La responsabilità dell’ente obbligato al controllo e alla prevenzione presuppone la valutazione della condotta esigibile nel caso concreto

L’applicazione dell’art. 2043 c.c. in luogo dell’art. 2051 c.c. impone che la responsabilità dell’ente si affermi solo previa individuazione del concreto comportamento colposo ad esso ascrivibile e cioè che gli siano imputabili condotte, a seconda dei casi, specificamente o genericamente colpose che abbiano reso possibile il verificarsi dell’evento dannoso. Di contro, slegando la responsabilità dell’Ente dal concetto di colpa la si farebbe transitare nell’alveo della responsabilità oggettiva da cose in custodia secondo le regole di cui agli artt. 2051, 2052 e 2053 c.c

La sesta sezione della Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 19404 depositata in cancelleria il 18 luglio 2019, è tornata ad occuparsi di responsabilità della Pubblica Amministrazione per danni provocati dal fenomeno del randagismo. Il fatto. Un soggetto agiva giudizialmente nei confronti dell’Azienda Sanitaria Locale e del Comune al fine di ottenere il risarcimento dei danni provocati al suo autoveicolo a seguito di un sinistro stradale provocato dall’attraversamento improvviso di un cane randagio della sede stradale percorsa dal mezzo. La Corte di Appello, in riforma della decisione di primo grado, aveva condannato l’Azienda Sanitaria Locale al risarcimento del danno ritenendo l’Ente citato colposamente responsabile dell’omessa vigilanza e controllo verso il fenomeno del randagismo, così come disposto dalla legge regionale Calabria n. 41 del 1990 articolo 12 disciplinante la materia. La decisione era impugnata dinanzi alla Corte di Cassazione dall’Asl locale che lamentava la violazione delle disposizioni legislative operanti in materia nella regione Calabria, dalle quali emergerebbe che l’Azienda Sanitaria Locale avrebbe il solo ruolo di provvedere alla cattura dei cani randagi, dopo la segnalazione fattane dal Comune interessato, e che, pertanto, in mancanza di segnalazione da parte del Civico Ente e di adeguati piano di controllo dallo stesso posti in essere, alcuna responsabilità potesse addossarsi al suo operato. Deduceva inoltre la violazione dell’articolo 2043 c.c. poiché il Comune interessato, nei giorni precedenti l’incidente, non aveva effettuato alcuna segnalazione per la cattura dei cani randagi. L’individuazione dei responsabili secondo le previsioni della legge regionale attuativa della legge quadro n. 281/1991. Gli Ermellini rigettavano i primi due motivi di ricorso, mentre riconoscevano la fondatezza del terzo motivo. Con riferimento alla prima doglianza i Giudici di nomofilachia confermavano l’orientamento prevalente operante in materia di prevenzione del randagismo secondo cui, la responsabilità per i danni provocati dal fenomeno del randagismo ricade, in concorso con ulteriori elementi, sugli Enti cui le leggi, anche regionali, attribuiscono il compito di prevenire il pericolo specifico per l’incolumità della popolazione. Tale principio, espresso tra le tante anche da Cassazione civile n. 12495/2017, afferma inoltre che il compito di individuare gli specifici doveri incombenti su ciascun Ente e la relativa ripartizione spetti alla legge quadro n. 281 del 1991 ed alle leggi regionali di attuazione. In particolare, la legge quadro regionale della Campania, già citata, all’articolo 12 comma 2^, prevede che il compito di vigilanza cattura e custodia degli animali randagi spetti alle Aziende Sanitarie. Ne deriva che la sentenza impugnata ha correttamente individuato il soggetto su cui incombono gli obblighi di prevenzione e protezione verso il fenomeno del randagismo. La necessaria valutazione della condotta esigibile dall’ente nel caso concreto. Per quanto invece concerne il motivo di ricorso relativo alla violazione dell’articolo 2043 c.c. la Corte di Cassazione specifica che, ferma l’individuazione dell’Ente responsabile della vigilanza, cattura e custodia degli animali randagi, resti comunque necessario per il danneggiato specificare la condotta richiesta all’Ente oltre alla riconducibilità dell’evento dannoso al mancato adempimento di una condotta obbligatoria da parte dell’Ente, secondo i principi della causalità omissiva. Ed è proprio l’individuazione della condotta esigibile da parte dell’Ente a consente di circoscrivere lo scarto esistente tra quest’ultima e quella effettivamente posta in essere dall’Ente. Laddove la condotta esigibile è individuata secondo i criteri della prevedibilità ed evitabilità dell’evento e della mancata adozione delle precauzioni atte ad evitarlo. Orbene nel caso di specie i Giudici hanno evidenziato che, ferma la prevedibilità dell’attraversamento della strada da parte di un animale randagio, che è evidentemente uno dei presupposti richiesti dalla legge, la Corte di Appello avrebbe dovuto analizzare anche l’esigibilità, in quella particolare circostanza, dello sforzo necessario per evitare l’evento da parte dell’Ente. Nel caso specifico invece i Giudici di secondo grado hanno individuato solo in astratto il responsabile civile del danno ma non hanno compiuto una indagine in termini di esigibilità dello sforzo richiesto per evitare l’evento, non hanno ad esempio valutato la presenza di precedenti segnalazioni di cani randagi nelle vie cittadine, ovvero l’esistenza di richieste d’intervento rimaste prive di riscontro. Concludendo. Così operando hanno disancorato la responsabilità dell’Ente dalla colpa facendola transitare nell’alveo dei principi operanti per la responsabilità oggettiva da cose in custodia di cui agli artt. 2051, 2052 e 2053 c.c Pertanto la Cassazione della sentenza su questo punto imporrà al Giudice del rinvio una disamina delle circostanze concrete, onde individuare l’esigibilità ed i limiti del comportamento preventivo richiesto all’Azienda Sanitaria nel caso concreto.

