Omesso versamento IVA: quando l’istanza di rateizzazione della cartella fa da viatico all’assoluzione

Nel caso di evidente difficoltà finanziaria della società, comprovato dalle dichiarazioni dei redditi e dalle istanze di rateizzazione delle cartelle di pagamento, essendo la fattispecie di cui all’art 10 ter d.lvo 74/2000 esclusivamente dolosa, il giudice ha il dovere di verificare e motivare la sussistenza dell’elemento psicologico del reato, costituito dal dolo sia pure generico.

Lo afferma la III Sezione penale della Suprema Corte, nella sentenza n. 27676, depositata il 26 giugno 2014, intervento che ribadisce la possibile rilevanza della crisi di liquidità al fine di escludere il dolo del delitto di cui all’art. 10 ter d.lvo 74/2000. Ancora sulla rilevanza scriminante della crisi di impresa La Suprema Corte torna ad occuparsi di una delle questioni di maggiore rilevanza, attualità e frequenza in materia penale tributaria. La situazione congiunturale di crisi delle imprese ha, infatti, determinato una vera e propria esplosione è sufficiente esaminare i dati statistici delle principali Procure della Repubblica dei procedimenti penali per violazione degli artt. 10 bis e 10 ter d.lvo 74/2000, che, come noto, lungi dal caratterizzarsi per alcuna attività decettiva in danno della amministrazione finanziaria dello Stato, sono integrati dal mero omesso versamento al di sopra delle soglie di penale rilevanza di somme, che lo stesso contribuente ha dichiarato di dover versare allo Stato. É evidente, allora, che in grandissima parte di detti procedimenti penali la linea difensiva si risolve nella verifica della valenza scriminante o scusante, quale stato di necessita o forza maggiore, ovvero quale causa di esclusione dell’elemento psicologico del reato dolo generico , della situazione di crisi di liquidità che avrebbe determinato l’inadempimento. Se inizialmente la giurisprudenza di legittimità, rifacendosi ai principi elaborati sotto la vigenza della l. n. 516/82 in tema di omesso versamento di ritenute, aveva negato la configurabilità di alcuna scriminante o scusante in relazione allo stato di illiquidità dell’impresa, sotto la spinta di alcune pronunce di merito anche la stessa Suprema Corte, soprattutto dopo le sentenze delle Sezioni Unite nn. 37424/2013 e 37425/2013 – rispettivamente in tema di omesso versamento IVA e omesso versamento di ritenute certificate – ha ammesso, seppur con molti limiti, la possibile rilevanza della crisi di liquidità al fine di escludere la penale responsabilità. I principi elaborati. Come viene puntualmente ricostruito nella sentenza che si annota, proprio con le due appena citate sentenze a Sezioni Unite, gli Ermellini hanno chiarito che non poteva invocarsi l’assenza di liquidità quale scriminante o scusante, a meno che l’imputato non avesse dimostrato che essa non fosse dipesa dalla scelta di non far fronte all’adempimento. Dopo tale prima apertura si sono susseguite una serie di pronunce che hanno specificato la valenza e la portata di detto principio. Con la pronuncia n. 2614/2014 si è, infatti, precisato che, qualora l’imputato fornisca indicazioni concrete e specifiche atte a configurare una reale impossibilità incolpevole all’adempimento, potrà escludersi la sussistenza del dolo e dunque del reato. Con la successiva pronuncia n. 5467/2014 si è riaffermato che, in astratto, non può escludersi che la crisi di liquidità determini l’assenza del dolo o l’assoluta impossibilità di adempiere la obbligazione tributaria, ma l’onere di provare tale situazione incombe sempre sull’imputato che dovrà altresì dimostrare di non aver potuto fronteggiare altrimenti la situazione di crisi. Ancora, con la sentenza n. 5905/2014, si è riconosciuta la non punibilità dell’imprenditore imputato di omesso versamento di ritenute che abbia allegato la sussistenza di una situazione di insolvenza per aver utilizzato le uniche risorse disponibili per pagare gli stipendi ai dipendenti sempre che la situazione di illiquidità non fosse in alcun modo imputabile alla condotta gestionale dell’imprenditore . Infine, con la pronuncia n. 13019/2014, gli Ermellini hanno ribadito che la crisi di liquidità può valere ad integrare l’assenza del dolo o l’assoluta impossibilità di adempiere l’obbligazione tributaria, ma incombe sempre sull’imputato un rigoroso onere di allegazione tale da escludere che la crisi di liquidità sia imputabile in qualche modo alla condotta gestionale dell’imprenditore e tale, altresì, da dimostrare che l’imprenditore non avrebbe potuto fronteggiare altrimenti la situazione di crisi di