiamato nelle norme sopra citate. Da questo punto di vista, quindi, ciò che conta è tenere presente che in tema di confisca, il prodotto del reato rappresenta il risultato, cioè il frutto che il colpevole ottiene direttamente dalla sua attività illecita il profitto a sua volta, è costituito dal lucro, e cioè dal vantaggio economico che si ricava per effetto della commissione del reato il prezzo, infine, rappresenta il compenso dato o promesso per indurre, istigare o determinare un altro soggetto a commettere il reato e costituisce, quindi, un fattore che incide esclusivamente sui motivi che hanno spinto l’interessato a commettere il reato Cass. Pen., SSUU, n. 9149/1996 . Ne consegue che profitto” rilevante ai fini del provvedimento de quo sarà solo l’utilità economica in concreto ottenuta a seguito dell’illecito, utilità che per tale ragione, quand’anche chiamata ricavo”, è in sé e per sé assai diversa da un legittimo vantaggio economico, attesa la corruzione del titolo originario da cui scaturisce il vantaggio confiscabile. Ciò spiega – come ha ulteriormente notato la stessa Corte – la ragione per la quale è comunque necessario distinguere tra profitto illecito derivante dal reato ed i ricavi complessivi di un’attività imprenditoriale, o basata su rapporti contrattuali, che non possa intendersi penalmente rilevante tout court, nella sua interezza , tenendo inoltre presente il fatto che il profitto del reato presuppone l’accertamento della sua diretta derivazione causale dalla condotta dell’agente , in quanto il parametro della pertinenzialità al reato del profitto rappresenta l’effettivo criterio selettivo di ciò che può essere confiscato a tale titolo occorre cioè una correlazione diretta del profitto con il reato ed una stratta affinità con l’oggetto di questo, escludendosi qualsiasi estensione indiscriminata o dilatazione indefinita ad ogni e qualsiasi vantaggio patrimoniale, che possa comunque scaturire, pur in difetto di un nesso diretto di causalità, dall’illecito . Dati questi presupposti, la Suprema Corte non ha potuto che constatare come l’inconsistenza patrimoniale delle società correlata alle falsificazioni, di cui era accusato l’imputato, avesse permesso l’incasso di premi altrimenti non ottenibili, che per l’effetto dovevano ritenersi tutti illegittimi, in quanto ricavati necessariamente a seguito della commissione del reato contestato. Stando così le cose, tuttavia, la Corte ha oltremodo riconosciuto come taluni investimenti effettuati dall’imputato non potessero considerarsi ex se profitto degli illeciti oggetto del patteggiamento, in quanto la provvista necessaria derivava da attività precedente lecita e peraltro riconducibile a soggetti terzi. Infatti, in assenza di una prova precisa o comunque di una adeguata motivazione sul punto relativo alla pertinenzialità dei ricavi” derivanti dalla vendita di un immobile acquisito in comunione legale o dei titoli ricavati” dalla provvista della madre dell’imputato con i reati per cui si procede, la confisca non poteva essere ammessa sic et simpliciter solo perché i conti correnti, sopra i quali tali ricavi” erano stati depositati, erano intestati all’imputato. Da qui l’annullamento con rinvio al Tribunale di Roma per un ulteriore esame della vicenda. Conclusioni. La sentenza appare equilibrata e condivisibile, posto che si è avuto il pregio di voler distinguere le diverse situazioni e, quindi, di ben giudicare senza troppa fretta, volendo altresì evitare di confondere il tutto ai fini punitivi. E’, però, sintomatico come tanto il Gup quanto la Procura generale abbiano inteso le dichiarazioni dell’imputato, che aveva dichiarato suoi” beni in realtà pacificamente anche di altri, come confessioni invincibili contra reum nonostante dall’evidenza processuale derivassero conclusioni assai diverse. Si tratta di antichi vezzi, mai sopiti nella realtà del quotidiano vivere processuale, che mirano nella sostanza a rendere tendenzialmente confiscabile” e, dunque, illecita qualsiasi cosa il reo tocchi. Le presunzioni anche di mero fatto semplificano gli accertamenti e, in taluni campi, sono assai agevoli del resto, a pensar male – così si dice – si commette peccato, ma quasi mai si sbaglia. La Corte di Cassazione ha, invece, correttamente evidenziato che la presunzione contra reum , ai fini della confisca, non ha senso, non fosse altro perché in tal modo non si lede in realtà il delinquente ma nei fatti il soggetto terzo, che per definizione è innocente e che per l’effetto non può vedersi privato sine causa di propri beni o di propri diritti. La Giustizia insomma non può accettare di affermarsi, commettendo ingiustizie. Speriamo che quest’ultima affermazione non diventi mai, quanto meno nell’opinione dei più, un vezzo.

