Per aderire alla class action prevista all’art. 140-bis del codice del consumo non è richiesta alcuna formalità

Nelle azioni di classe introdotte a norma dell’art. 140-bis del codice del consumo, i consumatori e gli utenti possono aderire a tali azioni anche tramite fax e posta elettronica, senza l’osservanza di particolari formalità, con la conseguenza che la sottoscrizione degli aderenti non deve essere autenticata con le modalità e a cura dei soggetti di cui al D.P.R. n. 445/2000.

La fattispecie. La sentenza in commento trae origine dal ricorso proposto da un primario istituto bancario italiano avverso le sentenze con cui il Tribunale di Torino prima e la Corte di Appello di Torino poi hanno dichiarato la nullità delle clausole aventi a oggetto alcune commissioni di scoperto di conto applicate a conti non affidati, condannando la banca a restituire agli attori e ad alcuni aderenti a una class action gli importi richiesti come somme indebitamente trattenute dalla banca. Per quanto qui di interesse, la Corte di Cassazione ha in particolare stabilito che – contrariamente da quanto statuito dai Giudici di merito – l’esclusione di alcuni consumatori dal novero dei partecipanti all’azione di classe a causa dell’asserito mancato rispetto di formule sacramentali per la manifestazione della propria adesione che secondo il Tribunale sarebbe dovuta avvenire nelle forme e a cura dei soggetti previsti dal d.P.R. n. 445/2000 non è supportata da alcuna prescrizione di legge, frustrando quindi la ratio di massima informalizzazione della procedura perseguita dal Legislatore. L’eccessivo formalismo frustra la ratio della class action. Secondo i Giudici di legittimità, tuttavia, la decadenza alla partecipazione alla class action invocata dalla banca e accolta dai Giudici di legittimtà non trova alcun riscontro nella disciplina della class action ex art. 140- bis del codice del consumo, né detta decadenza può essere invocata sulla base dei principi generali. Infatti, la novella dell’art. 140- bis del codice del consumo, avvenuta nel 2012, applicabile ratione temporis al caso in esame, ha previsto la possibilità di aderire all’azione di classe addirittura anche con fax o posta elettronica certificata, modifica coerente con la snellezza di tale azione, improntata alla massima deformalizzazione. Tenuto conto che la posta elettronica certificata è uno strumento ben diverso rispetto alla firma digitale, appare evidente che se il Legislatore nella class action ha inteso richiedere solo la posta elettronica certificata o il fax come modalità di spedizione dell’adesione sostitutiva del deposito in cancelleria e non la firma digitale, è perché non riteneva essenziale prescrivere, ai fini della validità dell’adesione, l’autenticità della firma come ha, invece secondo gli Ermellini, ingiustificatamente prescritto il Tribunale di Torino . D’altra parte, il Legislatore, nei casi in cui ha ritenuto essenziale l’autenticità di una sottoscrizione – come nell’art. 83 c.p.c. in tema di procura alle liti, ove ha prescritto la firma digitale – l’ha richiesto espressamente. È evidente quindi che il Tribunale di Torino – prosegue la Corte di Cassazione – nel richiedere l’autenticazione delle sottoscrizioni degli aderenti nelle forme e a cura dei soggetti previsti dal d.P.R. n. 445/2000 , abbia imposto una formalità di adesione non prescritta dalla legge. In conclusione, i Giudici di legittimità hanno dunque formulato il principio di diritto secondo il quale nelle azioni di classe introdotte a norma dell’art. 140- bis del codice del consumo, i consumatori e gli utenti possono aderire a tali azioni anche tramite fax e posta elettronica, senza l’osservanza di particolari formalità, con la conseguenza che la sottoscrizione degli aderenti non deve essere autenticata con le modalità e a cura dei soggetti di cui al d.P.R. n. 445/2000.