liquidità ad esempio ricorrendo al credito bancario . L’onere di allegazione dell’imputato e quello di motivazione del giudice Già quanto è stato, seppur brevemente, premesso ci consente di affermare che la pronuncia in commento, lungi dal rappresentare un segno di rottura, si muove in linea di assoluta continuità con la giurisprudenza, invero rigorosa, della Suprema Corte nihil sub sole novum . Nel caso in esame, viene infatti riaffermato l’onere di allegazione, in capo al contribuente imputato, di dimostrare la sussistenza di una grave crisi di liquidità, la non imputabilità della stessa a condotte gestionali dell’imprenditore e l’aver verificato la percorribilità di soluzione alternative onde fronteggiare la situazione di crisi finanziaria. La valenza di tale pronuncia si rinviene, allora, nell’affermazione del correlativo obbligo che viene ravvisato in capo al giudice di merito allorchè l’imputato abbia – in tutto od in parte – assolto ai suddetti oneri di allegazione. In tale ipotesi, specifica la Corte di Cassazione, il Giudice di merito non potrà limitarsi, come accaduto nel caso di specie, ad affermare la irrilevanza della circostanza che l’obbligato potesse trovarsi nell’impossibilità di versare il dovuto per problemi economici anche gravi della propria impresa , poiché così facendo il giudice di merito finirebbe per affermare che la fattispecie di cui all’art. 10 ter d.lvo n. 74/200 è un reato punibile a titolo di responsabilità oggettiva senza considerare che, trattandosi di delitto, è necessaria la prova della sussistenza dell’elemento psicologico del dolo . A fronte dunque dell’assolvimento dell’onere di allegazione da parte dell’imputato consegue un preciso obbligo di motivazione in capo al Giudice di merito, che dovrà puntualmente verificare e motivare se dette allegazioni difensive siano tali – in base ai principi ermeneutici elaborati dalla Suprema Corte – da escludere la sussistenza del dolo, elemento costitutivo necessario della fattispecie in esame. L’assolvimento dell’onere di allegazione. La sentenza che si annota merita, infine, menzione in quanto pare ritenere che l’imputato abbia assolto il proprio onere di allegazione della sussistenza di una grave crisi di liquidità, tale da mettere in dubbio la responsabilità penale, semplicemente producendo le dichiarazioni dei redditi dell’impresa e copia di istanze di rateizzazione delle cartelle di pagamento a suo tempo presentate. Senza dubbio, detta pronuncia potrà costituire valida base onde ritenere che tali due adempimenti possano costituire dei marcatori” della crisi di liquidità dell’impresa idonei a ingenerare il dubbio sulla responsabilità penale dell’imputato. Tuttavia, una più attenta lettura della sentenza induce, almeno chi scrive, a non lasciarsi andare a facili ottimismi. In effetti, la Suprema Corte, più che attribuire valenza decisiva ai suddetti markers , pare prendere atto di come la Corte di Appello, da una lato, avesse ritenuto sussistente una grave crisi di liquidità della impresa, ma dall’altro si fosse limitata ad utilizzare tale non contestato dato di fatto per graduare il trattamento sanzionatorio, senza, dunque, fornire in motivazione risposta alcuna alle specifiche doglianze difensive che da detta circostanza facevano conseguire non tanto un più mite trattamento sanzionatorio, quanto la totale assenza del dolo e quindi del richiesto elemento psicologico del reato. A conferma di tale dato, si evidenzia che la pronuncia in commento viene annullata con rinvio non per contraddittorietà della motivazione, ma per totale mancanza della stessa sul punto. La vexata quaestio dell’IVA 2005. Invero, rilevano gli Ermellini, ad imporre particolare prudenza e dunque un rafforzato onere di motivazione al Giudice di merito, nel caso in esame, vi era l’ulteriore circostanza che, come aveva ampiamente evidenziato l’imputato, la fattispecie in esame riguardava un omesso versamento dell’IVA per l’annualità 2005, mentre come noto la fattispecie incriminatrice dell’art. 10 ter è entrata in vigore solo nel luglio 2006. Se tale dato, come ricordano i Giudici del Palazzaccio con la pronuncia in esame, non può portare a dubbi di legittimità costituzionale della norma come chiarito con la pronuncia a Sezioni Unite n. 37425/2013 , deve tuttavia indurre il giudice ad una più attenta valutazione di quegli elementi di fatto tali da condurre, anche per questioni collegate al divario temporale fra il momento di effettuazione delle ritenute e l’introduzione della norma penale, all’esclusione dell’elemento soggettivo del reato. Tutto ciò mi induce ad affermare che dovremo ancora attendere prima che la Suprema Corte abbandoni il proprio rigore interpretativo e giunga ad escludere la penale antigiuridicità della condotta dell’imprenditore che, di fronte ad una grave crisi di liquidità, non accantoni le somme dovute a titolo di IVA, ma destini le stesse alla prosecuzione della attività imprenditoriale altrimenti impossibile.