L'aggravante della clandestinità può essere neutralizzata dal giudice dell'esecuzione

di Massimo Brazzi

di Massimo Brazzi * La questione. Lo straniero condannato con sentenza definitiva al quale è stata applicata nel giudizio di cognizione la circostanza aggravante della clandestinità ex art. 61, n. 11 bis, c.p., successivamente dichiarata incostituzionale dalla Consulta con sentenza n. 249 del 2010, può adire il Giudice dell'esecuzione e chiedere lo sconto di pena. Lo ha stabilito il Tribunale di Milano, in funzione di Giudice dell'esecuzione, con l'ordinanza emessa il 26 gennaio 2011, chiamato a pronunciarsi sull'istanza formulata ex art. 673 c.p.p. da uno straniero condannato con sentenza definitiva al quale era stata applicata, nel giudizio di cognizione, l'aggravante della clandestinità. La possibilità di applicare la disciplina dell'abolitio criminis anche in relazione all'aggravante dichiarata incostituzionale. Secondo il Giudice meneghino risulta possibile neutralizzare gli effetti dell'aggravante della clandestinità dichiarata incostituzionale, formulando in sede esecutiva l'istanza ex art. 673 c.p.p. che disciplina la Revoca della sentenza per abolizione del reato . L'intangibilità del giudicato penale, a presidio della certezza giuridica del singolo caso e dell'effettiva esecuzione della pena inflitta dal Giudice con la sentenza divenuta irrevocabile, può essere superata nelle seguenti ipotesi 1 abrogazione della norma incriminatrice ex art. 2 c.p. 2 dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice. Apparentemente, quindi, tertium non datur, e pertanto nessuna possibilità di intaccare il giudicato penale sarebbe attuabile tutte le volte che l'abrogazione o la declaratoria di incostituzionalità non riguardi la fattispecie incriminatrice, ma soltanto la disciplina lato sensu sanzionatoria . Secondo la ricostruzione ermeneutica fornita dal Tribunale di Milano con l'ordinanza in commento risulta invece possibile applicare retroattivamente la lex superveniens, o gli effetti della pronuncia della Consulta, qualora le modifiche incidano esclusivamente sul trattamento sanzionatorio e non sulla illiceità penale del fatto. Il punto di partenza per l'interpretazione evolutiva sostenuta dal Giudice meneghino risiede nell'art. 14, comma 1, L. 24 febbraio 2006 n. 85 che ha novellato l'art. 2 c.p., inserendo il comma 3 di nuovo conio , il quale recita Se vi è stata condanna a pena detentiva e la legge posteriore prevede esclusivamente la pena pecuniaria, la pena detentiva inflitta si converte immediatamente nella corrispondente pena pecuniaria, ai sensi dell'art. 135 . Quindi, a seguito della predetta modifica legislativa, il giudicato penale può essere efficacemente intaccato non solo nella classica ipotesi di abolitio criminis, ma anche quando, fermo rimanendo l'illiceità penale del fatto, lo ius superveniens modifichi soltanto il trattamento sanzionatorio, sostituendo alla pena detentiva la sola pena pecuniaria. Proprio la novella legislativa sopra citata può essere considerata il Cavallo di Troia utilizzato dal Tribunale di Milano per sancire la retroattività della pronuncia della Corte Costituzionale che ha espunto dall'ordinamento l'aggravante della clandestinità sostenendo testualmente se il giudicato può essere travolto nel caso, poc'anzi delineato, contemplato dall'art. 2, comma 3, c.p. la medesima soluzione, a fortiori, deve essere affermata nell'ipotesi di dichiarazione di incostituzionalità di una disposizione che prevede una circostanza aggravante, ipotesi riconducibile nell'art. 30, comma 4, L. n. 83 del 1957. Si versa quindi in un'ipotesi di eadem ratio rispetto all'art. 2, comma 3, c.p. poiché, a seguito della pronuncia della Consulta, viene censurato l'aumento di pena per il semplice fatto di aver commesso il reato nella condizione di clandestino all'interno del territorio nazionale. La violazione del principio costituzionale di uguaglianza e di finalità