Figlio bipolare porta in causa il padre per denegata paternità: deve essere risarcito

La Corte di Cassazione accoglie il ricorso di un figlio che sottolinea come la denegata paternità da parte del padre non gli abbia consentito di raggiungere una posizione sociale e professionale adeguata agli standards paterni ed idonea a garantirgli un inserimento nel mondo professionale.

Sul tema la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 9255/2021 depositata il 6 aprile. Piero – nome di fantasia conveniva in giudizio davanti al Tribunale di Teramo suo padre Luigi – nome di fantasia – sottolineando ci fosse un nesso di causalità tra la propria patologia disturbo bipolare e la negata paternità . Egli chiedeva quindi la declaratoria di paternità naturale con previsione di un assegno mensile per il mantenimento oltre che il risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale. Il Tribunale adito dichiarava, previa CTU, la paternità naturale condannando Luigi sia a versare un assegno mensile di 750 euro sia il pagamento di 50.000 euro a titolo di danno esistenziale. Luigi ricorreva in appello e la Corte dell’Aquila accoglieva parzialmente il suo ricorso prevedendo un assegno mensile di 1000 euro e diminuendo il pagamento a 132.768 euro a titolo di danno esistenziale, non essendoci nesso di causalità tra la denegata paternità ed il disturbo schizzofrenico di Piero. Piero ricorre in Cassazione deducendo, tra i vari motivi, che il mancato apporto finanziario paterno avesse precluso al figlio la possibilità di raggiungere una posizione sociale e professionale adeguata agli standards paterni ed idonea a garantirgli un inserimento nel mondo professionale dei notai essendo il padre un notaio per l’appunto , e che il Tribunale nulla avesse statuito riguardo il danno patrimoniale. Egli denuncia quindi la violazione dell’art. 112 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4. Il motivo è fondato in quanto la Corte territoriale aveva rigettato erroneamente la domanda risarcitoria del danno patrimoniale sulla base dell’esclusione del nesso di causalità fra la patologia e la denegata paternità. Ma la richiesta di Piero era stata invocata sul presupposto , non della patologia , ma della stessa denegata paternità la quale avrebbe determinato il danno evento di non poter accedere alle opportunità sociali ed economiche che la collocazione del padre avrebbe consentito. Infatti secondo un precedente orientamento giurisprudenziale quando il giudice svolge un’interpretazione della domanda, questa può integrare un tipico accertamento di fatto, il quale come tale è riservato al giudice del merito, ma in sede di legittimità può essere effettuato il controllo della immunità da vizi della motivazione che sorregge sul punto la decisione impugnata, ovviamente entro i limiti in cui il sindacato, che in questo caso avrebbe come punto di riferimento il contenuto della domanda, è ancora consentito dal vigente art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 Cass. n. 30684/2017 e n. 31546/2019 . Il Giudice d’Appello non ha quindi svolto una specifica attività interpretativa della domanda. Ciò che in realtà emerge dalla decisione impugnata è solo il rigetto della domanda per la carenza di fondatezza della causa petendi . Vi è mera violazione processuale . Il vizio denunciabile è solo quello processuale di mancata corrispondenza fra la domanda basata su un determinato fatto costitutivo e la pronuncia. Per questi motivi la Corte di Cassazione accoglie il ricorso, cassa la sentenza e rinvia alla Corte d’Appello dell’Aquila in diversa composizione.