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 8 aprile – 26 giugno 2014, n. 27676 Presidente Squassi – Relatore Franco Svolgimento del processo A B.A. venne contestato il reato di cui all'art. 10 ter del d. lgs. 10 marzo 2000, n. 74 per non avere versato entro il termine del 27 dicembre 2006 PIVA per il periodo di imposta 2005 pari ad Euro 216.167, come risultava da un controllo automatizzato ex art. 54 bis del d.P.R. 633/1972. Il giudice del tribunale di Ascoli Piceno, con sentenza 22.9.2011, assolse l'imputato perché il fatto non sussiste. A seguito di appello del PG, la corte d'appello di Ancona osservò - che la condotta si era consumata il 27 dicembre 2006 e quindi era intervenuta nella vigenza della legge 248/06, di conversione del d.l. 223/06 - che l'imputato non aveva dedotto elementi a proprio discarico e non poteva ignorare di non avere pagato il proprio debito IVA - che era irrilevante la circostanza che egli potesse trovarsi nella impossibilità di versare il dovuto per problemi economici, ancorché gravi, della propria impresa. L'imputato, a mezzo dell'avv. Lorenzo del Federico, propone ricorso per cassazione deducendo 1 erronea applicazione degli artt. 10 ter del d. lgs. 10 marzo 2000, n. 74, e 42 cod. pen. Osserva che il reato richiede il dolo e che nella specie come risulta dalla documentazione prodotta istanza di rateizzazione di cartelle di pagamento, dichiarazione dei redditi della società è evidente che l'imputato non ha coscientemente e volontariamente omesso di versare le somme relative all'IVA, in quanto la difficoltà finanziaria della società non ha consentito i versamenti. La corte d'appello ha ammesso lo stato di difficoltà della società ma lo ha ritenuto irrilevante. Inoltre non ha considerato che l'imputato avrebbe dovuto reperire la liquidità necessaria in appena cinque mesi, poiché l'art. 10 ter è stato introdotto nel luglio 2006. Se si ritenesse integrato lo elemento psicologico anche in presenza di grave crisi aziendale vi sarebbe contrasto con l'art. 27 Cost. perché sarebbe punito un soggetto per un fatto a lui non rimproverabile e quindi per una condotta inesigibile. Poiché il dolo penalmente rilevante è solo quello sussistente al momento della condotta tipica, il dolo omissivo richiesto nella specie deve necessariamente accompagnare il mancato adempimento alla scadenza del termine circostanza che la corte d'appello ha omesso di valutare. Nella specie risulta provato che la società versava in grave crisi e l'imputato non disponeva della liquidità necessaria per versare le somme. 2 mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione in ordine allo elemento psicologico del reato. Lamenta che la corte d'appello ha acclarato lo stato di difficoltà della società, ma erroneamente non ha escluso il dolo nella condotta omissiva posta in essere. 3 incostituzionalità dell'art. 10 ter in relazione all'anno di imposta 2005 irretroattività in malam partem violazione dell'art. 2 cod. pen. Osserva che se con l'art. 10 ter introdotto nel maggio del 2006 il legislatore ha ricompreso nella condotta criminosa anche l'omesso versamento dell'IVA relativa all'anno 2005, si è dato corso ad una illegittima applicazione retroattiva. L'imprenditore nel 2005, in cui si provvedeva alla liquidazione periodica dell'IVA, riteneva non costituisse reato l'omesso versamento dell'IVA e non si è preoccupato di accantonare la liquidità necessaria, privilegiando altri pagamenti. Il comportamento dell'imputato non era previsto come reato nel 2005 e neanche durante la dichiarazione annuale IVA e HDD, ossia sino al maggio 2006. La norma è quindi palesemente incostituzionale per violazione degli artt. 3 e 25, comma 2, Cost Motivi della decisione L'eccezione di illegittimità costituzionale prospettata con il terzo motivo, in riferimento all'art. 25, secondo comma, Cost., è manifestamente infondata, per le ragioni già indicate dalla Sezioni Unite con la sentenza 28.3.2013, n. 37424, Romano, m. 255758, massimata nel senso che Il reato di omesso versamento dell'imposta sul valore aggiunto art. 10-ter D.Lgs. n. 74 del 2000 , entrato in vigore il 4 luglio 2006, che punisce il mancato adempimento dell'obbligazione tributaria entro la