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 24 ottobre 2013 – 26 giugno 2014, n. 27675 Presidente Marasca – Relatore Micheli Ritenuto in fatto 1. Il 20/11/2012, il Giudice dell'Udienza Preliminare del Tribunale di Roma pronunciava sentenza ex art. 444 cod. proc. pen. nei confronti di A.G. , imputato in ordine a reati di cui agli artt. 110 cod. pen., 132 d.lgs. n. 385 di 1993, 2632 e 2638 cod. civ I fatti si riferivano a condotte ascrivibili all'A. nella qualità di presidente del collegio sindacale della Fidecomm s.p.a. e della Praediafin s.c.a.r.l., oltre che di consulente di Giancarlo Santoro amministratore di quelle ed altre società, tra cui la Fidicomm s.p.a. il capitale delle società anzidette risultava essere costituito per la gran parte, a seguito di aumenti approvati in sede di delibere assembleari, attraverso il conferimento di titoli azionari, per lo più esteri, che a dispetto della formale valutazione non avevano in realtà alcun valore di mercato, così consentendo l'apparente titolarità in capo alle stesse dei requisiti patrimoniali per l'esercizio di attività finanziaria. Tale attività si era svolta in concreto attraverso il rilascio di fidejussioni per alcune centinaia di milioni di Euro, che avevano consentito l'incasso di premi nell'ordine di circa 6.678.000,00 Euro quanto alla Fidecomm e di circa 3.469.000,00 Euro per la Fidicomm. Oltre a valutare la congruità della pena oggetto dell'accordo fra le parti, il giudicante esaminava una contestuale richiesta di dissequestro avanzata dalla difesa, osservando che - in ordine al 50% dei titoli custoditi in un dossier presso la Banca Popolare di Novara, filiale di , la tesi difensiva era che detta quota dovesse riferirsi alla moglie dell'A. , giacché in quei titoli era stata convertita una somma costituente parte del corrispettivo della cessione della nuda proprietà di un immobile in comunione legale fra i due coniugi. Tesi da disattendere, in quanto all'atto della compravendita l'imputato aveva dichiarato che il bene era di sua proprietà esclusiva, tanto che la moglie non aveva in alcun modo partecipato alla stipula, né aveva sottoscritto precedenti procure in favore dell'A. - quanto a somme giacenti presso la Banca Network Investimenti, che la difesa assumeva fossero appartenenti alla madre dell'imputato, P.I. , in favore della quale l'A. aveva compiuto attività di compravendita di titoli ed altri investimenti, appoggiando le somme su un conto titoli personale per poi periodicamente riversargliele, l'istanza era parimenti da rigettare in quanto fra il 2003 - data di trasferimento di un dossier titoli - e il 2012 quando vi era stato il sequestro nessuna movimentazione vi era stata. Ne derivava la reiezione della richiesta di restituzione il Gup adottava anzi un provvedimento di confisca ex art. 2641 cod. civ 2. Propone ricorso per cassazione - limitatamente al capo relativo alla disposta confisca dei beni sequestrati - il difensore dell'imputato. 2.1 Con un primo motivo di doglianza, la difesa deduce la violazione degli artt. 2641 cod. civ. e 240 cod. pen., nonché illogicità e carenza della motivazione del provvedimento impugnato. Osserva il ricorrente che la già ricordata norma del codice civile consente di confiscare beni che siano il prodotto od il profitto del reato per cui intervenga la condanna come pure l'applicazione di pena su richiesta , ovvero quando si tratti di beni utilizzati per la commissione del reato medesimo al contrario, nella fattispecie concreta il giudicante avrebbe ordinato la confisca di somme che costituirebbero il ricavo dei presunti reati ex artt. 2632 e 2638 cod. civ In particolare, risulta che il sequestro funzionale alla confisca de qua era