Corte di Cassazione, sez. I Civile, sentenza 11 gennaio – 15 maggio 2019, n. 12997 Presidente Bisogni – Relatore Fidanzia Fatti di causa Con sentenza del 29 aprile 2016 la Corte d’Appello di Torino ha confermato la sentenza del 10/04/2014 con cui il Tribunale di Torino, previa ammissione, limitatamente alle contestazioni concernenti le commissioni di scoperto di conto applicate dopo il 15/08/2009 ai conti non affidati, dell’azione di classe ex art. 140 bis c. cons. proposta dai signori G.F. , L.E. , S.F. , anche a mezzo dell’associazione Altroconsumo, contro Intesa San Paolo s.p.a., ha dichiarato la nullità delle clausole aventi ad oggetto le predette commissioni e per l’effetto ha condannato l’istituto di credito convenuto a restituire ai tre attori e a tre aderenti T. , F. e G. gli importi da ciascuno richiesti come somme indebitamente trattenute dalla banca. La Corte d’Appello di Torino, riconosciuta la legittimazione attiva dei proponenti ad impugnare anche nell’interesse degli aderenti esclusi, ha, inoltre, rigettato l’appello incidentale con cui era stata richiesta l’ammissione delle 101 adesioni escluse per la mancata autenticazione della firma nelle forme richieste nell’ordinanza del Tribunale di Torino del 15 giugno 2012. Avverso questa sentenza ha proposto ricorso per cassazione Intesa San Paolo s.p.a. Resistono i già appellanti incidentali con controricorso e propongono, a loro volta, ricorso incidentale. Le parti hanno, altresì, proposto entrambe memorie ex art. 378 c.p.c Ragioni della decisione 1. Con il primo motivo Intesa San Paolo s.p.a. lamenta la violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione al D.L. n. 185 del 2008, art. 2 bis per avere la sentenza impugnata confermato la nullità della commissione per scoperto di conto applicata dalla banca, benché la norma predetta non ne sancisse affatto la nullità. 2. Il motivo è infondato. L’istituto di credito ricorrente lamenta che, relativamente ai conti non affidati, la L. n. 2 del 2009, art. 2 bis, comma 1, si limiterebbe a sancire soltanto la nullità delle commissioni di massimo scoperto, e che tale sanzione non si estenderebbe anche alla pattuizione di tutte le altre forme di remunerazione. Nel caso di specie, la commissione per scoperto di conto di cui è causa, pattuita dalle parti, non è nulla, non essendo correlata alla punta massima di scoperto nel trimestre come la CMS , bensì alla effettiva durata dello scoperto, nella misura di Euro 2 al giorno. La banca contesta l’interpretazione dei giudici di merito, secondo cui le ulteriori forme di remunerazione disciplinate dal secondo periodo dell’art. 2, comma 1, bis riguarderebbero solo i conti affidati e ciò sul rilievo che la commissione per scoperto di conto rientrerebbe, a pieno titolo, nella tipologia di clausole, comunque denominate, che prevedono una remunerazione, a favore della banca dipendente dall’effettiva durata della utilizzazione dei fondi , in relazione alle quali la remunerazione non è necessariamente legata alla concessione di affidamenti. Questo Collegio non condivide l’impostazione della ricorrente principale. Dall’esame del secondo periodo dell’art. 2 bis, comma 1, emerge in modo incontestabile che il legislatore ha voluto prendere in considerazione soltanto i conti affidati. Vi è, infatti, una previsione generalizzata di nullità di tutte le clausole che prevedano una remunerazione accordata dalla banca per la messa a disposizione di fondi a favore del cliente indipendentemente dall’effettivo prelevamento della somma, ovvero che prevedano una remunerazione indipendentemente dall’effettiva durata dell’utilizzazione di fondi, e ciò a meno che il corrispettivo per il servizio di messa a disposizione delle somme - servizio che si riferisce, evidentemente, ad entrambe le tipologie di clausole sopra indicate - sia stato predeterminato, unitamente al tasso debitore per le somme effettivamente utilizzate, con patto scritto non rinnovabile, in misura omnicompresiva e proporzionale all’importo e alla durata dell’affidamento. Il legislatore, dunque, per non far incorrere le clausole concordate tra le parti nella sanzione della nullità, si è preoccupato di rendere determinabile nei termini sopra