scadenza del termine per il versamento dell'acconto relativo al periodo di imposta dell'anno successivo, è applicabile anche alle omissioni dei versamenti relativi all'anno 2005, senza che ciò comporti violazione del principio di irretroattività della norma penale”. Inoltre, va ricordato che la Corte costituzionale, con le ordinanze n. 224 del 2011 e 25 del 2012 ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, sollevata in relazione all'art. 3 Cost., dell'art. 10 ter d. lgs. 10 marzo 2000, n. 74, limitatamente alle omissioni relative all'anno 2005, ritenendo non lesivo del parametro costituzionale evocato il fatto che il debitore IVA per l'anno 2005 disponesse di un termine minore, dall'introduzione della norma, a luglio 2006, al 27 dicembre 2006, di quello accordato ai contribuenti per gli anni successivi. È invece fondato il primo motivo, avendo la corte d'appello sostanzialmente omesso di motivare, se non in modo meramente apparente, sulle specifiche eccezioni proposte dalla difesa con l'appello relativamente alla mancanza dello elemento soggettivo del reato. La difesa aveva invero ricordato che l'art. 10 ter cit. prevede la sussistenza del dolo, escludendo quindi ipotesi colpose. Aveva poi eccepito che nel concreto caso in esame, anche attraverso una produzione documentale istanze di rateazione di cartelle di pagamento, dichiarazione dei redditi della società emergeva la prova che il B. non aveva coscientemente e volontariamente omesso di versare le somme relative all'IVA, ma per la difficoltà finanziaria della società da lui rappresentata non si era trovato nella condizione di potere effettuare i versamenti degli importi risultanti dalle relative dichiarazioni. La condotta di versamento dell'IVA era dunque per lui inesigibile perché lo stato di crisi aziendale aveva di fatto reso impossibile il versamento per il legale rappresentante. Aveva inoltre evidenziato che, relativamente all'IVA, l'imputato avrebbe dovuto reperire la liquidità necessaria in appena cinque mesi, perché l'art. 10 ter, che aveva introdotto la nuova norma incriminatrice penale anche per il periodo di imposta del 2005, era entrato in vigore solo nel luglio del 2006. Pertanto, secondo la difesa, la condotta omissiva non era rimproverabile al B. , perché la stessa era da ritenere inesigibile, mentre per i reati omissivi propri il dolo è costituito dalla rappresentazione del presupposto del dover agire e dalla volontà di non compiere l'azione doverosa idonea e possibile . Aveva inoltre osservato che il dolo penalmente rilevante è solo quello sussistente al momento della condotta tipica, e quindi il dolo omissivo in questione doveva necessariamente accompagnare il mancato adempimento del comportamento doveroso alla scadenza del termine prescritto. Pertanto, qualora il soggetto, a causa di una obiettiva mancanza di liquidità, non possa fare altro che omettere il tempestivo versamento delle imposte dovute, non risulta integrato il dolo tipico del reato, stante la effettiva mancanza di volontà dell'omissione, e dunque il soggetto non può essere ritenuto personalmente responsabile per il fatto reato. Nel caso di specie, secondo l'eccezione difensiva, risultava evidente, sulla base della documentazione prodotta, che la società versasse in una grave crisi economico finanziaria e che il B. si trovasse nella impossibilità di disporre della liquidità necessaria per poter versare le somme risultanti dalla dichiarazione IVA relativa al 2005, sicché la situazione di illiquidità rendeva inevitabile la condotta omissiva. Orbene, a fronte di questi specifici motivi di impugnazione, la corte d'appello di Ancona ha, da un lato, ammesso lo stato di difficoltà finanziaria della società, avendo accertato, in relazione alla determinazione della pena, che la causa dell'omesso versamento era rapportabile allo stato di crisi della società di cui era legale rappresentante il B. che trova riscontro nelle copie delle dichiarazioni dei redditi della stessa che sono state acquisite al fascicolo processuale”. Nonostante questo accertamento, però, la corte d'appello ha ritenuto sussistente il necessario elemento soggettivo del reato con una motivazione appunto apodittica e meramente apparente, essendosi limitata ad osservare che irrilevante essendo, ai fini dell'integrazione dell'illecito, la circostanza che l'obbligato potesse trovarsi nell'impossibilità di versare il dovuto per problemi economici, anche gravi, della propria impresa”. In altre parole, sembra che secondo la corte d'appello si tratti di un reato punibile a titolo di responsabilità oggettiva senza