rieducativa della pena. Nel caso in questione la possibilità di intaccare il giudicato penale risulta doverosa in quanto se il legislatore ha previsto espressamente che nell'ipotesi di ius superveniens, il quale abbia sostituito alla sanzione detentiva la sola pena pecuniaria, la prima dovrà essere convertita nella corrispondente pena pecuniaria, allo stesso modo il giudicato deve essere travolto nel caso in cui, addirittura, è stata eliminata dall'ordinamento una disposizione che prevedeva una circostanza aggravante, perciò idonea ad incidere sulla quantificazione della pena . Pertanto l'interpretazione evolutiva del Giudice meneghino risulta conforme sia al principio di uguaglianza ex art. 3 Cost. che al principio di finalità rieducativa della pena ai sensi dell'art. 27, comma 3, Cost. poichè, nell'ambito del calcolo dosimmetrico della pena, si sarebbe tenuto conto di un'aggravante dichiarata incostituzionale di conseguenza il quid pluris di pena inflitta non potrebbe avere alcun finalità risocializzante e rieducativa! La possibilità di una revoca parziale della res judicata in siffatta ipotesi risulta ampiamente ragionevole poiché attualmente il clandestino, che venga giudicato in sede penale, non sarà sottoposto all'inasprimento di pena per la sua condizione di irregolare. Pertanto la condizione dell'extracomunitario, giudicato con sentenza penale irrevocabile al quale sia stata applicata l'aggravante ex art. 61, 11 bis, c.p., dovrà essere riequilibrata essendo venuta meno la premessa per l'applicazione dell'aumento di pena. I poteri del Giudice dell'esecuzione. Formulata l'istanza ex art. 673 c.p.p. per sopravvenuta declaratoria di incostituzionalità della circostanza aggravante della clandestinità ex art. 61, n. 11 bis, c.p., il Giudice dell'esecuzione dovrà procedere con rito camerale ai sensi dell'art. 666 c.p.p. e quindi, accertata la fondatezza della richiesta, eliminerà dalla sentenza irrevocabile il quantum di pena applicato a titolo di aumento sulla quantificazione individuata per il reato base. Si versa quindi in un'ipotesi di revoca parziale del giudicato nell'ambito del quale il Giudice dell'esecuzione, una volta eliminata l'aggravante della clandestinità, potrà valutare se concedere l'eventuale beneficio della sospensione condizionale della pena qualora la medesima sia stata negata dal Giudice della cognizione per aver inflitto una pena complessiva che, tenuto conto dell'aggravante de qua, era ostativa al beneficio sospensivo. * Avvocato e Tesoriere Camera Penale di Perugia

Tribunale di Milano, sez. XI Penale, ordinanza 16 - 26 gennaio 2011 Osserva D. A. è stato condannato alla pena di mesi 9 di reclusione per i delitti di cui agli artt. 81, 110, 61 n. 11 bis, 337 c.p. capo a , 110, 61 n. 11 bis c.p. 582 e 585 c.p. commesso a Milano in data 27.9.2009 sentenza tribunale di Milano del 6.10.2009 alla pena di mesi 9 di reclusione per il delitto di cu agli artt. 110, 635, commi 1 e 2 nn. 1 e 3 il relazione all'art. 625 n. 7 , 61 n. 11 bis c.p., commesso in Milano in data 9.5.2009 sentenza tribunale di Milano del 15.6.2009 . L'istanza ex art. 671 c.p. è infondata e deve perciò essere respinta. Presupposto imprescindibile per l'operatività della disciplina prevista dagli artt. 81 c.p., 671 c.p.p. è rappresentato dal riconoscimento, da parte del giudice dell'esecuzione, della sussistenza degli elementi costitutivi del reato continuato. Anche in sede esecutiva, quindi, devono trovare applicazione i principi consolidati in giurisprudenza in tema di continuazione, ed, in particolare, quelli riferiti alla unicità del disegnocriminoso , che consente l'applicazione del trattamento sanzionatorio di favore riconosciuto dall'art. 81 cpv. c.p. laddove, infatti, non sia ravvisabile tale identità di progetto, viene meno la possibilità di riconoscere la sussistenza della continuazione tra i diversi episodi criminosi commessi dal medesimo soggetto, che rimangono pertanto quali condotte a sé