stato appunto disposto sul ricavo illecito conseguito come espressamente indicato nell'ordinanza cautelare , calcolato sulla base dei ricavi conseguiti dalle società anzidette, per un valore complessivo stimato in circa 14 milioni di Euro pur facendosi carico del problema terminologico, il Gup si era limitato a riqualificare come profitto quello che invece, al momento dell'adozione del sequestro, era stato inteso come ricavo , senza in alcun modo chiarire se e perché vi fosse equivalenza tra le due nozioni. Scelta ex se censurabile in punto di completezza della motivazione, soprattutto dovendosi considerare che laddove il legislatore avesse inteso estendere l'area del confiscabile ad un concetto più ampio di quello di profitto, avrebbe potuto espressamente ricorrere alle nozioni di ricavo e/o di provento del reato, anziché limitare la confisca, ex art. 2641 cod. civ., al solo profitto/prodotto conseguito dal reo” l'immotivata equiparazione dei concetti appena sottolineati comporterebbe pertanto, ad avviso della difesa, una chiara violazione del generale divieto di analogia in malam partem . Inoltre, ed ancor prima, nella sentenza oggetto di ricorso non sarebbe stato comunque chiarito quali criteri siano stati applicati al fine di individuare il valore di riferimento da confiscare, visto che nessun accertamento peritale risulta essere stato svolto ai fini della verifica dell'esatta consistenza delle società de quibus , da determinare anche con riguardo ai beni acquistati sia pure, in ipotesi, con denaro illecitamente conseguito , alle imposizioni fiscali onorate ed ai corrispettivi legittimamente ricevuti nel corso dell'attività svolta. I giudici di merito avrebbero apoditticamente affermato che le condotte contestate avevano consentito alla Fidecomm, alla Fidicomm ed alla Praediafin di conseguire profitti ingenti, senza precisare - come invece doveroso - se tali ipotetici profitti, non distinti dai ricavi, fossero stati un risultato diretto ed immediato della commissione dei reati in rubrica nel caso di specie sarebbe anzi evidente che l'unica condotta idonea a consentire la realizzazione di profitti, fra quelle in rubrica, era quella di cui ai capi d'imputazione recanti la contestazione del reato ex art. 132 del d.lgs. n. 385/1993. Dato che l'art. 2641 cod. civ. non richiama quest'ultima norma, la confisca non sarebbe stata in alcun modo possibile, visto che - in definitiva - i reati di cui agli artt. 2632 e 2638 cod. civ. avevano soltanto reso più agevole la condotta illecita di rilascio di fidejussioni. 2.2 Con il secondo motivo, la difesa lamenta violazione di legge e vizi della motivazione con riferimento alla ritenuta riferibilità all'A. di tutti i beni oggetto di confisca, quando invece ne era stata dimostrata la parziale appartenenza alla moglie od alla madre dell'imputato. A proposito della somma giacente presso la Banca Popolare di Novara, il ricorrente fa rilevare che il bene immobile del quale era stata alienata la nuda proprietà risultava essere stato acquistato nel 2009, mentre il matrimonio dell'A. risaliva al 1988 ergo, stante il regime di comunione legale fra i due coniugi, quel bene doveva intendersi rientrante nella comunione, non essendovi state all'atto dell'acquisto dichiarazioni di sorta che ne attestassero la natura personale in capo all'uno od all'altro ciò in quanto, ai sensi delle norme del codice civile, può esservi un acquisto a titolo personale alla sola condizione che l'altro coniuge partecipi all'atto e presti adesione a quanto dichiarato dal coniuge acquirente . Quel che conta, dunque, non è verificare il momento in cui un bene, certamente rientrante nella comunione, viene successivamente rivenduto, ma quanto accaduto a monte, all'atto dell'acquisto a nulla rileva la circostanza che l'A. , alienando la nuda proprietà, si sia dichiarato unico proprietario enfatizzata invece dal Gup , giacché un bene in comunione può essere venduto anche da uno solo dei coniugi senza il consenso dell'altro, il quale avrà la possibilità entro un anno dalla trascrizione di impugnare la vendita ovvero di prestarvi acquiescenza. Quanto alle somme che, nel corso del tempo, l'A. avrebbe gestito per conto della madre, la difesa dell'imputato ricostruisce