Corte di Cassazione, sez. VI Civile - 3, ordinanza 4 aprile – 18 luglio 2019, n. 19404 Presidente Frasca – Relatore Iannello Rilevato che 1. Con la sentenza in epigrafe la Corte d’appello di Catanzaro, in riforma della decisione di primo grado, ha condannato l’Azienda Sanitaria Provinciale di Cosenza al pagamento, in favore della Confraternita di Misericordia dell’importo di Euro 9.706,13, oltre interessi, a titolo di risarcimento dei danni subiti dal mezzo di proprietà di quest’ultima in conseguenza del sinistro occorso in data 29/7/2007 causato dall’improvviso attraversamento della strada dallo stesso percorsa da parte di un cane randagio. Ha infatti ritenuto che il sinistro fosse ascrivibile a colpa della Azienda sanitaria e non invece del Comune all’inverso di quanto invece opinato dal primo giudice , per avere questa omesso di esercitare i poteri di vigilanza e controllo del fenomeno del randagismo ad essa attribuiti dalla L.R. Calabria 5 maggio 1990, n. 41, art. 12, comma 2, come sostituito dalla L.R. Calabria 3 marzo 2000, n. 4, art. 7. 2. Avverso tale decisione l’A.S.P. di Cosenza propone ricorso per cassazione sulla base di tre motivi. Gli intimati non svolgono difese nella presente sede. 3. Essendo state ritenute sussistenti le condizioni per la trattazione del ricorso ai sensi dell’art. 380 - bis c.p.c., il relatore designato ha redatto proposta, che è stata notificata alle parti unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza della Corte. La ricorrente ha depositato memoria ex art. 380 - bis c.p.c., comma 2. Considerato che 1. Con il primo motivo l’Azienda ricorrente denuncia violazione della L.R. Calabria 19 marzo 2004, n. 11, art. 1, del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 502, art. 3 e del D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, art. 13, per avere la Corte d’appello attribuito ad essa odierna ricorrente i poteri di vigilanza e controllo del randagismo che invece - sostiene - sono ex lege di competenza esclusiva del Comune. 2. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia altresì violazione della L.R. Calabria n. 41 del 1990, art. 2, lett. b e art. 13. Sostiene che, in base alle norme richiamate, ad essa Azienda sanitaria spetta, per il tramite del servizio veterinario, solo la cattura dei cani randagi previa segnalazione del Comune interessato e che pertanto la responsabilità dell’incidente è, nel caso di specie, addebitabile esclusivamente al Comune per avere questo omesso di effettuare, sul territorio di sua pertinenza, i controlli previsti ex lege al fine di programmare e pianificare, con la eventuale partecipazione degli enti competenti tra i quali anche essa azienda sanitaria , le politiche contro il randagismo e di richiedere di conseguenza le misure e gli interventi idonei per l’accalappiamento dei cani. 3. Con il terzo motivo la ricorrente deduce infine violazione dell’art. 2043 c.c., per avere la Corte d’appello affermato la responsabilità di essa azienda sanitaria omettendo di considerare che, come accertato dal primo giudice, nessun intervento di accalappiamento di cani randagi era stato richiesto dal Comune di Mendicino nei giorni dell’incidente. 4. I primi due motivi, congiuntamente esaminabili, sono infondati. Come questa Corte ha in più occasioni affermato, la responsabilità per i danni causati dai cani randagi spetta esclusivamente, nel concorso degli altri presupposti, all’ente, o agli enti, cui è attribuito dalla legge ed in particolare dalle singole leggi regionali attuative della legge quadro nazionale 14 agosto 1991, n. 281 il compito di prevenire il pericolo specifico per l’incolumità della popolazione connesso al randagismo e cioè il compito della cattura e della custodia dei cani vaganti o randagi v. ex aliis Cass. 18/05/2017, n. 12495 26/06/2017, n. 15167 . Il principio non può che essere qui ribadito poiché l’attribuzione per legge ad uno o più determinati enti pubblici del compito della cattura e quindi della custodia degli animali vaganti o randagi e cioè liberi e privi di proprietario