Corte di Cassazione, sez. III Civile, ordinanza 2 dicembre 2020 – 6 aprile 2021, n. 9255 Presidente Vivaldi – Relatore Scoditti Rilevato che B.D.P.A.M. convenne in giudizio innanzi al Tribunale di Teramo A.A. e, premesso di essere figlio naturale del convenuto e che vi era un nesso di causalità fra la propria patologia disturbo bipolare e la denegata paternità, chiese declaratoria di paternità naturale, con previsione di assegno mensile per il mantenimento, e la condanna al risarcimento del danno, sia non patrimoniale che patrimoniale. Il Tribunale adito, previa CTU, dichiarò la paternità naturale, con previsione di assegno mensile di Euro 750,00, e condannò il convenuto al risarcimento nella misura di Euro 50.000,00 a titolo di danno esistenziale oltre interessi e rivalutazione. Avverso detta sentenza propose appello l’originario attore. Con sentenza di data 4 maggio 2018 la Corte d’appello di L’Aquila accolse parzialmente l’appello, prevedendo un assegno mensile di Euro 1.000,00 e condannando l’appellante al pagamento della somma di Euro 132.768,00 a titolo di danno esistenziale. Osservò la corte territoriale, per quanto qui rileva, che, con riferimento al motivo di appello relativo al rigetto della domanda di risarcimento del danno biologico e del danno patrimoniale, condividendo le conclusioni della CTU conformemente a quanto ritenuto dal Tribunale, non vi era un nesso di causalità fra la denegata paternità ed il disturbo schizoaffettivo e che dunque dall’esclusione del predetto nesso di causalità deriva l’esclusione del risarcimento del danno patrimoniale e di quello biologico . Ha proposto ricorso per cassazione B.D.P.A.M. sulla base di due motivi e resiste con controricorso la parte intimata. È stato fissato il ricorso in Camera di consiglio ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c È stata presentata memoria. Considerato che con il primo motivo si denuncia violazione dell’art. 112 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4. Premette la parte ricorrente che con la domanda, quanto al danno patrimoniale, era stato dedotto che il mancato apporto finanziario paterno aveva precluso all’attore la possibilità di raggiungere una posizione sociale e professionale adeguata agli standards paterni ed idonea a garantirgli un inserimento nel mondo professionale consentaneo a quello del padre notaio e che il tribunale, pur avendo osservato che l’attore non aveva potuto godere del tenore di vita economico e sociale conforme all’ambiente di provenienza paterna e che si era in concreto verificata la preclusione del conseguimento della posizione sociale collegabile al patrimonio della famiglia paterna, nulla aveva statuito circa il danno patrimoniale. Osserva quindi che era stato proposto motivo di appello per l’omessa pronuncia in ordine alla domanda risarcitoria relativa al danno patrimoniale e che anche la corte territoriale ha omesso di pronunciare in ordine al danno patrimoniale. Aggiunge che non ostativo alla conclusione in termini di omessa pronuncia è il fatto che la corte territoriale abbia rigettato la domanda circa il danno patrimoniale unitamente a quella per danno biologico sull’assunto che non vi fosse nesso eziologico fra la patologia e la denegata paternità perché l’attore non aveva vincolato l’istanza relativa al danno patrimoniale al riconoscimento del detto nesso eziologico. Osserva infine, in via subordinata, che ove si voglia intravedere un collegamento con il nesso eziologico in questione, sarebbe stato da intendere come aggravamento del danno patrimoniale e che, pur in assenza del detto nesso, in ogni caso si era verificato un danno patrimoniale in quanto le ben più consistenti capacità economiche del padre rispetto a quelle della madre avrebbero consentito al ricorrente di intraprendere studi ben più qualificanti e remunerativi. Il motivo è fondato. Il ricorrente denuncia che la corte territoriale ha rigettato la domanda risarcitoria del danno patrimoniale sulla base dell’ascrizione alla stessa di un fatto costitutivo diverso da quello allegato con l’originaria domanda. In particolare, mentre il giudice di merito ha disatteso la domanda risarcitoria sulla base dell’esclusione del nesso di causalità fra la patologia e la denegata paternità, il ricorrente afferma che il risarcimento del danno patrimoniale era stato invocato sul presupposto,non della patologia la quale avrebbe potuto eventualmente aggravare il danno , ma della stessa denegata paternità, la quale avrebbe determinato il danno evento di non poter accedere alle opportunità sociali ed economiche che la collocazione professionale del padre avrebbe consentito, danno evento al quale si sarebbe collegato un danno conseguenza di carattere patrimoniale. La costellazione di vizi, che una denuncia di tal fatta evoca, è costituita dall’errore revocatorio, il vizio motivazionale e l’extrapetizione, che è il vizio nella specie indicato nel motivo di ricorso. Non ricorre l’errore revocatorio, il quale presuppone una positiva attività di supposizione di un fatto nella specie il fatto processuale costituito dalla causa petendi , incontrastabilmente contraddetta dalle risultanze processuali, e l’insussistenza di una controversia sul punto. La questione del fatto costitutivo del danno patrimoniale non è stata oggetto di controversia in sede di appello, secondo quanto risulta dal ricorso, ma nella motivazione della decisione impugnata non si rinviene una specifica supposizione, basata sull’esame di qualche atto processuale o documento, avente ad oggetto