precisati, a norma dell’art. 1346 c.c., la commissione applicata dalla banca, sia che si configuri come una semplice remunerazione legata al solo affidamento, sia che la remunerazione sia commisurata anche all’effettiva utilizzazione di fondi, non essendovi alcun dubbio comunque che, con l’espressione salvo che il corrispettivo di messa a disposizione delle somme .” collocata dopo l’elencazione di entrambe le tipologie di clausole, il legislatore abbia voluto, in ogni caso, evidenziare che tale remunerazione non può che essere pattuita nell’ambito di un rapporto affidato. Ove il legislatore avesse voluto davvero circoscrivere l’applicabilità della seconda parte del secondo periodo del 1 comma dell’art. 2 bis, legge citata dall’espressione salvo che il corrispettivo di messa a disposizione delle somme fino a in ogni momento solo alla prima tipologia di clausole, avrebbe direttamente inserito l’inciso sopra riportato dopo la elencazione di queste ultime clausole. L’inserimento di tale espressione dopo la seconda tipologia di clausole evidenzia la chiara intenzione del legislatore di prevedere, parimenti, la possibilità di pattuizione di tale tipologia solo nell’ambito dei rapporti affidati. Peraltro, l’interpretazione invocata dalla banca condurrebbe ad evidenti distorsioni. Essendo stato sopra evidenziato che il legislatore ha inserito l’espressione sopra indicata, inserendo tutta una serie di condizioni forma scritta, misura omnicomprensiva del corrispettivo, etc. allo scopo di rendere determinabile, a norma dell’art. 1346 c.c., la remunerazione applicata dalla banca e per non fare quindi incorrere le clausole di cui al secondo periodo dell’art. 2 bis, comma 1, nella sanzione di nullità ordinariamente e generalmente prevista, è evidente che se la stessa espressione sopra indicata fosse applicabile esclusivamente alla prima tipologia di clausole, e non alla seconda tipologia, il legislatore si sarebbe inopinatamente limitato a prevedere una categoria di clausole, generalmente nulle, senza introdurre, come per la prima tipologia, un meccanismo idoneo a renderle valide. Deve, dunque, accogliersi l’interpretazione della norma suggerita dai giudici di merito. Tale interpretazione, oltre ad essere aderente alla ratio della nuova norma introdotta L. n. 2 del 2009, art. 2 bis di prevedere una remunerazione a favore della banca in presenza di servizi effettivamente resi - in caso di conto non affidato non può, invece, in alcun modo ragionarsi in termini di servizio prestato dalla banca, potendo la stessa decidere discrezionalmente se tollerare o meno lo scoperto, non essendo minimamente tenuta contrattualmente a mettere a disposizione del cliente alcuna somma e a far quindi fronte alle utilizzazioni oltre la provvista - rende coerente sotto il profilo sistematico la formulazione del primo periodo dell’art. 2 bis, comma 1, legge citata che sancisce la nullità delle commissioni di massimo scoperto a fronte di utilizzi in assenza di fido con il secondo periodo dello stesso comma, sopra esaminato. Seguendo l’interpretazione della norma invocata dalla banca, non si spiegherebbe ragionevolmente il motivo per cui, in caso di conti non affidati, il legislatore avrebbe inteso sancire la nullità delle sole commissioni di massimo scoperto e non anche quella di altre clausole che prevedano una commissione in caso di scoperto di conto. Peraltro, non emerge dalla lettura della norma una posizione del legislatore di disfavore verso le CMS relativamente ai conti affidati, il primo periodo dell’art. 2, comma 1, bis non prevede parimenti come per i conti non affidati - una nullità tout court della CMS, essendo stabilita tale sanzione solo se il saldo del cliente risulti a debito per un periodo continuativo inferiore a trenta giorni, con conseguente piena validità della clausola se il saldo risulti a debito per un periodo pari o superiore ai trenta giorni in ordine all’intento del legislatore, con l’introduzione della L. n. 2 del 2009, art. 2 bis, di sancire definitivamente la legittimità della CMS e di sottrarla alle censure di legittimità sotto il profilo della mancanza di causa, vedi anche sez 1 n. 12965 del 22/6/2016, Rv. 640110-01 . L’intento del legislatore, con