Abbandonato dalla madre, trascorse 32 anni in ospedale psichiatrico senza ragione: risarcito per la privazione del diritto ad una famiglia

Dichiarato responsabile l'Ente che non aveva segnalato alle autorità competenti lo stato di abbandono morale e materiale in cui versava il minore, privandolo così del diritto ad una famiglia e, comunque, a vivere in un ambiente sano ed equilibrato.

Così ha deciso la Terza Sezione della Cassazione Civile, con l’ordinanza n. 22177 del 5 settembre 2019. Il caso. Essere ricoverati a partire dai nove anni di età presso un ospedale psichiatrico per 32 anni, allorquando si viene dimessi data la capacità di autogoverno , senza aver mai avuto bisogno di psicofarmaci né aver avuto diagnosi di alcuna malattia mentale. È quello che è capitato all'uomo che ha convenuto in giudizio l'ente chiedendo il risarcimento dei danni non patrimoniali subiti relativi alla privazione dei diritti fondamentali della persona, quali la libertà personale, la dignità e il decoro. L'ente, da parte sua si era difeso affermando che la permanenza presso la struttura era avvenuta sino al compimento della maggiore età per ragioni esclusivamente umanitarie, in quanto è minore era stato abbandonato dalla madre e, successivamente, l'attore era poi rimasto volontariamente ospite del nosocomio, anche a seguito della trasformazione dello stesso in casa-famiglia avvenuta nel 1978. Il Tribunale di Catanzaro, ritenuta la responsabilità della struttura per non aver segnalato alle autorità competenti lo stato di abbandono morale e materiale in cui versava il minore, conseguentemente privandolo del diritto ad una famiglia e a vivere in un ambiente sano ed equilibrato anziché a contatto con pazienti cerebropatici , al pagamento della somma complessiva di euro 50.000 a titolo di danno non patrimoniale, per la perdita di chances di essere inserito in un nucleo familiare, mentre aveva escluso la liquidazione del danno biologico, in quanto non provato. Il successivo giudizio di appello si era concluso con la sentenza di conferma di quanto statuito in primo grado. Il danneggiato ha quindi proposto ricorso in Cassazione. La disciplina penale per l'ingiusta detenzione non è applicabile in via analogica. La Suprema Corte ha affermato la correttezza delle due sentenze di merito. Gran parte dei motivi di ricorso erano relativi da un lato alla liquidazione del danno, ritenuta inadeguata, dall'altro alla mancata liquidazione del danno biologico. Relativamente al primo aspetto il ricorrente ha lamentato la mancata applicazione, in via analogica, del criterio previsto dall'articolo 314 c.p.p. per la riparazione per ingiusta detenzione. In realtà, ha chiarito la Terza Sezione, ribadendo quanto già affermato dalla giurisprudenza di legittimità penale si veda Cass. Pen, sez. IV, sentenza n. 17718 del 5/05/2008 , nonostante sia indubitabile che un TSO illegittimo colpisca la persona in modo simile all'ingiusta detenzione perché determina la restrizione della sua libertà personale ed effetti negativi sull'immagine, le relazioni ed il campo lavorativo, non è applicabile in via analogica in simile ipotesi la speciale disciplina dettata dagli artt. 314 e 315 c.p.p. per le fattispecie di detenzione cautelare ingiusta disposta ed eseguita in ambito penale . Relativamente al secondo aspetto, è stato invece ricordato come il risarcimento del danno biologico, inteso quale lesione temporanea o permanente all'integrità psicofisica della persona, suscettibile di accertamento medico-legale, che esplica una incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, sia subordinato all'esistenza di una lesione all'integrità psicofisica medicalmente accertabile, e e tale lesione sia stata esclusa dai giudici di merito con valutazione non censurabile in sede di legittimità. Inoltre, il Tribunale aveva già tenuto conto, nel quantificare la somma dovuta a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale, sia della compromissione delle relazioni con il mondo esterno che il danneggiato aveva subito a causa del prolungato ricovero presso l'Istituto, che del fatto che tale ricovero avesse indotto la persona a scelte di vita diverse da quelle che avrebbe potuto fare in assenza della condotta illecita tenuta dai sanitari dell'ente.

