Il cane dei padroni di casa fa cadere la colf: non è automatica la loro responsabilità come datori di lavoro

Respinta innanzitutto la richiesta di risarcimento per omessa custodia dell’animale mancano prove certe. Esclusa anche un’ipotesi di responsabilità dei padroni di casa per omessa tutela della lavoratrice su questo fronte i Giudici osservano che la donna non ha presentato una domanda specifica.

Disavventura per una collaboratrice domestica il cane dei padroni di casa – suoi datori di lavoro – la aggredisce mentre è intenta a effettuare la pulizia delle finestre, la fa scivolare da una scala e la fa finire a terra. Impossibile però per lei ottenere un risarcimento per i danni riportati. Fatale, innanzitutto, la mancanza di prove sul nesso tra il comportamento del quadrupede e il suo capitombolo. E decisiva, allo stesso tempo, la mancata tempestiva presentazione da parte della donna di una domanda ad hoc sulla presunta responsabilità dei padroni di casa quali datori di lavoro Cassazione, ordinanza n. 30519/19, sez. III Civile, depositata il 22 novembre . Scivolata. La ricostruzione dell’episodio, così come tracciata dalla lavoratrice, non convince i giudici di merito. La donna riferisce di aver lavorato come domestica in una casa di essere stata aggredita dal cane dei proprietari mentre lei era intenta ad effettuare le pulizie delle finestre di una tavernetta che dava sul giardino . Più precisamente, lei spiega che l’aggressione da parte del quadrupede l’ha spinta a scivolare dalla scala a pioli interna alla taverna e a farsi male nell’impatto a terra. Consequenziale è la sua richiesta di risarcimento , respinta però prima in Tribunale e poi in Appello perché, secondo i giudici, manca la ‘prova provata del nesso di causalità tra il comportamento del cane e la caduta della lavoratrice. Responsabilità. Sulla stessa linea si assesta anche la Cassazione, ritenendo legittime le perplessità dei giudici di merito, soprattutto alla luce delle contraddizioni tra la versione data dalla lavoratrice e quella fornita da una testimone. In sostanza, è poco chiara la dinamica dell’incidente ed è evidente l’insufficienza del materiale probatorio , e questi elementi rendono impossibile accogliere la richiesta risarcitoria avanzata dalla donna nei confronti dei padroni dell’animale. Va chiuso completamente, secondo i Giudici, anche il fronte riguardante una presunta responsabilità dei padroni di casa per violazione della normativa sulla tutela della lavoratrice . Ciò perché la donna non dimostra di avere proposto espressamente in primo grado una domanda di risarcimento ad hoc, e non si può ipotizzare, chiariscono i giudici, che tale domanda era implicita nel fatto stesso di indicare la persona danneggiata come lavoratrice alle dipendenze dei padroni del cane. In sostanza, avendo la donna chiesto espressamente il risarcimento per omessa custodia del cane , non poteva ritenersi implicita una domanda di titolo diverso alla luce della sola circostanza che nella descrizione del fatto si indicava l’esistenza di un rapporto di lavoro, che, invero, è descritto come l’occasione del danno, non già la fonte di esso . Ciò significa che una domanda espressa alternativa o subordinata di responsabilità del datore di lavoro non è stata mai fatta esplicitamente dalla donna.