costituisce il fondamento della responsabilità per i danni eventualmente arrecati alla popolazione dagli animali suddetti, anche quanto ai profili civilistici conseguenti all’inosservanza di detti obblighi di cattura e custodia. Poiché la legge quadro statale n. 281 del 1991 non indica direttamente a quale ente spetta il compito di cattura e custodia dei cani randagi, ma rimette alle Regioni la regolamentazione concreta della materia, occorre analizzare la normativa regionale, caso per caso. In Calabria, come correttamente affermato nella sentenza impugnata, tale competenza risulta chiaramente attribuita al Servizio veterinario istituito, ai sensi della L.R. Calabria n. 41 del 1990, art. 3, come sostituito dalla L.R. n. 4 del 2000, art. 3, presso le unità sanitarie locali ora aziende sanitarie . La detta L.R. n. 41 del 1990, art. 12, comma 2, come sostituito dalla L.R. n. 4 del 2000, art. 7, dispone infatti i cani vaganti non tatuati devono essere catturati, con metodi indolori e non traumatizzanti, salvo i casi previsti dalla L.R. 5 maggio 1990, n. 41, art. 3, comma 2, dal Servizio veterinario competente per territorio, il quale tramite la sua Unità operativa adempie agli obblighi previsti dalla presente legge . Dalla chiara lettera di tale disposizione si evince dunque che la competenza in relazione alla cattura e custodia dei cani vaganti o randagi compete al Servizio veterinario dell’Azienda Sanitaria Provinciale. 5. Le censure svolte contro detta ricostruzione del quadro normativo si appalesano meramente assertive e prive di alcun fondamento. Non può in particolare giovare il riferimento, nel secondo motivo, ai provvedimenti adottati dal Commissario ad acta al Piano di Rientro del disavanzo in sanità decreti nn. 197 del 2012 e 32 del 2015 e in particolare alla previsione ivi contenuta secondo cui le unità di accalappiamento cani sono alle dipendenze e coordinati dai servizi veterinari di sanità animale ed operano sotto le direttive del Direttore del servizio che programma l’attività sulla base delle esigenze territoriali e delle richieste dei sindaci del comprensorio . È agevole infatti rilevare che si tratta di provvedimenti successivi alla data del fatto lesivo e comunque di normazione secondaria che, come tali, non possono certamente assumere alcun rilievo, tantomeno limitativo, nella ricostruzione della disciplina ricavabile dalle norme di rango primario. Inoltre il tenore letterale delle disposizioni, facendo comunque riferimento non solo alle richieste dei sindaci ma anche - e indipendentemente da queste - alle esigenze territoriali suscettibili di autonoma rilevazione , non giustifica l’interpretazione proposta dalla ricorrente. Tanto meno giova il riferimento ai precedenti giurisprudenziali richiamati, e segnatamente a quello di Cass. n. 12495 del 2017, atteso che, come detto, da questi si traggono esattamente gli stessi principi correttamente applicati nel caso de quo dalla sentenza impugnata, i quali tuttavia nei diversi casi esaminati dai detti arresti conducono ad esiti opposti per la semplice ragione che, riguardando essi fattispecie verificatesi in altre regioni, trovano applicazione le diverse regolamentazioni dettate dalle leggi regionali ivi vigenti. 6. È invece fondato il terzo motivo. Come fondatamente evidenziato in memoria dalla ricorrente, questa Corte ha con recenti arresti cfr. Cass. 11/12/2018, n. 31957 28/06/2018, n. 17060 Cass. 14/05/2018, n. 11591 Cass. 31/07/2017, n. 18954 affermato il principio, cui questo Collegio intende dare continuità, secondo cui, ai fini dell’affermazione della responsabilità per i danni cagionati da un animale randagio, non basta che la normativa regionale individui l’ente cui è attribuito il compito di controllo e di gestione del fenomeno del randagismo e neanche quello più specifico di provvedere alla cattura ed alla custodia degli animali randagi occorrendo anche che chi si assume danneggiato, in base alle regole generali, alleghi e dimostri il contenuto della condotta obbligatoria esigibile dall’ente e la riconducibilità