Corte di Cassazione, sez. III Civile, ordinanza 17 giugno – 5 settembre 2019, n. 22177 Presidente Travaglino – Relatore Pellecchia Rilevato che 1. Nel 2008, A.G. convenne in giudizio, innanzi al Tribunale di Catanzaro, il Complesso Monumentale di deducendo che nel 1967, all’età di nove anni, era stato ricoverato presso l’ospedale psichiatrico di oggi Complesso Monumentale , ivi permanendo fino al 1999, quando era stato dimesso in considerazione della sua capacità di autogoverno che dalla cartella clinica emergeva come egli fosse stato trattenuto all’interno dell’istituto per ragioni di carattere umanitario e come durante gli anni trascorsi in ospedale non avesse mai avuto bisogno di psicofarmaci, nè mai avuto diagnosi di malattia mentale che l’illegittima condotta dell’ospedale psichiatrico aveva privato l’A. di diritti fondamentali della persona, quali la libertà personale, la dignità e del decoro, con conseguente danno esistenziale, morale e biologico, anche in ragione dell’astratta configurabilità dei reati di cui agli artt. 605, 610 e 623 c.c Chiese pertanto il riconoscimento della responsabilità dell’ospedale ex art. 1218 c.c. ed il risarcimento dei suddetti danni. Si costituì in giudizio l’Azienda Sanitaria Provinciale di Catanzaro, quale ente gestore del Complesso Monumentale di , eccependo preliminarmente il difetto di legittimazione passiva propria e del Complesso, per essere passivamente legittimato il Comune di ovvero, in alternativa, la Regione Calabria, nonché la prescrizione del diritto azionato. Nel merito, l’ente convenuto chiese il rigetto della domanda, deducendo che la permanenza dell’A. presso la struttura ospedaliera di era avvenuta, sino al compimento della maggiore età, per ragioni esclusivamente umanitarie, in quanto il minore era stato abbandonato rifiutato dalla madre, e che, al compimento della maggiore età, l’attore era rimasto volontariamente ospite del nosocomio, anche a seguito della trasformazione dello stesso in casa famiglia nel 1978. Contestò quindi l’inesistenza del nesso eziologico tra la condotta contestata ed i danni subiti, ed affermò la buona fede dei sanitari della struttura. Il contraddittorio fu integrato nei confronti del Comune di e della Regione Calabria, i quale, costituendosi, eccepirono a loro volta la carenza di legittimazione passiva. Il Tribunale di Catanzaro, con sentenza n. 1890/2013, ritenuta inammissibile, in quanto tardivamente proposta l’eccezione di prescrizione, accolse la domanda proposta nei confronti del Complesso Monumentale di , riscontrandone la responsabilità per non aver segnalato alle autorità competenti lo stato di abbandono morale e materiale in cui versava il minore A. , così privandolo del diritto ad una famiglia e comunque a vivere in un ambiente sano ed equilibrato e non a contatto con pazienti cerebropatici. Il giudice di primo grado condannò pertanto l’Azienda Sanitaria Provinciale di Catanzaro, quale ente gestore del Complesso Monumentale, al pagamento della somma complessiva di 50.000 a titolo di danno non patrimoniale, considerato che la condotta dei sanitari, avendolo privato della chance di essere inserito in un nucleo familiare, si era tradotta per l’A. nella lesione di valori costituzionalmente protetti e di diritti umani inviolabili. Escluse invece la liquidazione del danno biologico. Dichiarò infine il difetto di legittimazione passiva del Comune di e della Regione Calabria. 2. La decisione è stata confermata dalla Corte di Appello di Catanzaro con la sentenza n. 87/2017, depositata il 25 gennaio 2017. La Corte d’appello, per quel che qui ancora rileva, ha ritenuto condivisibile la statuizione di primo grado in ordine alla quantificazione del danno non patrimoniale nonché al mancato riconoscimento del danno biologico. Al riguardo, la Corte territoriale ha osservato che l’A. , divenuto maggiorenne nel 1976, aveva deciso di permanere nell’istituto in regime di ricovero volontario fino alla dimissione avvenuta nel 1999. Inoltre la Corte ha affermato che l’esistenza del danno biologico era esclusa sulla base delle allegazioni documentali di primo grado, che confliggevano anche semanticamente con la stessa natura ontologica del danno biologico riconoscibile e liquidabile a titolo di risarcimento . Peraltro, l’attore si era limitato approssimativamente a chiedere il ristoro dei danni, senza indicarne la natura e la tipologia, la sua rilevanza ed incidenza in termini di limitazioni psico-fisiche, non consentendo così nè di valutare l’esistenza del nesso eziologico tra la condotta della struttura ospedaliera e l’asserita invalidità, nè di quantificare economicamente i danni lamentati. La Corte ha pertanto ritenuto che, condivisibilmente, il Tribunale, in assenza di un danno biologico conclamabile, avesse riconosciuto il risarcimento del danno non patrimoniale. Dalla documentazione prodotta emergeva infatti come la condotta del personale sanitario avesse comportato per l’A. una sofferenza tale da determinare un’alterazione del proprio relazionarsi con il mondo esterno, inducendolo a scelte di vita diverse. 