riferimento ai conti non affidati, non era quindi quello, di sanzionare, in modo particolare, le CMS ma quello di eliminare, in generale, commissioni non legate a servizi resi dalla banca. Infine, non può trarsi alcun argomento a favore dell’interpretazione della norma invocata dalla banca dalla disciplina introdotta dal legislatore con il D.L. 24 marzo 2012, n. 27, convertito con modifiche nella L. 18 maggio 2012 n. 62, che, modificando l’art. 117 bis T.U.B., ha previsto per gli sconfinamenti, non solo oltre il limite del fido, ma anche in assenza di fido, una commissione di istruttoria veloce determinata in misura fissa, espressa in valore assoluto, commisurata ai costi. Neppure la banca, in mancanza di un qualunque addentellato normativo, ha affermato che la disciplina posteriore potesse avere natura di interpretazione autentica di quella anteriore. La L. n. 27 del 2012, che all’art. 27, comma 4, ha abrogato la L. n. 2 del 2009, art. 2 bis, commi 1 e 3, ha una chiara funzione innovativa, introducendo una commissione di istruttoria veloce , che si configura a prescindere dalla denominazione come rimborso spese per l’istruttoria comunque svolta dalla banca indipendentemente, quindi, dall’affidamento per la pratica relativa allo sconfinamento, e non come compenso per un servizio svolto dallo stesso istituto di credito a favore del correntista. Deve quindi concludersi che, con riferimento ai conti correnti non affidati, il legislatore, alla L. n. 2 del 2009, art. 2 bis, comma 1, ha inteso sanzionare con la nullità tutte le clausole contrattuali che prevedano commissioni per scoperto di conto - indipendentemente dal fatto che fossero commisurate alla punta del massimo dello scoperto nel trimestre CMS o alla durata del medesimo scoperto - trattandosi di commissioni non legate a servizi effettivamente resi dalla banca. Va, peraltro, in ogni caso, rilevato, quanto al caso di specie, che la sentenza impugnata ha evidenziato il rilievo dirimente che la commissione di scoperto di conto non era stata oggetto di un’espressa pattuizione scritta tra le parti ed in generale non erano state rispettate le condizioni previste dal secondo periodo dell’art. 2 bis, comma 1, legge citata. L’istituto ricorrente non ha neppure contestato in ricorso tale affermazione frutto di un accertamento in fatto svolto dalla Corte territoriale, e, come tale, non sindacabile in sede di legittimità, limitandosi a concentrare le proprie doglianze, anche nel ricorso per cassazione, sull’interpretazione del L. n. 2 del 2009, art. 2 bis, comma 1. Peraltro, la banca, solo nella memoria ex art. 378 c.p.c., in replica al controricorso dei correntisti che avevano in prevenzione dedotto non potersi applicare la commissione di scoperto di conto neppure attraverso l’esercizio dello ius variandi, ha affermato per la prima volta che la commissione in oggetto era stata introdotta nel rapporto in esame proprio con tali modalità, a norma della L. n. 2 del 2009, art. 2 bis, comma 3. Si tratta di un’affermazione tardiva estranea al thema decidendum, atteso che l’istituto di credito, di fronte all’assunto della sentenza impugnata secondo cui la commissione di scoperto di conto non era stata pattuita per iscritto dalle parti né erano state comunque rispettate le condizioni previste dalla legge, avrebbe dovuto, già nel ricorso per cassazione, dedurre l’intervenuta approvazione di tale clausola tramite l’esercizio dello ius variandi nonché lamentare l’omesso esame, ex art. 360 c.p.c., n. 5, da parte della Corte territoriale di un fatto storico decisivo che era stato oggetto di discussione tra le parti, indicando il dato , testuale o extratestuale, da cui esso risultava esistente, il come e il quando tale fatto fosse stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua decisività , e ciò in ossequio alle statuizioni del Supremo Collegio di questa Corte nella sentenza n. 8053/2014. 3. Con il secondo motivo la banca convenuta lamenta la violazione dell’art. 360 c.p.p., comma 1, n. 3, in relazione agli artt. 2033, 1827 e 1852 c.c., per avere la sentenza impugnata confermato la condanna della banca alla restituzione dell’indebito per importi di cui risultava allegato solo l’addebito a titolo di commissioni per scoperto di conto. Osserva l’istituto di credito che il mero addebito su conto corrente non affidato, e con saldo passivo, non corrisponde affatto ad un pagamento. 