Capo di abbigliamento imitazione dell’originale, anche il commerciante può essere ingannato

Prima di arrivare alla condanna per la vendita di merce contraffatta, bisogna valutare attentamente l’eventualità che il commerciante sia stato buggerato. Decisivi il grado di perfezione del ‘segno’, il modus dell’acquisto dal fornitore e quello della vendita ai clienti.

Capi di abbigliamento ingannevoli? Non si può valutare solo la capacità di fregare il cliente, ma anche quella di ‘fuorviare’ il commerciante. Quest’ultima ipotesi – chiarisce la Cassazione, con sentenza n. 46198, Terza sezione Penale, depositata oggi – va verificata con grande attenzione, prima di poter eventualmente pronunciare una condanna per la vendita di prodotti con ‘segni mendaci’. Negozio e commerciante ‘sospetti’. A finire sul banco degli imputati è un commerciante. Nel suo negozio, difatti, vengono rinvenuti, in vendita, capi di abbigliamento con segni grafici brevettati da una ditta, e che, secondo l’accusa, vanno considerati mendaci in quanto non sovrapponibili agli originali, ma che ad essi si richiamavano in maniera incisiva . La condanna è scontata, per la giustizia decisione ufficializzata in primo grado, e confermata in Appello. Soprattutto tenendo presente che il commerciante ben conosceva il mondo della moda , quindi era a conoscenza del fatto che i capi incriminati erano richiesti e per questo motivo ne aveva fatto un massiccio ordinativo, con maggiore convenienza economica, trattandosi di imitazioni ben fatte . Venditore buggerato? Elemento centrale, per il difensore del commerciante, è l’elemento psicologico del reato. E su questo viene fondato il ricorso in Cassazione. Quali gli elementi a sostegno di questa tesi? Primo, acquisto effettuato in modo regolare, con tanto di fattura secondo, nessuna indagine, in Appello, sulla attitudine ingannatrice del segno distintivo , anche per un commerciante terzo, nessun dato relativo alla consapevolezza e alla volontarietà della condotta attribuita al commerciante. Nella visione proposta dal legale, il nodo, mai sciolto, è quello relativo alla valutazione della eventualità che anche il commerciante stesso fosse stato tratto in inganno. E che, quindi, la messa in vendita fosse stata un’azione non finalizzata a truffare i clienti. Lacuna da colmare. La premessa fondamentale, anche da parte dei giudici della Cassazione, è quella relativa alla merce nessun dubbio sul fatto che i capi d’abbigliamento fossero non una contraffazione, ma una ottima imitazione del marchio originale del prodotto . Ne discende, di conseguenza, la condanna del commerciante? Per rispondere a questa domanda, viene chiarito che la aspirazione a venire incontro ai gusti della clientela è caratteristica tipica sì di ogni venditore , ma non può essere considerata sintomatica del dolo di detenere e vendere merce illecita . Per questo motivo, è fondamentale valutare – passaggio, questo, mancato in Appello – se la fattura del mendacio possa essere idonea a trarre in inganno non solo il consumatore medio ma anche il commerciante con competenza specifica nel settore dell’abbigliamento . Da esaminare, in questa ottica, ad esempio, anche le modalità di acquisto della merce dal fornitore e di vendita alla clientela. Toccherà alla Corte d’Appello – a cui la Cassazione rimette la questione, accogliendo il ricorso – porre rimedio alla lacuna.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 12 ottobre – 13 dicembre 2011, n. 46198 Presidente Mannino – Relatore Squassoni Motivi della decisione Confermando la decisione del primo Giudice, la Corte di Appello di Trento, con sentenza 17 marzo 2010, ha ritenuto C.B. responsabile del reato previsto dall'articolo 517 cod. pen. e lo ha condannato alla pena di giustizia. A sostegno della conclusione, i Giudici hanno rilevato come l'imputato, nel suo negozio di abbigliamento, vendesse dei capi con segni grafici brevettati dalla ditta BROS Spa che dovevano considerarsi mendaci in quanto non sovrapponibili agli originali, ma che ad essi si richiamavano in maniera incisiva. Per quanto concerne l'elemento psicologico del delitto, la Corte ha evidenziato come l’appellante, che ben conosceva il mondo della moda, fosse edotto che i menzionati capo erano richiesti per cui ne aveva fatto un massiccio ordinativo con maggiore convenienza economica trattandosi di imitazioni ben fatte. Per l'annullamento della sentenza, l'imputato ha proposto ricorso per Cassazione deducendo difetto di motivazione sulla sussistenza dell'elemento psicologico del reato, in particolare, rilevando - che l'acquisto era stato effettuato in modo regolare e documentato da una ditta sua abituale fornitrice - che il dolo è stato ritenuto sussistente per una presunzione assoluta derivante dalla sua professione senza indagare in merito al dedotto errore sulla attitudine ingannatrice del segno distintivo legando la colpevolezza alla sua qualifica, la Corte ha concluso per una mera responsabilità da posizione - che circa la consapevolezza e volontarietà della condotta, la motivazione è apparente e priva dei necessari passaggi logici. Le deduzioni sono meritevoli di accoglimento. E' appena il caso di osservare come, anche dopo la novazione dell'articolo 606 comma 1 lett. e cod. procomma pen., in presenza di un eccepito vizio motivazionale, il compito della Cassazione abbia un orizzonte circoscritto in quanto non può estendersi ad una rinnovata ponderazione del coacervo probatorio se la conclusione dei Giudici di merito sia sorretta da motivazione congrua e logica tale non è il caso m esame. E' circostanza pacifica agli atti neppure contestata dal ricorrente che sussista l'elemento materiale del reato e che vi sia stata non una contraffazione, ma una ottima imitazione del marchio originale del prodotto. La problematica che il caso pone concerne solo l'elemento psicologico del delitto che è punito a titolo di dolo generico , ma richiede in quanto presupposto del reato la consapevolezza della natura mendace ed ingannevole del segno utilizzato. Sul punto, le censure ora al vaglio di legittimità erano già state sottoposte all'esame dei Giudici di merito e confutate sotto il profilo che l 'imputato, e sperto nel settore, aveva assecondato la tendenza dei potenziali clienti con convenienza economica vendendo capi ben imitati. In tale modo, la Corte territoriale ha valorizzato un elemento neutro al fine che rileva dal momento che la aspirazione a venire incontro ai gusti della clientela è di ogni venditore e non è sintomatica del dolo di detenere e vendere merce illecita. Di conseguenza, i Giudici non hanno risposto puntualmente alle censure dell'appellante per il superamento delle quali necessitava sondare il seguente tema se la fattura del mendacio era idonea a tra1rre in inganno non solo il consumatore medio che, nelle ordinarie contrattazioni commerciali, pone scarsa ponderazione ai marchi o segni sui prodotti , ma anche l'imputato che era un soggetto con competenza specifica nel settore dello abbigliamento. Per rispondere al quesito occorreva verificare il grado di perfezione del segno imitato e la possibilità di essere confuso con quello autentico anche da un esperto che non abbia la simultanea visione del segno originale. Pure le modalità di acquisto della merce dall’abituale fornitore dell'imputato come dimostrato dalle fatture agli atti e di vendita ai clienti del negozio sono elementi significativi per verificare l'elemento soggettivo del reato. Per le esposte considerazioni, la sentenza in esame deve essere annullata con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Trento. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Trento per un nuovo esame.