le varie movimentazioni succedutesi nel corso del tempo, evidenziando come già in passato l'imputato fosse stato titolare di altri rapporti su cui venivano riversati titoli acquistati con denari della P. , intestazione formale che trovava causa nella incapacità dell'anziana signora di provvedere a quegli investimenti. Il riferimento, compiuto dal Gup, alla circostanza che dal 2003 in poi non vi fossero state altre operazioni sul dossier titoli sottoposto a sequestro avrebbe dovuto semmai attestare che la situazione allora risultante era rimasta immutata, e non invece comprovare che quelle somme, certamente riconducibili a risorse proprie della P. , fossero invece da attribuire al figlio di costei. Considerato in diritto 1. Il ricorso è fondato, con riguardo alle ragioni di cui al secondo motivo. 2. La prima doglianza, afferente la confiscabilità dei beni, non può infatti ritenersi fondata. 2.1 Vero è che, in numerose pronunce di legittimità, si è affrontato il problema di dover necessariamente distinguere tra diverse nozioni afferenti l'utilità economica che ad un soggetto può derivare dalla commissione di un reato tuttavia, nel caso di specie non ritiene il collegio che il pur non rigoroso richiamo al concetto di ricavo sia tale da comportare la lamentata violazione del precetto normativo di cui all'art. 2641 cod. civ., ove si tenga conto che quella di ricavo è nozione squisitamente economica, che non assurge ad autonoma rilevanza sul pano giuridico quanto meno, in ambito penalistico . E, già dal 1996, le Sezioni Unite di questa Corte hanno affermato su un piano generale che in tema di confisca, il prodotto del reato rappresenta il risultato, cioè il frutto che il colpevole ottiene direttamente dalla sua attività illecita il profitto, a sua volta, è costituito dal lucro, e cioè dal vantaggio economico che si ricava per effetto della commissione del reato il prezzo, infine, rappresenta il compenso dato o promesso per indurre, istigare o determinare un altro soggetto a commettere il reato e costituisce, quindi, un fattore che incide esclusivamente sui motivi che hanno spinto l'interessato a commettere il reato” Cass., Sez. U, n. 9149 del 03/07/1996, Chabni Samir, Rv 205707 . Come si vede, pertanto, il profitto consiste proprio nel risultato economico che il reato consente di ricavare, quale vantaggio di diretta e immediata derivazione causale dall'illecito presupposto e, nel momento in cui l'ordinanza dispositiva del sequestro o la sentenza impugnata richiamano indifferentemente il ricavo od il profitto, appare evidente che intendano riferirsi all'identica nozione. Non si tratta, dunque, di distinguere fra concetti che in termini giuridici assumono per chiara scelta del legislatore una autonoma e differente rilevanza, come - anche successivamente al 1996 - si è reso più volte necessario discutendo di profitto o di prezzo v. Cass., Sez. U, n. 38691 del 25/06/2009, Caruso , bensì di valutare locuzioni che, ove riferite ad una attività che si assume criminosa, esprimono il comune significato di complesso dei vantaggi economici tratti dall'illecito ed a questi strettamente pertinenti” v. Cass., Sez. VI, n. 24558 del 22/05/2013, Mezzini . In linea di principio, come parimenti già sottolineato nella giurisprudenza di questa Corte, potrebbe esservi un doveroso profilo di distinzione tra il profitto illecito derivante dal reato ed i ricavi complessivi di un'attività imprenditoriale, o basata su rapporti contrattuali, che non possa intendersi penalmente rilevante tout court , nella sua interezza in tema di responsabilità da reato degli enti collettivi, si è ad esempio precisato che profitto del reato oggetto della confisca di cui all'art. 19 del d.lgs. n. 231 del 2001 si identifica con il vantaggio economico di diretta e immediata derivazione causale dal reato presupposto, ma, nel caso in cui questo venga consumato nell'ambito di un rapporto sinallagmatico, non può essere considerata tale anche l'utilità eventualmente conseguita dal danneggiato in ragione dell'esecuzione da parte dell'ente delle prestazioni che il contratto gli impone” Cass., Sez. U, n. 26654 del 27/03/2008, Fisia Italimpianti s.p.a., Rv 239924 . Applicando quegli stessi principi, le Sezioni