Corte di Cassazione, sez. III Civile, ordinanza 10 ottobre – 22 novembre 2019, n. 30519 Presidente Amendola – Relatore Cricenti Fatti di causa La ricorrente riferisce di aver lavorato come domestica presso l'abitazione dei coniugi Ta. e Se., e di essere stata aggredita dal cane di costoro proprio mentre era intenta ad effettuare le pulizie delle finestre di una tavernetta che dava sul giardino. L'aggressione del cane l'avrebbe spinta a scivolare dalla scala a pioli interna alla taverna, ed a farsi male nell'impatto. La domanda di risarcimento dei danni, però, è stata rigettata in primo grado sia nei confronti dei convenuti che della compagnia di assicurazioni, la Vittoria Ass.ni, che i convenuti avevano chiamato in causa. Secondo il giudice di primo grado, la ricorrente non aveva provato il nesso di causalità aveva indicato una teste, le cui dichiarazioni però contrastavano con la stessa versione dei fatti indicata dalla ricorrente. Il giudice di appello ha confermato questa ricostruzione ribadendo l'insufficiente dimostrazione del nesso di causa, e le contraddizioni tra le dichiarazioni del teste e la dinamica dei fatti come esposta dalla ricorrente. Quest' ultima dunque ricorre con quattro motivi. V'è controricorso sia dei coniugi Ta.- Se. che della compagnia di assicurazione. Quest'ultima ha depositato memorie. Ragioni della decisione 1.- La ratio della decisione impugnata è nella valutazione delle prove. La corte di appello conferma il giudizio del giudice di primo grado quanto alla contraddittorietà tra la versione della ricorrente e quella dell'unica teste escussa ritiene di non poter trarre alla luce di tale contraddizione alcun elemento significativo dalla mancata risposta all'interrogatorio formale di uno dei convenuti. Infine, ritiene che la domanda di responsabilità ex articolo 2087 c.c. è tardiva in quanto non espressa in primo grado. 2.- I motivi di ricorso sono quattro. Con il primo motivo si lamenta sia violazione dell'articolo 116 c.p.c. che omesso esame di un fatto rilevante e controverso. Quest'ultimo motivo, va detto anzitempo, non è reso inammissibile dalla doppia conforme, in quanto l'appello è stato notificato, dunque proposto, il 10.2.2012, ossia prima della entrata in vigore della legge 134 del 2012 che ha introdotto la regola di cui all'articolo 348 ter c.p.c. Ciò detto, il motivo prospetta due censure di fondo. In primo luogo, si adduce una violazione dell'articolo 116 c.p.c. attribuendo alla corte di merito di avere erroneamente valutato le risultanze istruttorie, ed in particolare di aver ritenuto una contraddizione tra la deposizione del teste e la ricostruzione dei fatti avanzata dalla ricorrente. Il motivo, come è intuibile, è inammissibile, in quanto censura la valutazione delle prove da parte del giudice di merito, che invece non è censurabile in Cassazione se non per vizio assoluto di motivazione ma questa censura non è neanche adombrata o per errore percettivo. Sotto quest'ultimo profilo va considerato che l'errore percettivo è tale quando il giudice ritiene come emergente un fatto inesistente o, viceversa, come non emerso un fatto effettivamente risultante. Invece, nella prospettiva del ricorrente, la decisione del giudice di merito non deriva tanto dalla erronea percezione delle risultanze istruttorie quanto dalla loro valutazione. La ratio della decisione è nell'aver ritenuto una diversità rilevante tra la narrazione del fatto da parte dell'unico teste e quella invece proposta dalla ricorrente, diversità che, a giudizio della corte, rende poco chiara la dinamica dell'incidente, si da portare ad un giudizio di insufficienza probatoria. In sostanza, la ratio non è condizionata da un errore di percezione, bensì da una valutazione delle prove. E questo rende inammissibile anche il secondo profilo della censura, relativo all'omesso esame, che in effetti noni/propria mente omesso, se si considera che la corte tiene conto della dichiarazione fatta dalla ricorrente l'essersi l'aggressione verificata all'esterno e non all'interno , ma la valuta unitamente a quella della teste, rilevando alcune incongruenze tra le due versioni. E dunque non di omesso esame si tratta, bensì di valutazione della prova. 3.- Il secondo motivo denuncia violazione dell'articolo 232 c.p.c. ed omesso esame anche esso. Secondo la ricorrente, la corte avrebbe dovuto dare rilievo di confessione alla mancata risposta della convenuta all'interrogatorio formale. Va ribadito che in tema di prove, con riferimento all'interrogatorio formale, la disposizione dell'articolo 232 c.p.c. non ricollega automaticamente alla mancata risposta all'interrogatorio, per quanto ingiustificata, l'effetto della confessione, ma dà solo la facoltà al giudice di ritenere come ammessi i fatti dedotti con tale mezzo istruttorio, imponendogli, però, nel contempo, di valutare ogni altro elemento di prova da ultimo Cass. 9436/ 2018 . La corte di merito ha di conseguenza ritenuto di non dare valore confessorio alla mancata risposta, valutato ogni altro elemento di merito p. 7 . Così facendo non può ritenersi violato l'articolo 232 c.p.c. 4.- Con il terzo motivo si lamenta omessa pronuncia, e dunque violazione dell'articolo 112 c.p.c. in relazione alla domanda di responsabilità ex articolo 2087 c.c. Secondo la ricorrente il giudice di primo grado non avrebbe pronunciato sulla domanda di responsabilità del datore di lavoro, formulata in via alternativa a quella di responsabilità ex articolo 2052 c.c., ma pur sempre formulata. Ed il giudice di appello, cui la questione della omessa pronuncia è stata devoluta, avrebbe erroneamente ritenuto tardiva la domanda di responsabilità contrattuale art. 2087 c.c. perché fatta per la prima volta in secondo grado. Il motivo è infondato. La ricorrente non dimostra infatti di avere proposto espressamente in primo grado una domanda di risarcimento per violazione dell'articolo 2087 c.c., e del resto, nel ricorso, sostiene che una tale domanda era implicita nel fatto stesso di indicare la danneggiata come lavoratrice per conto dei convenuti. E' di tutta evidenza che, avendo chiesto espressamente il risarcimento per omessa custodia del cane articolo 2052 c.c. , non poteva ritenersi implicita una domanda di diverso titolo articolo 2087 c.c. nella sola circostanza che nella descrizione del fatto si indicava l'esistenza di un rapporto di lavoro, il quale invero è descritto come l'occasione del danno e non già la fonte di esso, a tacer d'altro una domanda espressa alternativa o subordinata di responsabilità del datore di lavoro invero non è stata mai fatta esplicitamente e non v'era modo dunque di deciderla. 5.- L'ultimo motivo lamenta violazione dell'articolo 91 c.p.c. Secondo la ricorrente la corte non avrebbe dovuto porre a suo carico le spese di chiamata del terzo, posto che la chiamata era stata effettuata dal convenuto e non da lei. Il motivo è infondato. Va ribadito che in tema di spese giudiziali sostenute dal terzo chiamato in garanzia, una volta rigettata la domanda principale, il relativo onere va posto a carico della parte soccombente che ha provocato e giustificato la chiamata in garanzia, in applicazione del principio di causalità, e ciò anche se l'attore soccombente non abbia formulato alcuna domanda nei confronti del terzo Cass. 2492/ 2016 Cass. 23552/ 2011 . Il ricorso va pertanto rigettato. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Compensa le spese, dando atto della sussistenza dei presupposti per il versamento del doppio del contributo unificato.