Un nickname e un programma di file sharing: così un agente di polizia postale smaschera l’imputato di pedopornografia

L’art. 14, l. n. 269/1998 prevede che le attività di acquisto simulato di materiale pedo-pornografico siano effettuate da un ufficiale di p.g. In realtà, tutti gli appartenenti alla Polizia Postale possono utilizzare sistemi informatici o mezzi di telecomunicazione telematica, nonché reti di scambio dei dati sul web .

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione nella sentenza n. 7505 del 18 febbraio 2014. Il fatto. La vicenda in esame riguarda un’accusa di detenzione e scambio di materiale pedopornografico, commessi in violazione degli artt. 600 -ter e 600 -quater c.p. Alla base della stessa, le indagini svolte sotto copertura da un agente della Polizia Postale il quale, con un nickname e usando un programma di file sharing , individuava e scaricava da un utente denominato Pandicino”, dei files di contenuto pedopornografico. L’abitazione dell’utente, identificato nell’imputato, veniva, così, perquisita, rinvenendo in tal modo le immagini corpo del reato. L’uomo ricorre in Cassazione, sostenendo l’inutilizzabilità delle prove raccolte non da un ufficiale di p.g. ma semplicemente da un’agente che ha agito da osservatore e verificatore dell’attività illecita ipotizzata. Tra l’altro, la stessa l. n. 269/1998 afferma che tale tipologia di attività investigativa ha carattere eccezionale. Polizia postale poteri in materia di reati informatici. La Corte di Cassazione respinge il ricorso l’art. 14, l. n. 269/1998 prevede che le attività di acquisto simulato di materiale pedo-pornografico siano effettuate da un ufficiale di p.g. In realtà, tutti gli appartenenti alla Polizia Postale possono utilizzare sistemi informatici o mezzi di telecomunicazione telematica, nonché reti di scambio dei dati sul web . E questo è quanto si è verificato nel caso di specie, per cui la prova legittimamente acquisita è perfettamente utilizzabile Sede non appropriata per discutere il provvedimento ablatorio. Il ricorrente censura, inoltre, l’eccessiva genericità della motivazione posta a fondamento del decreto di perquisizione e sequestro della sua abitazione, la quale si limita a richiamare per relationem gli atti di p.g. pregressi, non permettendogli un’adeguata difesa. Il Supremo Collegio respinge anche tale doglianza in quanto non tiene conto del fatto che il decreto di sequestro è un mezzo di ricerca della prova, puntando solo a mettere in discussione il provvedimento ablatorio in una sede non appropriata. L’uomo, poi, sembra dimenticare che la sua posizione è stata definita con rito abbreviato che costituisce un procedimento a prova contratta, nel cui ambito gli elementi raccolti nel corso delle indagine preliminari assumono un valore probatorio di cui essi sono normalmente sprovvisti nel giudizio che si svolge nelle forme ordinarie. Programmi di condivisione c.d. file sharing . Infondato anche il motivo di ricorso con il quale l’imputato sostiene che la volontà di divulgazione non può essere desunta solo dalla disponibilità di programmi di file sharing . Piazza Cavour concorda con tale tesi ma, nel caso di specie, si deve considerare che l’agente sotto copertura scaricò proprio attraverso tale programma i numerosi files messi in rete dall’utente con il nickname Pandicino” riconducibile certamente all’imputato che quel giorno utilizzava il medesimo file sharing . La condotta detentiva è assorbita nella divulgazione se il materiale è lo stesso. Manifestamente infondata anche la doglianza afferente il mancato assorbimento della detenzione del materiale pedo-pornografico nella condotta di divulgazione visto che ciò vale solo quando si tratti dello stesso materiale. Nel caso in esame, al contrario, la contestazione della detenzione riguarda materiale ulteriore rispetto a quello divulgato ceduto, cioè, all’agente provocatore . Anche l’aggettivo copioso” – criticato dal ricorrente – è corretto, in quanto riferito sia al materiale divulgato sia a quello detenuto. Il ricorso, pertanto, è inammissibile.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 12 dicembre 2013 – 18 febbraio 2014, n. 7505 Presidente Teresi – Relatore Mulliri Ritenuto in fatto 1. Vicenda processuale e provvedimento impugnato - Il ricorrente è stato accusato di avere detenuto e scambiato materiale pedopornografico e di avere detenuto altro materiale della stessa specie in tal modo, violando sia l'art. 600 ter che il 600 quater c.p Va precisato che l'accusa è scaturita dalle indagini che hanno preso il via da un'attività sotto copertura realizzata dall'agente della polizia postale L.L. il quale, assumendo il nickname netseeker ed utilizzando il programma di file-sharing condivisione di documenti denominato Direct Connect, aveva individuato e scaricato, da un utente denominato P. , dei files di contenuto pedopornografico. L'utente in questione era stato identificato nell'odierno ricorrente e, dalla perquisizione presso la sua abitazione, era stato acquisto materiale informatico con immagini a chiarissimo contenuto pedopornografico. La sentenza di condanna di primo grado è stata confermata dalla Corte d'appello. 