4. Il motivo è fondato. Va preliminarmente osservato che il Supremo Collegio di questa Corte, nella sentenza n. 24418 del 2 dicembre 2010 si è espressa negli stessi termini, recentemente, anche sez. 1 n. 27704 del 10.7.2018 , ha statuito che il cliente che agisce ex art. 2033 c.c., per la ripetizione dell’indebito corrisposto alla banca ha l’onere di provare i fatti costitutivi del diritto vantato, ovvero la dazione di una somma e la mancanza di una causa che la giustifichi. Ciò premesso, il giudice di primo grado aveva accertato l’esistenza dei pagamenti dei correntisti, oggetto della richiesta di restituzione, sulla base del principio di non contestazione, a norma dell’art. 115 c.p.p., per non essere tali somme state specificamente contestate nella loro misura dalla banca . La Corte d’Appello, di fronte alla contestazione della banca svolta nell’atto di appello - secondo cui non si era perfezionato il meccanismo di cui all’art. 115 c.p.c., per avere, in realtà, l’istituto di credito contestato tempestivamente l’avvenuta dazione delle rimesse a titolo di commissioni per scoperto di conto - da, un lato, ha rilevato correttamente che le argomentazioni sollevate dalla banca non costituivano eccezioni in senso proprio, vietate ai sensi dell’art. 345 c.p.c., costituendo dei meri argomenti difensivi tuttavia, dall’altro, non si è curata di verificare la fondatezza dell’affermazione del giudice di primo grado sulla base dell’esame comparativo degli atti difensivi delle parti, ma ha erroneamente voluto superare in fatto la questione sollevata dall’istituto di credito con il mero rilievo, in diritto, secondo cui, trattandosi di conti non affidati, l’addebito in conto corrente darebbe di per sé solo elemento sintomatico di un’operazione solutoria equiparabile in tutto e per tutto ad un pagamento . Tale conclusione si pone in netto contrasto con l’approdo del Supremo Collegio di questa Corte nella sentenza sopra citata n. 24418/2010. Ne consegue che è fondata la censura dell’istituto ricorrente secondo cui la sentenza impugnata è incorsa nella violazione dell’art. 2033 c.c La sentenza impugnata deve essere dunque cassata con riferimento al secondo motivo, con conseguente rinvio alla Corte d’Appello di Torino, in diversa composizione, che dovrà provvedere all’accertamento in fatto, omesso dalla sentenza di secondo grado, in ordine all’intervenuto perfezionamento o meno, nel caso di specie, del meccanismo di cui all’art. 115 c.p.c., in relazione ai dedotti versamenti solutori. 5. Con il primo motivo di ricorso incidentale i proponenti l’azione di classe ex art. 140 bis c.p.c., che hanno agito anche nell’interesse non solo dei consumatori aderenti ed esclusi, ma anche di tutti i consumatori facenti parte della classe e non ancora aderenti, hanno dedotto violazione e/o falsa applicazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. in relazione all’art. 140 bis, comma 3 e 11, cod. cons., per avere la sentenza impugnata confermato la necessità che la sottoscrizione dell’atto di adesione alla class action fosse sottoposto ad autenticazione nelle forme e a cura dei soggetti previsti dal D.P.R. n. 445 del 2000 e ciò nonostante che l’estrema deformalizzazione della procedura non richiedesse affatto tale formalità. I ricorrenti incidentali, proprio nella loro asserita qualità di esponenti della classe, come tali legittimati a curare l’interesse di tutti i membri e non solo di quanti hanno aderito all’azione di classe, hanno altresì invocato una pronuncia che demandi al giudice del rinvio la riapertura delle adesioni, da effettuarsi secondo quanto previsto dall’art. 140 bis cod. cons 6. Con il secondo motivo di ricorso incidentale, in via gradata rispetto al precedente motivo, è sempre stata dedotta violazione di legge in relazione al D.P.R. n. 445 del 2000, art. 21, per avere la sentenza impugnata confermato l’applicazione dell’art. 21, comma 2 legge cit., che impone l’autenticazione a mezzo di pubblico ufficiale, anziché dell’art. 21, comma 1, legge cit., che consente la forma semplificata della c.d. autocertificazione. 