stanti, oggetto di autonoma e disgiunta valutazione dal punto di vista sanzionatorio, anche in sede esecutiva. Come insegna la giurisprudenza di legittimità, ai fini della configurabilità del reato continuato occorre che il soggetto si rappresenti anticipatamente le singole violazioni, almeno a grandi linee ed anche, eventualmente, in forma condizionale, ma pur sempre con precisa definizione di contorni e di circostanze operative, programmando prima del suo inizio la durata, la portata e l'esecuzione dell'attività illecita la ratio del più favorevole trattamento sanzionatorio previsto in tal caso è infatti correlata all'esistenza di un unico impulso psichico, dimostrativo di una minore pericolosità sociale rispetto all'ipotesi in cui l'impulso criminoso insorga indipendentemente e reiteratamente ad ogni successiva valutazione cfr. Cass., Sez. I, 13 gennaio 1997, Scalese, in C.E.D. Cass., n. 206607 Cass., Sez. I, 22 febbraio 1994, Moro, ivi, n. 196545 Cass., Sez. II, 18 gennaio 1993, Bergamaschi, in Giust. pen. 1995, II, 48 . L'unicità del disegno criminoso presuppone perciò l'anticipata ed unitaria ideazione di più violazioni della legge penale, già presenti nella mente del reo nella loro specificità, e la prova di tale congiunta previsione deve essere ricavata, di regola, da indici esteriori che siano significativi, alla luce dell'esperienza, del dato progettuale sottostante alle condotte poste in essere Cass., Sez. I, 12 maggio 2006, Francini, in C.E.D. Cass., n. 234980 Cass., Sez. IV, 17 dicembre 2008, Di Maria, ivi, n. 243632 . Tra gli elementi da valutare, occorre considerare il lasso temporale tra i vari episodi. Invero, come ha precisato la Suprema Corte, in caso di reati commessi a distanza temporale l'uno dell'altro, si deve presumere, salvo prova contraria, che la commissione d'ulteriori fatti, anche analoghi per modalità e nomen juris, non poteva essere progettata specificamente al momento di commissione del fatto originario, e deve quindi negarsi la sussistenza della continuazione Cass. Sez. I, 16 gennaio 2009, Gargiulo, ivi, n. 242537 . Si tratta di una regola conforme a una chiara massima di esperienza, che connota psicologicamente la condotta umana improntata di norma all'azione o all'omissione come conseguenza dell'immediatezza dell'ideazione e della violazione Cass., Sez. I, 24 gennaio 1994, Basile, ivi, n. 196677 . Nel caso di specie, non è dato ravvisare alcun elemento per cui, alla data del 9.5.2009, in cui il condannato ha commesso il delitto di danneggiamento di suppellettili di un bar e di parti di veicoli parcheggiati sulla pubblica via, D. si sia rappresentato, pur a grandi linee, i delitti di resistenza a pubblico ufficiale e di lesioni, commessi circa cinque mesi dopo e scaturiti da una circostanza del tutto occasionale quale l'essere stato sottoposto a un controllo di polizia. E' invece fondata, nei limiti di seguito indicati, la richiesta ex art. 673 c.p.p. Come noto, con sentenza n. 249 del 2010, la Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 61 n. 11-bis c.p. che prevedeva l'aggravante della clandestinità . In via preliminare, si tratta di verificare se, in un caso del genere - ossia di dichiarazione di incostituzionalità di una disposizione che prevede una mera circostanza aggravante - sia ammissibile adire il giudice dell'esecuzione ai sensi dell'art. 673 c.p.p., che disciplina la revoca della sentenza di condanna nel caso di abrogazione o di dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice . Ad avviso del tribunale la risposta è affermativa, sicché, in via estensiva, al caso in esame appare applicabile la procedura ex art. 673 c.p.p., in relazione all'art. 30, comma 4, l. n. 83 del 1957. Invero, agli occhi del legislatore del 1930 il giudicato poteva essere travolto solamente nel caso di abolitio criminis, ai sensi dell'art. 2, comma 2, c.p., secondo cui nessuno può esser punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato e se vi è stata condanna, ne cessano l'esecuzione e gli effetti penali . A questa ipotesi si aggiunse quella relativa alla declaratoria di illegittimità costituzionale di una fattispecie incriminatrice, a norma dell'art. 30, comma 4, l. n. 83 del 1957, a tenore del quale quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano la esecuzione e tutti gli effetti penali . Sul piano processuale, fa riscontro la previsione dell'art. 673 c.p.p., che disciplina la revoca della sentenza di condanna nel caso di abrogazione o di dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice . In altri termini, il giudicato poteva essere travolto solo dall'eliminazione, nell'ordinamento giuridico, della fattispecie incriminatrice, vuoi per un mutato giudizio di disvalore del fatto da parte del legislatore, vuoi per un intervento ablativo della Corte costituzionale in entrambi i casi, il fatto, già previsto da una legge precedente come illecito penale, non costituiva più reato. Fuori da questi casi, ogni modificazione della disciplina lato sensu sanzionatoria - che, quindi, non incidesse sul carattere di illiceità penale del fatto - non poteva avere alcuna efficacia retroattiva nel caso in cui fosse stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna. Questa disciplina era consacrata nell'originario comma 3 dell'art. 2 c.p., secondo cui se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronuncia sentenza irrevocabile . In altri termini, la disciplina delineata dall'art. 2, comma 3, c.p. stava e per certi versi, come si vedrà, sta ancora a significare l'impermeabilità del giudicato nel caso in cui, fermo restando il permanere della punibilità del fatto, la modifica legislativa incida solamente sul tipo o sulla quantità di pena, ovvero su altri aspetti relativi al trattamento sanzionatorio. Anche la Corte costituzionale, chiamata a scrutinare la legittimità dell'art. 2, comma 3. c.p., aveva sottolineato che la disciplina prevista dalla norma impugnata si giustifica nell'esigenza di salvaguardare la certezza dei rapporti ormai esauriti, perseguita statuendo l'intangibilità delle sentenze divenute irrevocabili , al contempo sottolineando che la stessa circostanza che la regola dell'intangibilità del giudicato incontri a sua volta una serie di deroghe non consente certo di desumerne una regola di segno opposto salvo che nel ben diverso caso dell'abrogazione della legge incriminatrice, di cui al capoverso dell'art. 2 sent. n. 74 del 1980 . Questa ricostruzione deve essere in parte rivista alla luce della recente evoluzione legislativa, che ha ulteriormente eroso il principio di intangibilità del giudicato. Con la novella apportata all'art. 2 dall'art. 14, comma 1, l. 24 febbraio 2006, n. 85, il legislatore ha inserito il nuovo comma 3, che recita se vi è stata condanna a pena detentiva e la legge posteriore prevede esclusivamente la pena pecuniaria, la pena detentiva inflitta si converte immediatamente nella corrispondente pena pecuniaria, ai sensi dell'articolo 135 . Come emerge dalla collocazione, ossia dopo il comma 2, che regola l' abolitio criminis, e prima del comma 4, che corrisponde al precedente comma 3, tale disposizione si applica nel caso in cui la sentenza di condanna a pena detentiva è irrevocabile. Ai sensi dei vigenti commi 2 e 3 dell'art. 2 c.p., quindi, il giudicato viene travolto non più solo nel caso di abolitio criminis - ossia quando il fatto, per una legge successiva, non è più previsto come reato - ma anche nel caso in cui, pur mantenendo il fatto carattere di illiceità penale, muta in maniera sensibile il trattamento sanzionatorio, nel senso che, secondo la legge posteriore, è prevista la sola pena pecuniaria, in luogo di quella detentiva prevista dalla legge precedente. Nell'ipotesi prevista dall'art. 2, comma 2, c.p. il condannato può adire il giudice dell'esecuzione, ai sensi dell'art. 673 c.p.p., che procederà a convertire la pena detentiva in pena pecuniaria, disponendo