L’obbligo del commercialista di completa informazione del cliente

In tema di responsabilità professionale, il commercialista ha l’onere di completa informazione del cliente, prospettandogli sia le soluzioni praticabili, sia quelle per lui eventualmente non convenienti, così da metterlo in condizioni di scegliere secondo il miglior interesse da perseguire.

Lo ha ribadito l’ordinanza della Corte di Cassazione n. 14387/19, depositata il 27 maggio. Il caso. Un contribuente si era rivolto ad un commercialista per chiedere un parere sulla modalità fiscalmente più conveniente per uscire da una società di cui era socio lavoratore, e sostiene, in sede di ricorso, che il consiglio del professionista era quello di recedere dalla società facendosi liquidare la quota. Affidandosi a tale consiglio il contribuente si è comportato di conseguenza ottenendo subito dopo un accertamento dal Fisco per una pretesa tributaria di circa 190.000 euro. Gli obblighi del professionista nei confronti del cliente. In materia di responsabilità professionale, la Suprema Corte ribadisce che il commercialista, quale che sia l’oggetto della sua prestazione, ha l’obbligo di completa informazione del cliente, prospettandogli sia le soluzioni praticabili, sia quelle non convenienti, così da metterlo in condizioni di scegliere secondo il miglior interesse. E a tal proposito, il mancato esame delle risultanze della CTU integra un vizio della sentenza impugnata che può essere fatto valere nel giudizio di cassazione, risolvendosi nell’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio. Sulla base di tale ragione, la Suprema Corte accoglie il ricorso con cassazione della sentenza impugnata, rinviandola alla Corte distrettuale, in diversa composizione, per nuovo esame sul merito.