3. Avverso tale sentenza propone ricorso in Cassazione, sulla base di tre motivi illustrati da memoria, il signor A.G. . 3.1. Resiste con controricorso il l’Azienda Sanitaria Provinciale di Catanzaro. Ha depositato anche memoria. Il Comune di e la Regione Calabria, alle quali il ricorso è stato notificato per l’integrità del contraddittorio, non hanno svolto difese. Considerato che 4. Con il primo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione c/o falsa applicazione degli artt. 2, 13 e 32 Cost. e della L. n. 833 del 1978, artt. 1, 2, 33 e 34 in relazione alla pretesa legittimità del ricovero volontario dall’1.11.1976 al 20.4.1999. La condotta dei sanitari avrebbe violato i principi normativi della materia i quali prevedono quale presupposto fondamentale per ogni trattamento sanitario, oltre al rispetto della libertà personale e della dignità umana, che il soggetto presti il proprio consenso consapevole ed informato. Dalla documentazione in atti, in particolare della cartella clinica, non risulterebbe che all’A. siano state mai fornite adeguate informazioni sulla natura ai fini del trattamento sanitario a cui veniva sottoposto, nè che sia mai stato acquisito il suo consenso consapevole all’espletamento di tale trattamento, ovvero che gli sia mai stata prospettata la possibilità di essere dimesso. Tanto più che lo stesso ricorrente non avrebbe avuto adeguata capacità cognitiva, non avendo potuto fruire di altre esperienze di vita al di fuori del ricovero nella struttura sanitaria, circostanza di cui sarebbero stati perfettamente consapevoli i medici dell’ospedale psichiatrico i quali, prima di dimetterlo nel 1999, avevano ritenuto necessario sottoporlo ad un progetto riabilitativo. Inoltre, la L. n. 833 del 1978, art. 34 stabilirebbe che le cure prestate dalle strutture psichiatriche possano concernere solo persone affette da malattia mentale e che il ricovero sia adottato quale extrema ratio in mancanza di condizioni che consentano di adottare cure extra ospedaliere. La legge non consentirebbe un ricovero volontario in assenza di patologia da curare, tanto meno uno durato oltre 30 anni in ospedale psichiatrico. Pertanto, avrebbe dovuto essere considerato illegittimo l’intero ricovero dell’A. , dovendo essere corrisposto un adeguato risarcimento proporzionato alla durata di tale situazione illegittima. Il motivo è inammissibile. Lo è perché pone una questione nuova con la richiesta di risarcimento per violazione del consenso informato pag. 9 del ricorso mai trattata in nei precedenti gradi di giudizio. Laddove pone invece la questione relativa al risarcimento per l’illegittimo ricovero il giudice del merito con motivazione congrua e scevra di qualsivoglia vizio logico giuridico ha liquidato il solo danno patrimoniale in quanto ha ritenuto non provato il danno biologico. 4.2. Con il secondo motivo, il ricorrente si duole, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4 della nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c. in mancanza di pronuncia sul terzo motivo di appello . Il giudice di secondo grado non avrebbe preso alcuna posizione sulle contestazioni inerenti alla quantificazione del riconosciuto danno da perdita di chances, nè avrebbe spiegato il perché del mancato riconoscimento di un ristoro a fronte della grave e prolungata privazione del suo diritto alla libertà personale. Il motivo non merita accoglimento. Per integrare il vizio di omessa pronuncia occorre che sia stato completamente omesso il provvedimento indispensabile per la soluzione del caso concreto il che si verifica quando il giudice non decide su alcuni dei capi della domanda, che siano autonomamente apprezzabili v. ex multis, Cass. 4 giugno 1992, n. 6876 , ovvero sulle eccezioni proposte ovvero quando pronuncia solo nei confronti di alcune parti Cass. 1 settembre 1997, n. 8266 Cass. 20 novembre 1976, n. 4377 . Ai fini di un corretto scrutinio dalla sussistenza o meno dal vizio di omessa pronuncia, infatti, non si può fare riferimento alle argomentazioni, ragioni o motivi esposti per ottenere un provvedimento giurisdizionale, poiché il vizio di omessa pronuncia si concreta nel difetto del momento decisorio, mentre il mancato o insufficiente esame delle argomentazioni delle parti, eventualmente svolte nei motivi, può integrare un vizio di natura diversa relativo all’attività svolta dal giudice per supportare l’adozione del provvedimento, senza che possa ritenersi mancante il momento decisorio Cass. civ. Sez. I, 18-02-2005, n. 3388 . Nel caso di specie, il ricorrente censurava la quantificazione del danno non patrimoniale, sia perché riteneva inadeguata la liquidazione del danno da perdita della possibilità di essere inserito in un nucleo familiare, sia per non aver tenuto conto della privazione della libertà personale da lui subita. La Corte d’appello ha implicitamente rigettato il motivo di appello ritenendo condivisibile la liquidazione del danno non patrimoniale, con valutazione che è stata da questa Corte parzialmente censurata per le ragioni indicate nel motivo precedente. La circostanza che la Corte non abbia motivato in relazione a tutte le argomentazioni formulate dal ricorrente per sostenere l’inadeguatezza della quantificazione del danno non può pertanto integrare il vizio di omessa pronuncia. 