la liberazione dell'imputato che stia patento la carcerazione per quel fatto. Orbene, se il giudicato può essere travolto nel caso, poc'anzi delineato, contemplato dall'art. 2, comma 3, c.p. la medesima soluzione, a fortiori, deve essere affermata nell'ipotesi di dichiarazione di incostituzionalità di una disposizione che prevede una circostanza aggravante, ipotesi riconducibile nell'art. 30, comma 4, l. n. 83 del 1957. E' infatti ravvisabile - e in maniera ancor più pregnante - la medesima ratio alla base dell'art. 2, comma 3, c.p. dato che, in tal caso, viene totalmente cancellata, perché ritenuta contrastante con i precetti costituzionali, una disposizione che prevedeva un aumento di pena in relazione a una data situazione aggravante , nella specie, l'avere il colpevole commesso il fatto mentre si trovava illegalmente sul territorio nazionale. Se, infatti, in ragione del principio di uguaglianza, il legislatore ha previsto che la sentenza irrevocabile di condanna debba cedere il passo nel caso in cui muti il tipo di sanzione, proprio perché ripugnerebbe che un soggetto sconti una pena detentiva in relazione a un fatto per il quale la legge successiva commina solamente la pena pecuniaria, allo stesso modo il giudicato deve essere travolto nel caso in cui, addirittura, è stata eliminata dall'ordinamento una disposizione che prevedeva una circostanza aggravante, perciò idonea a incidere sulla quantificazione della pena. In altri termini, se ora lo straniero, clandestinamente presente sul territorio dello Stato, commette un reato non è maggiormente punibile a causa della sua condizione soggettiva, allo stesso modo, in virtù del principio di uguaglianza, deve essere eliminata allo straniero, definitivamente condannato, il quid pluris di pena ricollegabile all'aggravante dichiarata incostituzionale, quid pluris di pena che è del tutto illegittimo perché mai potrebbe conseguire alcun effetto rieducativo ex art. 27, comma 3, Cost., proprio perché inflitto in relazione a una disposizione dichiarata contraria di principi costituzionali. Per le argomentazioni esposte, deve perciò ritenersi ammissibile l'incidente di esecuzione proposto dal condannato ex art. 673 c.p. per ottenere l'eliminazione della pena inflitta in relazione all'aggravante della clandestinità, dichiarata incostituzionale. Va poi soggiunto che tale attribuzione non incide, stravolgendoli, sui limitati poteri attribuiti al giudice dell'esecuzione, perché si tratta semplicemente di eliminare il quantum di pena inflitto a titolo di aumento sulla quella calcolata per il reato cui la circostanza accede. Venendo al caso di specie, deve osservarsi che il tribunale di Milano, con sentenza del 6.10.2009, ha applicato l'aggravante in esame, operando un aumento di tre mesi di reclusione sulla pena base inflitta per il delitto di cui all'art. 337 c.p. ne deriva che tale pena deve essere dichiarata non eseguibile. In relazione, invece, alla sentenza del tribunale di Milano emessa ex art. 444 c.p.p. in data 15.6.2009, si deve osservare che tale circostanza, unitamente a quelle di cui all'art. 635, comma 2, n. 1 e n. 3 c.p. in relazione all'art. 625 n. 7 c.p. - ossia, come emerge dal capo di imputazione, l'aver commesso il fatto con minacce nei confronti di Donato Maria Lorena puntandole alla gola un coltello e su cose esistenti all'interno di un locale pubblico e su beni esposti per necessità alla pubblica fede - è stata dichiarata equivalente alle circostanze attenuanti generiche se, quindi, venisse eliminata, ritiene il tribunale che non muterebbe il giudizio di equivalenza con riguardo alle residue circostanze aggravanti contestate nel capo di imputazione, di cui all'art. 635, comma 2, n. 1 e n. 3 c.p. P.Q.M. - rigetta l'istanza ex art. 671 c.p.p. - dichiara non eseguibile la pena di mesi tre di reclusione inflitta ai sensi dell'art. 61 n. 11 bis c.p. con sentenza del tribunale di Milano in data 6.10.2009, irr. il 16.1.2010.