l’identificazione della causa petendi della domanda risarcitoria relativa al danno patrimoniale. Come non si rinviene dalla motivazione una supposizione, basata su una falsa percezione, così anche non emerge un’attività interpretativa della domanda, espressione di una valutazione e suscettibile di denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Quando il giudice svolge un’interpretazione della domanda, questa può integrare un tipico accertamento di fatto, il quale come tale è riservato al giudice del merito, ma in sede di legittimità può essere effettuato il controllo della immunità da vizi della motivazione che sorregge sul punto la decisione impugnata Cass. 21 dicembre 2017, n. 30684 , ovviamente entro i limiti in cui il sindacato, che in questo caso avrebbe come punto di riferimento il contenuto della domanda, è ancora consentito dal vigente art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 , Cass. 3 dicembre 2019, n. 31546 . Come si è detto, il giudice di appello non ha svolto una specifica attività interpretativa della domanda e dunque non vi è spazio per la denuncia di un vizio di motivazione. Ciò che in realtà emerge dalla decisione impugnata è solo il rigetto della domanda per la carenza di fondatezza della causa petendi. Vi è mera violazione processuale, e non supposizione o valutazione. Il vizio denunciabile e, pertanto, solo quello processuale di extrapetizione, di mancata corrispondenza cioè fra la domanda basata su un determinato fatto costitutivo e la pronuncia. Il motivo di ricorso risulta formulato correttamente in tali termini. Ciò premesso, va rammentato che affinché possa utilmente dedursi in sede di legittimità un vizio ai sensi dell’art. 112 c.p.c., è necessario, da un lato, che al giudice del merito siano state rivolte una domanda od un’eccezione autonomamente apprezzabili, ritualmente ed inequivocabilmente formulate, per le quali quella pronunzia si sia resa necessaria ed ineludibile, e, dall’altro, che tali istanze siano riportate puntualmente, nei loro esatti termini e non genericamente ovvero per riassunto del loro contenuto, nel ricorso per cassazione, con l’indicazione specifica, altresì, dell’atto difensivo e/o del verbale di udienza nei quali l’una o l’altra erano state proposte, onde consentire al giudice di verificarne, in primis , la ritualità e la tempestività ed, in secondo luogo, la decisività delle questioni prospettatevi. Ove, quindi, si deduca la violazione, nel giudizio di merito, del citato art. 112 c.p.c., riconducibile alla prospettazione di un’ipotesi di error in procedendo per il quale la Corte di Cassazione è giudice anche del fatto processuale , detto vizio, non essendo rilevabile d’ufficio, comporta pur sempre che il potere-dovere del giudice di legittimità di esaminare direttamente gli atti processuali sia condizionato, a pena di inammissibilità, all’adempimento da parte del ricorrente dell’onere ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, di indicarli compiutamente, non essendo legittimato il suddetto giudice a procedere ad una loro autonoma ricerca, ma solo ad una verifica degli stessi Cass. 5 agosto 2019, n. 2924 4 luglio 2014, n. 15367 . L’onere processuale è stato assolto, avendo la parte provveduto alla trascrizione della relativa parte rilevante,sia dell’atto introduttivo del giudizio che dell’atto di appello. Sulla base del diretto accesso agli atti processuali, risulta effettivamente che il danno patrimoniale, per il quale in primo grado era stata chiesta nella conclusioni anche una CTU contabile, era stato dedotto sulla base del mancato apporto finanziario paterno che aveva precluso all’attore la possibilità di raggiungere una posizione sociale e professionale adeguata agli standards paterni ed idonea a garantirgli un inserimento nel mondo professionale consentaneo a quello del Dott. A.A. . Su tale causa petendi, in rapporto al danno patrimoniale invocato, non vi è pronuncia del giudice di merito il quale, lungi dal collegare direttamente al petitum la circostanza della denegata paternità, secondo lo specifico riflesso patrimoniale indicato, ha invece ricondotto il danno alla patologia, ed una volta escluso il nesso eziologico fra quest’ultima e la denegata paternità, ha rigettato la domanda relativa al pregiudizio patrimoniale. Dovrà quindi il giudice di merito pronunciare sulla domanda di risarcimento del danno patrimoniale avendo quale parametro di riferimento l’indicata causa petendi. Con il secondo motivo si denuncia in subordine omesso esame del fatto decisivo e controverso ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Osserva il ricorrente che, ove si fosse inteso un implicito rigetto della domanda relativa al danno patrimoniale da parte del Tribunale, con l’atto di appello era stata denunciata l’incongruenza fra la motivazione di riconoscimento del pregiudizio come evidenziato nel precedente motivo ed il dispositivo di implicito rigetto e che, ove si intenda che la Corte d’appello abbia recepito la motivazione di primo grado rigettando anch’essa implicitamente l’istanza risarcitoria, vi è incongruenza fra motivazione e rigetto implicito, per cui la decisione sarebbe affetta da motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile. L’accoglimento del precedente motivo determina l’assorbimento del motivo. P.Q.M. accoglie il primo motivo di ricorso, con assorbimento del secondo motivo cassa la sentenza in relazione al motivo accolto rinvia alla Corte di appello di L’Aquila in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.