7. Il primo motivo incidentale è fondato nei limiti che saranno precisati nello sviluppo della trattazione. Va, preliminarmente, osservato che questione da analizzare in rito, prima dell’esame del merito, è quella della legittimazione da parte dei proponenti l’azione ex art. 140 bis c.c., ad impugnare nell’interesse dei non aderenti, in relazione ai quali è stata richiesta, come detto, la riapertura dei termini per l’adesione. Sul punto, deve rilevarsi che non vi è traccia di tale questione nel provvedimento impugnato e dall’esame delle conclusioni degli appellanti incidentali, come riportate integralmente nella sentenza della Corte d’Appello di Torino - e come non contestato dagli stessi ricorrenti incidentali - emerge che i proponenti la class action hanno chiesto di dichiarare soltanto l’ammissibilità delle 104 adesioni presentate senza quindi alcun cenno ai non aderenti . Ne consegue che la domanda di riapertura dei termini per nuove adesioni è stata svolta per la prima volta nel ricorso incidentale ed è, come tale, inammissibile. Con riferimento, invece, alla posizione degli aderenti esclusi, va osservato che il ricorso incidentale è fondato. Deve, preliminarmente, ritenersi inammissibile l’eccezione di inammissibilità del ricorso incidentale svolta dalla Banca Intesa s.p.a L’istituto di credito ha dedotto la tardività dell’appello incidentale, e, conseguentemente, l’inammissibilità del ricorso incidentale, sul rilievo che i ricorrenti incidentali non avrebbero contestato tempestivamente l’ordinanza del Tribunale di Torino, che aveva imposto per l’adesione la formalità dell’autenticazione della firma. Ad avviso della Banca, eventuali doglianze in ordine alla necessità di autenticazione delle firme prescritte da quel Tribunale avrebbero dovute essere formulate prima che scadesse il termine per la presentazione delle adesioni, con la conseguenza che una contestazione successiva a tale scadenza doveva ritenersi irrimediabilmente preclusa. Questo Collegio non condivide una tale impostazione. La decadenza invocata dalla banca non trova riscontro nella particolare disciplina della class action all’art. 140 bis cod. cons., né può essere fatta valere sulla base dei principi generali. In proposito, l’art. 152 c.p.c., dispone che i termini per il compimento degli atti processuali sono stabiliti dalla legge, mentre possono essere stabiliti dal giudice, anche a pena di decadenza, soltanto se la legge lo permette espressamente. Dunque, non avendo il legislatore previsto termini a pena di decadenza entro cui impugnare l’ordinanza che stabilisce le modalità di adesione alla class action, i soggetti interessati possono legittimamente impugnare tale ordinanza - come effettivamente avvenuto unitamente alla sentenza, con l’atto di appello. Quanto al merito della questione, va osservato che dalla ricostruzione delle fasi processuali del presente procedimento, come evincibili dallo stesso ricorso principale, emerge che il Tribunale di Torino ha assunto la riserva per determinare le modalità di presentazione delle adesioni alla class action all’udienza del 24 maggio 2012, e l’ha sciolta con ordinanza del 15 giugno 2012, ovvero quando era già entrata in vigore la legge del 24 marzo 2012, di conversione con modifiche del D.L. 24 gennaio 2012, che all’art. 6, lett. f , ha aggiunto al comma 3, primo periodo dell’art. 140 bis cod. cons. l’inciso anche tramite posta elettronica certificata e fax . In sostanza, la novella dell’art. 140 bis cod. cons, applicabile alla presente controversia in virtù del principio tempus regit actum trattandosi di legge processuale che interviene su rapporti non ancora esauriti - ha previsto la possibilità di aderire all’azione di classe addirittura anche con fax o posta elettronica certificata, modifica coerente con la snellezza di tale azione, improntata alla massima deformalizzazione art. 140 bis cod. cons., comma 11 . Tenuto conto che la posta elettronica certificata è concetto ben diverso rispetto alla firma digitale - la PEC Posta elettronica certificata è un sistema che consente di inviare email conferendo valore legale agli allegati ed ai messaggi, mentre la firma digitale è