2. Motivi del ricorso - Avverso tale ultima decisione, il condannato ha proposto ricorso, tramite difensore, deducendo 1 violazione di legge 2 vizio di motivazione 3 inosservanza ed erronea applicazione della legge A specificazione della denuncia di tali vizi, si richiama, innanzitutto, l'attenzione sul fatto che le prove acquisite sono inutilizzabili per essere state acquisite in violazione della L. 3.8.89 n. 14 così come affermato da più sentenze di questa S.C. Sez. III, n. 904/03 Sez. III, 3.12.01, D'Amelio . Ed infatti, l'operante, L.L. non è ufficiale di polizia giudiziaria ma semplicemente un agente e, per di più, egli non ha agito da agente provocatore ma da osservatore e verificatore dell'attività illecita ipotizzata. A tal fine, si ricorda che anche la giurisprudenza di questa S.C. sez. III, 17.1.08, n. 8380 ha affermato che l'attività di indagine richiamata dalla legge 269/98 ha carattere di eccezionalità con il risultato che tutte le attività compiute al di fuori della sua previsione sono illegittime e le prove inutilizzabili. Si sostiene, inoltre, la illegittimità del decreto di perquisizione e sequestro perché motivato genericamente con la espressione in relazione alle fattispecie di cui all'art. 600 ter c.p. e, quindi, inidoneo a garantire la possibilità di difesa vista l'assenza di specificazione del comma v. Sez. III, 5.5.04, Gullello, n. 37074, Rv. 230027 . Si fa, altresì, notare che il decreto di sequestro contiene un rinvio, per relationem, ad atti di P.G. pregressi dei quali, però, l'indagato nulla poteva sapere - né avrebbe saputo sino alla notifica dell'avviso di chiusura delle indagini - con il risultato che non sarebbe stato in grado di fornire giustificazioni non conoscendo ciò da cui avrebbe dovuto difendersi. Sul piano soggettivo, il ricorrente ricorda la necessità della prova di una volontà di divulgazione che non può essere desunta solo dalla disponibilità di programmi di file-sharing. Il ricorrente sottolinea, poi, che al P. sono stati trovati moltissimi files musicali e solo 38 immagini pedopornografiche perciò critica l'uso dell'aggettivo copiosi da parte della Corte d'Appello ed evidenzia che, nel p.c dell'imputato, non è stato rinvenuto il programma di condivisione DC++. In ogni caso, sulla base dei modesto numero di immagini rinvenute e l'assenza di files temporanei dai quali desumere con certezza quando sia avvenuta l'acquisizione dei files vietati, deve ritenersi non escludibile l'eventualità che l'acquisizione sia avvenuta in modo casuale. A tale ultimo proposito, il ricorrente critica la posizione assunta dai giudici di secondo grado di non credere all'imputato facendo notare che, se quest'ultimo avesse voluto sottrarsi alle proprie responsabilità, sin dal momento del sequestro avrebbe assunto un diverso atteggiamento difensivo considerato anche che egli viveva in un appartamento dove abitavano altre persone. L'ultima censura riguarda il fatto che all'imputato siano state contestate le due ipotesi criminose del 600 ter e del 600 quater laddove, all'evidenza, la divulgazione del materiale presuppone la sua detenzione. Il ricorrente conclude invocando l'annullamento della sentenza impugnata. Considerato in diritto 3. Motivi della decisione - Il ricorso è manifestamente infondato e, quindi, inammissibile. Una delle ragioni che conduce a tale pronunzia è costituita dal rilievo che, a ben vedere, le questioni che il ricorrente solleva dinanzi a questa S.C. sono esattamente le stesse formulate in appello e, ad esse, la corte di secondo grado ha replicato puntualmente e correttamente. In particolare, si rileva che, a f. 7 della sentenza impugnata, viene giustamente fatto notare che l'art. 14 della L. 269/98 contiene un primo ed un secondo comma. Se è vero che nel primo, come evidenziato dalla difesa, è previsto che le attività di acquisto simulato di materiale pedo-pornografico siano effettuate da un ufficiale di P.G., è anche vero che il secondo comma parla genericamente di tutti gli appartenenti alla Polizia Postale con riferimento alle attività di utilizzo di sistemi informatici o mezzi di telecomunicazione telematica e per reti di scambio dei dati sul web. Quest'ultima è, per l'appunto, l'attività svolta nella specie dall'agente L. il quale accertò la detenzione e la divulgazione di materiale a carattere pedo-pornografico da parte del P. . Non solo, quindi, non si ravvisa giustamente alcuna inutilizzabilità della prova legittimamente acquisita ma è stata anche altrettanto correttamente respinta l'eccezione - qui riproposta - relativa al decreto di perquisizione e sequestro. Ferma restando la validità della replica offerta sul punto dalla Corte ff. 7 e 8 , ad essa possono aggiungersi ulteriori considerazioni. In primo