Unite hanno poi ribadito - con la già citata sentenza Caruso del 2009 - che la nozione di profitto del reato può subire un ridimensionamento quando la condotta contestata non si inserisca nello scenario di un'attività totalmente illecita. In ipotesi, infatti, in cui il comportamento penalmente rilevante venga attuato nell'ambito di un'attività contrattuale e non coincida con la stipulazione del contratto in sé, ma vada ad incidere unicamente sulla fase di esecuzione del programma negoziale, è possibile enucleare aspetti leciti del relativo rapporto, con la conseguenza che il corrispondente profitto tratto dall'agente ben può essere non ricollegabile direttamente alla condotta sanzionata penalmente. Il corrispettivo di una prestazione regolarmente eseguita dall'obbligato ed accettata dalla controparte, che ne trae comunque una concreta utilitas , non può costituire, pertanto, una componente del profitto da reato, perché trova titolo legittimo nella fisiologica dinamica contrattuale [ .]. Altro principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità [ .] è che il profitto del reato presuppone l'accertamento della sua diretta derivazione causale dalla condotta dell'agente. Il parametro della pertinenzialità al reato del profitto rappresenta l'effettivo criterio selettivo di ciò che può essere confiscato a tale titolo occorre cioè una correlazione diretta del profitto con il reato ed una stretta affinità con l'oggetto di questo, escludendosi qualsiasi estensione indiscriminata o dilatazione indefinita ad ogni e qualsiasi vantaggio patrimoniale, che possa comunque scaturire, pur in difetto di un nesso diretto di causalità, dall'illecito”. 2.2 Nella fattispecie oggi in esame, tuttavia, l'identità profitto-ricavo appare immediata, visto che il presupposto logico della contestazione di reato ex art. 2632 cod. civ. come pure dell'addebito concernente l'ostacolo all'esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza, essendo le omesse comunicazioni alla Consob strumentali al raggiungimento dell'obiettivo di mantenere occulta la formazione fittizia del capitale delle società sopra ricordate era proprio quello di raggiungere una apparente consistenza patrimoniale, senza la quale l'attività finanziaria della Fidecomm, della Fidicomm e/o della Praediafin non sarebbe stata in alcun modo possibile. Ergo, tutto ciò che si assume percepito da quelle società attraverso il pagamento dei premi relativi alle fidejussioni non è solo ricavo dell'attività d'impresa, in ipotesi parzialmente fisiologico e lecito, ma immediatamente profitto dei reati in rubrica, atteso che è lo stesso ricorrente ad evidenziare come i presunti ricavi sarebbero stati calcolati sulla base della somma delle polizze incassate dalle tre società”. Né può ritenersi che manchi un rapporto di derivazione immediata e diretta di quelle utilità dalla realizzazione dei reati ex artt. 2632 o 2638 cod. civ., piuttosto che dagli ulteriori addebiti di cui all'art. 132 TUB, atteso che la totalità delle condotte illecite risultavano espressive di un identico ed unitario disegno criminoso, come confermato dallo stesso computo della pena oggetto di richiesta di applicazione in sede di patteggiamento. 3. È invece da considerare fondato il secondo motivo di ricorso. 3.1 Con riguardo al dossier titoli n. 2482/8212905 della Banca Popolare di Novara, infatti, la difesa assume che le somme utilizzate per i relativi investimenti provengono dalla vendita della nuda proprietà di un bene immobile circostanza confermata dallo stesso Gup, anche se - ma l'assunto non è in alcun modo chiarito - ciò dovrebbe riguardare solo una parte della cifra . Parimenti non contestato è che l'immobile de quo, nel momento in cui venne acquisito al patrimonio dell'A. , dovesse considerarsi un bene da far rientrare nella comunione legale esistente con la moglie Daniela Ferrante nel quadro così delineato, non può condividersi la tesi esposta nella sentenza impugnata, e fatta propria anche dal P.g. presso questa Corte, secondo cui avrebbe rilievo dirimente l'essersi l'imputato qualificato, nel momento di rivendere il bene, unico proprietario dello stesso. In mancanza di altri atti formali successivi all'acquisto, l'immobile era ancora