Corte di Cassazione, sez. III Civile, ordinanza 26 marzo – 27 maggio 2019, n. 14387 Presidente Amendola – Relatore Cricenti Fatti di causa Salvatore M. si è rivolto a A.D. , commercialista, per avere un parere sulla maniera fiscalmente più conveniente per uscire da una società di cui era socio lavoratore. Sostiene che il consiglio del commercialista fu di recedere dalla società facendosi liquidare la quota, anziché cederla ad altri soci, e, che, cosi facendo, su un realizzo di 775.000,00 Euro, avrebbe pagato tasse per circa 85 mila. Il M. ha seguito il consiglio, recedendo dalla società, ma poco dopo la definizione dell’operazione ha appreso dal commercialista che l’imposizione fiscale avrebbe dovuto essere di 117 mila, e solo pochi mesi dopo ancora, ha ricevuto un accertamento da parte del Fisco che conteneva una pretesa tributaria di 190.993,82 Euro. Cosi che, anziché la somma di 83 mila Euro indicata dal commercialista inizialmente, il costo fiscale della operazione è stato per il ricorrente di 199 mila Euro. Il M. ha convenuto in giudizio il professionista imputandogli di avergli dato un parere sbagliato sulla convenienza fiscale del recesso e dunque di avergli provocato un danno pari alla somma che ha dovuto versare al Fisco. In primo grado la domanda, previo espletamento di una consulenza tecnica, è stata accolta, mentre il giudice di appello, in riforma della decisione di primo grado, ha ritenuto non ravvisabili estremi di responsabilità professionale nella condotta del commercialista. Avverso questa decisione propone ricorso per Cassazione il M. con 6 motivi. V’è controricorso dell’A. . Ragioni della decisione 1.- La ratio della decisione impugnata può cosi essere riassunta non può addebitarsi alcuna responsabilità al commercialista in quanto il recesso era l’unica strada possibile, come emerso dalle deposizioni testimoniali, e il cliente avrebbe dunque scelto tale soluzione liberamente, fuori da ogni consiglio del consulente. 2.- Il ricorrente propone sei motivi di appello, alcuni dei quali, e segnatamente il primo, secondo, terzo e sesto possono esaminarsi congiuntamente, in quanto pongono la medesima questione sotto diversi punti di vista. E la questione è la seguente. Con i motivi primo, secondo e terzo sostanzialmente il ricorrente denuncia violazione delle norme in tema di valutazione delle prove art. 116 c.p.c. e di onere probatorio art. 2697 c.c. . Il ricorrente lamenta il fatto che la corte di appello ha posto a base della sua decisione fatti diversi da quelli emersi e rilevanti per il giudizio e comunque è incorsa in errori di percezione del contenuto della prova. In particolare, secondo il ricorrente, il giudice di secondo grado avrebbe, tra l’altro, errato sul contenuto della prestazione cui il commercialista si è obbligato, non considerando che obbligazione di quest’ultimo era di fornire una consulenza sia sulla convenienza di abbandonare la società, sia sul modo più conveniente, fiscalmente, per farlo. Il giudice di appello avrebbe ritenuto che il commercialista ha adempiuto correttamente prospettando come unica soluzione possibile il recesso. Con il sesto motivo lamenta violazione dell’art. 1218 c.c., sul presupposto che, pur ammettendo che il commercialista si era obbligato a fare i conti del costo fiscale del recesso, a fronte dell’inadempimento evidente il recesso è costato molto di più era onere del ricorrente solo di dimostrare l’inadempimento e nient’altro, gravando sul commercialista la dimostrazione della non imputabilità. E ciò a maggior ragione se si pensa che l’obbligo del commercialista era di risultato. Il secondo e il sesto motivo pongono una questione assorbente e comune. Il ricorrente lamenta che, da un lato, il consulente aveva assunto l’obbligo di suggerire la soluzione più conveniente e non ha adeguatamente informato il cliente di quale tale soluzione fosse dall’altro che, provato questo inadempimento, al cliente non restasse altro da dimostrare, contrariamente a quanto implicitamente assunto dalla corte di appello. Entrambi i motivi sono fondati. Il commercialista, quale che sia l’oggetto specifico della sua prestazione, ha l’obbligo di completa informazione del cliente, e dunque ha l’obbligo di prospettargli sia le soluzioni praticabili che, tra quelle dal cliente eventualmente desiderate, anche quelle non praticabili o non convenienti, cosi da porlo nelle condizioni di scegliere secondo il migliore interesse in termini Cass. n. 13007/2016 . Nella valutazione della prova dell’adempimento di tale obbligo, se non è sindacabile la discrezionalità riservata al giudice di merito, è tuttavia censurabile il fatto che costui abbia posto a base della decisione prove non emergenti, oppure omesso di considerare non il valore probatorio del fatto, ma la prova in sé. Dagli atti era emerso che, d’accordo con il commercialista dell’altro socio, il convenuto A. aveva deciso di proporre al cliente la sola ipotesi del recesso, senza informarlo della difficoltà eventuale che si poneva nel praticare l’altra strada, quella della cessione. Né questa informazione poteva dirsi superflua, ai fini di quanto detto sopra, ossia ai fini di consentire al cliente di decidere autonomamente, sul presupposto che egli aveva manifestato comunque l’intenzione di lasciare la società, elemento cui la corte non dà il giusto peso, non considerando che quella aspirazione era fatta al momento dell’incarico, ossia senza sapere quali fossero le alternative ed i loro costi. A maggior ragione dunque l’omessa informazione del cliente ha avuto rilievo. A tal fine, ossia ai fini della rilevanza della informazione che andava fornita al cliente, per metterlo in condizione di scegliere, ed eventualmente anche di non scegliere alcunché, attesi i costi della soluzione praticabile e, per contro, la non praticabilità della cessione, v’era in atti la CTU espletata in primo grado e riproposta nelle sue conclusioni dall’appellato. Il mancato esame delle risultanze della CTU integra un vizio della sentenza che può essere fatto valere, nel giudizio di cassazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, risolvendosi nell’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti Cass. 13770/ 2018 Cass. 13399/ 2018 . Il sesto motivo aggiunge poi un ulteriore vizio alla decisione impugnata. Essa infatti impone al cliente oneri di prova che esulano dall’ambito posto dall’art. 1218 c.c A prescindere infatti dalla omissione delle necessarie informazioni, e limitandosi alla prestazione di fatto effettuata, è pacifico che il consulente aveva previsto, per il recesso, un carico fiscale di 88 mila Euro, ed è altrettanto pacifico che il cliente si è ritrovato a pagarne 199 mila, ossia più del doppio. Già questa divergenza, da sola, può dirsi frutto di un errore del consulente e quindi costituisce inadempimento al suo obbligo di valutare il costo fiscale della uscita dalla società, a prescindere dalle valutazioni sull’esistenza di alternative. Secondo la regola dell’art. 1218 c.c., il creditore allega l’inadempimento, ed è onere del debitore dimostrare la non imputabilità, cosi che l’onere del creditore, consistente nella allegazione che il calcolo fatto dal consulente era errato, è stato adempiuto, mentre gravava sul consulente dimostrare che la maggiore somma il doppio pagata dal cliente era frutto di vicende e fatti a lui non imputabili, in quanto imprevedibili. Invece, ferma restando l’allegazione dell’inadempimento e tale deve considerarsi il caso in cui il consulente stima in 88 mila Euro il costo fiscale mentre poi si scopre che esso valer 199 mila , la prova liberatoria non è stata fornita, ed anzi è stato il giudice di merito a cercarla tra le risultanze processuali. L’accoglimento di questi due motivi rende assorbiti gli altri. P.Q.M. La Corte accoglie il secondo ed il sesto motivo, dichiara assorbiti gli altri, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di Appello Bologna in diversa composizione anche per le spese.