luogo, quella concernente la erroneità della tesi secondo cui il ricorrente, con la motivazione per relationem del provvedimento di perquisizione e sequestro, non sarebbe stato in grado di conoscere ciò da cui avrebbe dovuto difendersi. Basterebbe, all'uopo, ricordare semplicemente che, in caso di riesame del decreto, avrebbero dovuto essere depositati anche gli atti di p.g. sui quali esso si fondava e, quindi, non si sarebbe dovuto aspettare la chiusura delle indagini come qui sostenuto . In ogni caso, il discorso del ricorrente - oltre a dimenticare che il decreto di sequestro è mezzo di ricerca della prova - punta a mettere in discussione il provvedimento ablatorio in una sede non appropriata esistendo l'apposito strumento della richiesta di riesame e l'eventuale ricorso in cassazione avverso quel provvedimento . Secondariamente, vi è anche da ricordare che l'imputato ha definito il giudizio di primo grado con rito abbreviato e che, quindi, valgono i principi enunciati da questa S.C. S.U. 23.6.00, Tammaro, Rv. 216246 circa il fatto che il giudizio abbreviato costituisce un procedimento a prova contratta , alla cui base è identificabile un patteggiamento negoziale sul rito a mezzo del quale le parti accettano che la regiudicanda sia definita all'udienza preliminare alla stregua degli atti di indagine già acquisiti e rinunciano a chiedere ulteriori mezzi di prova . In tal modo, le parti acconsentono anche ad attribuire agli elementi raccolti nel corso delle indagini preliminari quel valore probatorio di cui essi sono normalmente sprovvisti nel giudizio che si svolge invece nelle forme ordinarie del dibattimento e, così facendo, rinunciano implicitamente a far valere eventuali vizi non patologici . Proseguendo nella disamina delle argomentazioni difensive, si rivela fallace anche la questione che il ricorrente svolge, suggestivamente, evocando la giurisprudenza di questa S.C. in materia di detenzione di programmi di condivisione c.d. file sharing . E' ben vero, infatti, che, anche di recente, questa stessa sezione sez. III, 10.11.11, Pagura, Rv. 251401 ha ribadito il concetto che la semplice disponibilità di detti programmi non implica per ciò solo, ed in assenza di ulteriori specifici elementi, la volontà, nel soggetto agente, di divulgare detto materiale , vi è da dire, però, che nella specie, l'argomento è irrilevante visto che la dimostrazione della divulgazione è fornita proprio dall'acquisizione dei files pedopornografici da parte dell'agente L. Nella sentenza impugnata, si ricorda, infatti, f. 9 che l'agente sotto copertura scaricò proprio attraverso tale programma i numerosi files messi in rete dall'utente con il nickname P. riconducibile certamente al P.F. che quel giorno utilizzava il medesimo file sharing . Il tutto senza tralasciare di chiosare, altresì, che si tratta di argomento nuovo rispetto alla tesi difensiva sviluppata in appello di non avere avuto consapevolezza della detenzione del materiale pedopornografico . Alla stregua di quanto precede, anche il tema del mancato rinvenimento del programma di file sharing DC++ è implicitamente disatteso perché smentito nei fatti come, del resto già fatto notare anche dalla corte d'appello - f. 9 . Per le medesime ragioni, giustamente i giudici di secondo grado hanno respinto anche la tesi dell'acquisizione casuale del materiale illecito e l'argomento non può certo essere qui riproposto così come quello tendente a valorizzare il comportamento processuale dell'imputato visto che si tratta, all'evidenza, di mera riproposizione dei dati fattuali in una diversa prospettiva senza che, però, in questa sede di legittimità sia consentito un siffatto apprezzamento. E', infine, manifestamente infondata anche la doglianza afferente il mancato assorbimento della detenzione del materiale pedo-pornografico nella condotta di divulgazione visto che - come già fattosi notare nella sentenza impugnata - il discorso, nel caso specifico, non trova spazio perché esso vale quando si tratti dello stesso materiale. Al contrario, nel caso in esame, f. 10 la contestazione della detenzione riguarda il materiale ulteriore rispetto a quello divulgato ceduto, cioè all'agente provocatore sì che, in ogni caso, e anche l'aggettivo copioso criticato dal ricorrente ha una propria logica se lo si considera riferito a tutto quanto rinvenuto, sia, il materiale divulgato, sia, quello semplicemente detenuto. La declaratoria di inammissibilità, sancendo la mancata insaturazione di un valido rapporto di impugnazione, preclude, infine, anche la possibilità, per questa S.C., di dichiarare il sopraggiungere della causa di estinzione del reato di cui all'art. 157 c.p. S.U. 22.3.05, Bracale, Rv. 231164 . Segue, per legge, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento alla Cassa delle Ammende della somma di 1000 €. P.Q.M. Visti gli artt. 615 e ss. c.p.p. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento alla Cassa delle Ammende della somma di 1000 €.