considerare che, trattandosi di delitto, è necessaria la prova della sussistenza dell'elemento psicologico costituito dal dolo, sia pure generico. Questa totale mancanza di motivazione sull'esistenza dell'elemento psicologico del reato e sui relativi specifici motivi di impugnazione è sufficiente per l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata, senza che occorra in questa sede approfondire il tema - divenuto acuto negli ultimi anni - della incidenza della crisi dell'impresa sul reato in esame. È sufficiente qui ricordare che le sentenze delle Sezioni Unite n. 37424/2013, in tema di omesso versamento IVA, e n. 37425/2013, in tema di omesso versamento di ritenute, hanno affermato che non può essere invocata l'assenza di liquidità, qualora non si dimostri che essa non sia dipesa dalla scelta di non fare fronte all'adempimento. La sentenza 21.1.2014, n. 2614, ha riconosciuto che indicazioni specifiche e concrete atte a ravvisare una reale impossibilità incolpevole all'adempimento possono escludere il dolo e, dunque, il reato. La sentenza 5.2.2014, n. 5467, ha affermato che, nei casi di mancato versamento, non si può escludere in astratto l'assenza di dolo o l'assoluta impossibilità di assolvere all'obbligazione tributaria per la crisi di liquidità, occorrendo, però, provare la non imputabilità al contribuente della crisi e che detta crisi non può essere adeguatamente fronteggiata tramite il ricorso, da parte dell'imprenditore, a idonee misure, sempre da valutarsi in concreto. La sentenza 7.2.2014, n. 5905, ha affermato che può essere esclusa la colpevolezza dell'imprenditore che omette di versare le ritenute operate, se non dispone della provvista necessaria per aver utilizzato le sole risorse finanziarie disponibili per pagare gli stipendi ai dipendenti e che in tale caso l'onere probatorio o meglio di allegazione della situazione di insolvenza incombe sull'imputato, aggiungendo che la forza maggiore può escludere la punibilità del reato di cui all'art. 10 bis nel caso di una imprevista ed imprevedibile indisponibilità del denaro necessario, non correlata in alcun modo alla condotta gestionale dell'imprenditore. La sentenza 25.2.2014, n. 13019, ha ritenuto che non è escluso che siano possibili casi nei quali possa invocarsi l'assenza del dolo o l'assoluta impossibilità di adempiere l'obbligazione tributaria, ma in tal caso occorre che siano assolti gli oneri di allegazione che, per quanto attiene alla lamentata crisi di liquidità, dovranno investire non solo l'aspetto della non imputabilità a chi abbia omesso il versamento della crisi economica che ha investito l'azienda o la sua persona, ma anche la prova che tale crisi non sarebbe stata altrimenti fronteggiabile tramite il ricorso, da parte dell'imprenditore, ad idonee misure da valutarsi in concreto. Va altresì sottolineato che, nel caso in esame, la corte d'appello ha poi totalmente omesso di esaminare l'aspetto evidenziato con i motivi di appello relativo al fatto che si trattava di una situazione particolare perché il reato riguardava il mancato versamento degli importi IVA dovuti per il 2005, mentre la norma che puniva la condotta omissiva come reato è entrata in vigore solo nel luglio 2006, dando così solo pochi mesi di tempo al contribuente che eventualmente, a fronte di una crisi finanziaria dell'impresa, avesse voluto gestire le risorse economiche confidando sul fatto che il mancato versamento dell'IVA avrebbe comportato solo sanzioni pecuniarie e avesse perciò privilegiato il pagamento di debiti maggiormente indilazionabili. E difatti, la sentenza delle Sezioni Unite n. 37425/2013, ha affermato che Piuttosto, in relazione alle singole fattispecie concrete, possono venire in rilievo elementi tali da condurre, anche per questioni collegate al divario temporale fra il momento di effettuazione delle ritenute e l'introduzione della norma penale, all'esclusione dell'elemento soggettivo del reato. Ciò in particolare potrebbe verificarsi nel caso in cui l'omissione del versamento nella misura prevista al momento della scadenza del termine annuale rinviene la sua ragione esclusiva e non più ovviabile in un comportamento colpevole interamente posto in essere prima dell'introduzione della norma penale, quando le conoscibili e prevedibili conseguenze di esso consistevano solo in una sanzione amministrativa”. La sentenza impugnata va dunque annullata per mancanza di motivazione con rinvio per nuovo esame alla corte d'appello di Perugia. P.Q.M. La Corte Suprema di Cassazione annulla la sentenza impugnata con rinvio alla corte d'appello di Perugia.