4.3. Con il terzo motivo, il ricorrente censura, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 la violazione o falsa applicazione degli artt. 2, 13 e 32 Cost. e art. 1218 c.c. per esclusione del riconoscimento di danno non patrimoniale, sia sotto forma di danno biologico, sia per violazione della libertà personale. Sarebbero stati gli stessi sanitari dell’ospedale psichiatrico di ad attestare sia il sopravvenire di alterazioni psichiche nel ricorrente - non costituenti vere e proprie malattie mentali di natura organica, ma disturbi funzionali o nevrosi che, seppur non provocati da lesioni anatomiche e non collegati a fenomeni psicopatologici, avevano determinato comunque una sofferenza del sistema nervoso - sia il nesso di causalità tra le stesse ed l’ingiustificato ricovero dell’A. nel reparto per bambini cerebrolesi. La statuizione di rigetto da parte della Corte d’appello sarebbe fondata sull’erroneo principio di diritto secondo cui la Costituzione tutelerebbe il bene salute solo dal punto di vista fisico e non psichico. La giurisprudenza, invece, affermerebbe costantemente che il danno biologico psichico, inteso come compromissione dell’integrità psichica da diritto a risarcimento. Inoltre la suddetta statuizione sarebbe basata sull’ulteriore presupposto erroneo che la perdita della capacità lavorativa generica pacifica ed incontestata nel casi di specie, poiché il ricovero nella struttura psichiatrica aveva precluso all’A. di coltivare i suoi studi e quindi di svolgere attività lavorative che richiedono un’istruzione non determini l’insorgenza di un danno biologico. La corretta applicazione della tutela del bene salute avrebbe imposto al giudice di merito di riconoscere all’odierno ricorrente un rilevante risarcimento, da liquidare - in mancanza di c.t.u. - in via equitativa. In ogni caso, a fronte dell’illegittima privazione della libertà personale si sarebbe verificata nel paziente, per tutta la durata del ricovero corrispondente con tutta la sua giovinezza una sofferenza analoga a quella del soggetto sottoposto a misure la limitative della libertà personale in assenza dei presupposti di legge. Pertanto, avrebbe dovuto essere applicato in via analogica il criterio di cui all’art. 314 c.p.p. per la riparazione per ingiusta detenzione. Il motivo è infondato. Invero il risarcimento del danno biologico inteso quale lesione temporanea o permanente all’integrità psicofisica della persona suscettibile di accertamento medico legale che esplica un’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico relazionali della vita del danneggiato cfr. D.Lgs. n. 209 del 2005, art. 138 è subordinato all’esistenza di una lesione all’integrità psicofisica medicalmente accertabile. Nella fattispecie in esame tale lesione è stata invece esclusa dai giudici del merito con valutazione incensurabile in questa sede. Risulta inoltre che, nel liquidare il risarcimento del danno non patrimoniale, il Tribunale abbia tenuto conto, della compromissione delle relazioni con il mondo esterno che il ricorrente ha subito a causa del prolungato ricovero presso l’istituto, e del fatto che tale ricovero l’aveva indotto a scelte di vita diverse da quelle che avrebbe potuto fare in assenza della condotta illecita da parte dei sanitari. In tale liquidazione risultano pertanto già comprese quelle sofferenze che l’A. lamenta di aver subito per essergli stato precluso di coltivare gli studi e quindi di svolgere attività lavorative che richiedono un’istruzione, con la conseguenza che una nuova liquidazione comporterebbe una ingiusta duplicazione di poste risarcitone. Si osserva infine che, come già affermato dalla giurisprudenza di legittimità penale, nonostante sia indubitabile che il TSO illegittimo colpisca la persona in modo simile all’ingiusta detenzione perché determina la restrizione della sua libertà personale ed effetti negativi sull’immagine, le relazioni ed il campo lavorativo, non è applicabile in via analogica in simile ipotesi la speciale disciplina dettata dagli artt. 314 e 315 c.p.p. per le fattispecie di detenzione cautelare ingiusta disposta ed eseguita in un ambito penale Cass. pen. Sez. IV, 05-05-2008, n. 17718 . 5. In considerazione della particolarità e complessità della vicenda ritiene la Corte di compensare le spese di questo giudizio. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio di legittimità. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della non sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis del citato art. 13.