da intendere appartenente ad entrambi i coniugi, ed il fatto che l'A. provvide ad alienarne la nuda proprietà senza la partecipazione della Ferrante può solo incidere sulla validità dell'alienazione in parola, non già a trasformare in bene personale quello che invece era e rimaneva a tutti gli effetti un bene comune. È dunque necessario un nuovo esame degli atti, sia per valutare se dal carteggio processuale emergano elementi ulteriori rispetto a quelli impropriamente sottolineati dal giudice di merito , indicativi della riferibilità dell'immobile al solo imputato, sia perché venga data compiuta contezza del perché soltanto meno della metà della somma confluita su quel conto circa 14.000,00 Euro dovrebbe intendersi proveniente dalla vendita sopra richiamata. L'annullamento del provvedimento di confisca deve riguardare, coerentemente alle ragioni sopra evidenziate, nei limiti del 50% della somma confluita sul rapporto in argomento, da quantificare nei termini di cui al dispositivo. 3.2 A proposito del conto titoli n. 100/009509 e del conto corrente n. 1131809 entrambi accesi presso la Banca Network Investimenti , il difensore dell'A. rappresenta che - come già documentato nel corso del processo di merito - su un primo conto intestato alla madre dell'imputato vennero versati quasi 300 milioni di lire nel febbraio 1998 somma da ritenere, non essendovi acquisizioni istruttorie di segno contrario, riferibile alla sola P. e non anche al figlio. Con quella cifra vennero acquistati titoli depositati in un dossier - n. XXXXX - intestato all'A. . Il 25/09/2003, il ricorrente richiese il trasferimento dei titoli medesimi su un altro conto, che poi assunse l'attuale numerazione mentre il conto corrente n. 1131809 deve intendersi, come evidenziato nella sentenza impugnata, semplice rapporto di appoggio, onde riversarvi interessi, dividendi o quant'altro. A questo punto, la circostanza che dopo il settembre 2003 e fino al 2012 non vi siano state altre movimentazioni non fa comprendere che quel denaro sia del figlio, ma cristallizza semmai la situazione precedente in assenza di altre operazioni, è pacifico che il denaro ivi versato avesse quell'unica provenienza, vale a dire dalle disponibilità della P. , giacché - come opportunamente osserva la difesa – per contratto, sarebbe stata tracciata ogni altra operazione - di trasferimento, versamento, svuotamento dei titoli - e i suddetti titoli ed il relativo controvalore altro non potevano essere che quelli acquistati, originariamente, con risorse dell'anziana genitrice dell'A. ”. La motivazione adottata dal Gup assume illogicamente l'impossibilità di presumere che i titoli presenti nel dossier nel 2012 fossero stati acquistati con sostanze provenienti dal conto della madre semplicemente in virtù di quanto in ipotesi fatto fino a dieci anni prima” ma, al contrario, se le disponibilità iniziali provenivano solo da quella fonte, e si evidenzia che nel frattempo non vi sarebbero state altre e diverse provviste ad alimentare il conto titoli o quello di appoggio, si deve proprio presumere quanto apoditticamente negato dal giudicante. In via di mera ipotesi, il ragionamento sviluppato nella sentenza oggetto di ricorso potrebbe semmai giustificare la conclusione che almeno a partire dal 2003 vi sarebbe stata una sostanziale donazione di quelle giacenze dalla madre al figlio, che tuttavia non viene adombrata nella motivazione del provvedimento impugnato, né si chiarisce quanto meno se dal conto corrente di appoggio vi siano state operazioni di trasferimento - ed a chi - degli importi di cui alle cedole maturate nel sottostante dossier titoli. Anche sul punto, pertanto, si impone l'annullamento con rinvio della sentenza in epigrafe. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata, con rinvio per nuovo esame al Tribunale di Roma, limitatamente alla disposta confisca - dei titoli custoditi nel dossier n. 2482/8212905 presso la Banca Popolare di Novara, filiale di Termoli, intestato ad A.G. , fino alla concorrenza del controvalore di Euro 15.775,07 - del deposito titoli n. omissis e della somma versata sul conto corrente n. , accesi presso la Banca Network Investimenti s.p.a. ed Intestati ad A.G. . Rigetta il ricorso nel resto.