dell’evento dannoso al mancato adempimento di tale condotta obbligatoria, in base ai principi sulla causalità omissiva. L’applicazione dell’art. 2043 c.c., in luogo di quella di cui all’art. 2052 c.c., quest’ultimo ritenuto invocabile nelle ipotesi in cui ricorre non tanto la proprietà tant’è che in essa incorre anche il semplice utente quanto il potere/dovere di custodia, ossia la concreta possibilità di vigilanza e controllo del comportamento degli animali Cass. 25/11/2005, n. 24895 , impone, infatti, che la responsabilità dell’ente si affermi solo previa individuazione del concreto comportamento colposo ad esso ascrivibile e cioè che gli siano imputabili condotte, a seconda dei casi, genericamente o specificamente colpose che abbiano reso possibile il verificarsi dell’evento dannoso. Entro questo perimetro va verificato il tipo di comportamento esigibile volta per volta e in concreto dall’ente preposto dalla legge al controllo e alla gestione del fenomeno del randagismo, sì da dedurne la eventuale responsabilità sulla base dello scarto tra la condotta concreta e la condotta esigibile, quest’ultima individuata secondo i criteri della prevedibilità e della evitabilità e della mancata adozione di tutte le precauzioni idonee a mantenere entro l’alea normale il rischio connaturato al fenomeno del randagismo. Premessa la prevedibilità dell’attraversamento della strada da parte di un animale randagio, essendo esso un evento puramente naturale, la esistenza di un obbligo in capo all’ente che ne è gravato di impedirne il verificarsi avrebbe dovuto essere valutata secondo criteri di ragionevole esigibilità, tenendo conto che per imputare a titolo di colpa un evento dannoso non basta che esso sia prevedibile, ma occorre anche che esso sia evitabile in quel determinato momento ed in quella particolare situazione con uno sforzo proporzionato alle capacità dell’agente. Ebbene, pur considerando che nel caso di specie veniva chiesto alla P.A. di esercitare un controllo sugli animali randagi e, quindi, pur potendosi in astratto imputare alla stessa una colpa per l’evento dannoso occorso, quel che il giudice di merito non ha accertato - e dovrà accertare in sede di rinvio - è se, tenuto conto di tutte le circostanze del caso concreto, come allegate e provate dall’attore in responsabilità, esso fosse anche evitabile con uno sforzo ragionevole tanto più tenuto conto che, secondo quanto esposto in sentenza, l’impatto tra il Fiat Ducato della Confraternita di Misericordia ed il cane randagio avvenne fuori dal centro abitato strada che da Mendicino conduce a Cerisano, nei pressi di Contrada Tivolille . In tale corretta prospettiva, occorrerebbe dunque -esemplificando - che sia acquisita prova dell’esistenza di precedenti segnalazioni della presenza abituale di animali randagi nel luogo dell’incidente, lontano dalle vie cittadine, ma rientrante nel territorio di competenza dell’ente preposto, ovvero che vi fossero state nella zona richieste d’intervento dei servizi di cattura e di ricovero, demandati alla ASL e al Comune, rimaste inevase. Tanto nell’ottica - come è stato efficacemente rimarcato - che, se bastasse, per invocarne la responsabilità, l’individuazione dell’ente preposto alla cattura dei randagi ed alta custodia degli stessi, la fattispecie cesserebbe di essere regolata dall’art. 2043 c.c. e finirebbe per essere del tutto disancorata dalla colpa, rendendo la responsabilità dell’ente una responsabilità sottoposta a principi analoghi se non addirittura più rigorosi di quelli previsti per le ipotesi di responsabilità oggettiva da custodia di cui agli artt. 2051, 2052 e 2053 c.c. . 7. In accoglimento dunque del terzo motivo di ricorso, la sentenza deve essere pertanto cassata, con rinvio al giudice a quo, anche per il regolamento delle spese del presente giudizio di legittimità. P.Q.M. accoglie il terzo motivo di ricorso rigetta i primi due cassa la sentenza in relazione al motivo accolto rinvia alla Corte d’appello di Catanzaro in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.