un mezzo elettronico con cui ad un documento elettronico si appone la propria firma, che sostituisce con valore legale la firma autografa - è evidente che se il legislatore nella class action ha inteso richiedere solo la posta elettronica certificata o il fax come modalità di spedizione dell’adesione sostitutive del deposito in cancelleria , e non la firma digitale, è perché non riteneva essenziale prescrivere, ai fini della validità dell’adesione, l’autenticità della firma come ha, invece, ingiustificatamente prescritto il Tribunale di Torino . D’altra parte, il legislatore, nei casi in cui ha ritenuto essenziale l’autenticità della sottoscrizione - come nell’art. 83 c.p.c., in tema di procura alle liti, ove ha prescritto la firma digitale - l’ha richiesto espressamente. È evidente quindi che il Tribunale di Torino, nel richiedere l’autenticazione delle sottoscrizioni degli aderenti nelle forme e a cura dei soggetti previsti dal D.P.R. n. 445 del 2000 , abbia imposto una formalità di adesione non prescritta dalla legge, venendo quindi a frustrare la ratio di massima informalizzazione della procedura perseguita dal legislatore. Deve quindi formularsi il seguente principio di diritto Nelle azioni di classe introdotte a norma dell’art. 140 bis cod. cons., i consumatori e gli utenti possono aderire a tali azioni anche tramite fax e posta elettronica, senza l’osservanza di particolari formalità, con la conseguenza che la sottoscrizione degli aderenti non deve essere autenticata con le modalità e a cura dei soggetti di cui al D.P.R. n. 445 del 2000 . In conseguenza dell’accoglimento del primo motivo di ricorso incidentale, nei termini sopra illustrati, la Corte d’Appello di Torino dovrà provvedere all’esame della posizione dei soli aderenti che fossero stati esclusi soltanto per la mancata autenticazione della firma per adesione secondo le formalità previste dalla ordinanza ammissiva del Tribunale di Torino. In proposito, deve, infatti, precisarsi, che la presente decisione non comporta l’automatica riammissione di tutti gli aderenti esclusi. La sentenza impugnata ha ben evidenziato di aver ristretto la propria disamina alle sole adesioni riconosciute non valide dal giudice di primo grado per la mancanza della sottoscrizione autenticata, non avendo gli appellanti incidentali presentato motivi - con conseguente formazione del giudicato interno - con riferimento alle altre ragioni di esclusione ritenute dal giudice di primo grado quali, a titolo di esempio, la mancanza tout court della sottoscrizione, o la mancata presentazione tempestiva delle firme all’associazione Altroconsumo, etc. . Dovrà quindi il giudice di rinvio individuare i nominativi ed esaminare le posizioni degli aderenti, che erano stati esclusi solo per la mancanza di autentica della firma con le modalità del D.P.R. n. 445 del 2000, e che devono quindi essere riammessi. 8. Il secondo motivo di ricorso incidentale è assorbito dall’accoglimento, nei limiti più volte indicati, del primo motivo. 9. Con il terzo motivo di ricorso incidentale i proponenti l’azione di classe hanno dedotto violazione di legge in relazione all’art. 91 c.p.c., per avere la sentenza impugnata disposto l’integrale compensazione delle spese in conseguenza della soccombenza reciproca, nonostante i proponenti e gli aderenti avessero conseguito una vittoria piena sul merito della lite anche all’esito del giudizio d’appello. 9. Il motivo è assorbito in relazione all’accoglimento del secondo motivo del ricorso principale dell’istituto di credito. Deve quindi cassarsi la sentenza impugnata limitatamente al secondo motivo del ricorso principale ed al primo motivo, nei termini sopra illustrati, del ricorso incidentale, dovendosi, pertanto, disporre il rinvio alla Corte d’Appello di Torino in diversa composizione, cui è demandata, altresì, la regolamentazione delle spese del giudizio di legittimità. P.Q.M. Accoglie il secondo motivo del ricorso principale ed il primo motivo del ricorso incidentale, nei termini sopra illustrati, e, per l’effetto, cassa, con tali limiti, il provvedimento impugnato e rinvia per nuovo esame, anche per le spese del giudizio di legittimità, ad altra sezione della Corte d’Appello di Torino.