Danno da mala gestio impropria e quantificazione del maggior danno

In tema di credito non pagato nei giusti termini, il Giudice deve liquidare un maggior danno solo se il danno presunto” dal legislatore, equivalente al saggio degli interessi legali, è minore rispetto a quello effettivamente subìto.

La vicenda veniva portata all'attenzione degli Ermellini quando, con atto ritualmente notificato, alcuni danneggiati ricorrevano per la cassazione della sentenza della Corte d'Appello di riferimento con la quale, in parziale riforma della sentenza di primo grado, l'autorità giudiziaria aveva condannato una compagnia assicuratrice al pagamento in favore degli appellanti di un importo dovuto a titolo di risarcimento del danno da ritardo causato da mala gestio , quantificando quest’ultimo nella sola misura degli interessi legali. I ricorrenti contestavano la irrisorietà di tale importo e la necessità che lo stesso venisse liquidato in un ammontare superiore. Ma dal proprio canto la Corte di Appello aveva qualificato la domanda come mala gestio impropria e, per il credito non pagato nei giusti termini per fatto imputabile all'assicuratore, aveva riconosciuto il maggior danno nella misura degli interessi legali, tanto perché questi ultimi si erano dimostrati superiori all’indice di svalutazione del tempo. Maggior danno? Sul punto la Corte, nel confermare nel caso di specie la correttezza della identificazione, da parte della Corte di Appello, della domanda dei danneggiati come mala gestio impropria, precisa, intanto, come tale qualificazione sia incensurabile in sede di legittimità. Ed osserva, altresì, come la soluzione accolta dalla Corte territoriale, in tema di maggior danno dovuto da ritardo nel pagamento, equivalente al saggio degli interessi legali, risulti corretta se si considera che l'obbligazione dell'assicuratore, in caso di mora a lui addebitabile, rispetto ad una obbligazione complessiva che ha superato il massimale di polizza, costituisce un debito di valuta, dovendo il Giudice liquidare un maggior danno solo se il ‘danno presunto’ dal legislatore, per la perdita dei frutti naturali del denaro, sia minore rispetto a quello effettivamente subito. Sul punto, gli Ermellini, quindi, confermano la decisione della corte che ha ritenuto che non vi fosse prova di un maggior danno da svalutazione in rapporto al saggio di interessi legali da applicare. Inoltre, per quanto qui interessa, gli Ermellini richiamano la giurisprudenza di legittimità a Sezioni Unite in materia, la quale con ripetuti interventi ha precisato che la liquidazione del maggior danno, che avviene in virtù dell'articolo 1224 c.c., comma 2, si sostituisce non si aggiunge alla liquidazione degli interessi legali. Questi, infatti, rappresentano una liquidazione del danno effettuata ex ante e forfettariamente dal legislatore. Gli interessi legali nelle obbligazioni di valuta rappresentano, cioè, la liquidazione di un danno presunto. Seguendo questo iter logico, di contro, qualora il creditore dimostri che l'effettivo danno maggiore sia stato superiore, e non è perciò ristorato dal solo pagamento degli interessi legali, egli avrà diritto al risarcimento di questo danno nella sua interezza che, dunque, prenderà il posto della liquidazione forfettaria stabilita dal legislatore con la previsione degli interessi legali. Difatti, nel caso di ritardato adempimento di un’obbligazione di valuta, il maggior danno può essere ritenuto provato in tutti i casi in cui, durante la mora, il saggio medio di rendimento netto dei titoli di Stato con scadenza non superiore a 12 mesi sia stato superiore al saggio degli interessi legali. Ricorrendo tale ipotesi, il risarcimento del maggior danno spetta a qualunque creditore fermo restando che se il creditore domanda a titolo di risarcimento del maggior danno una somma superiore, avrà l'onere di provare l'esistenza e l'ammontare di tale pregiudizio, anche in via presuntiva. Nel caso in cui il creditore avesse la qualità di imprenditore, ad esempio, egli avrà l'onere di dimostrare di aver fatto ricorso al credito bancario sostenendo i relativi interessi passivi. Mentre, il debitore dal proprio canto avrà l'onere di dimostrare, anche tramite presunzioni semplici, che il creditore in caso di tempestivo adempimento non avrebbe potuto impiegare il denaro dovutogli in forma di investimento che gli avrebbero garantito un rendimento superiore al saggio legale. In conclusione, secondo la Suprema Corte, la corte territoriale non ha fatto altro che applicare i princìpi sopra esposti al caso di specie. Ed è per questo che legittimamente non ha riconosciuto la rivalutazione monetaria richiesta, sull'assunto che all'epoca il danno da svalutazione richiesto si era dimostrato inferiore al tasso legale. La Corte d'Appello, secondo gli Ermellini, non poteva far altro che riconoscere gli interessi legali, non avendo il creditore provato altro tipo di maggior danno. Il principio di diritto. Così facendo, la Suprema Corte chiarisce in materia il seguente principio di diritto nella liquidazione del danno da mala gestio impropria dell'assicuratore per la responsabilità civile auto, se il credito del danneggiato già al momento del sinistro eccedeva il massimale assicurato, il danno da mala gestio impropria è debito di valuta e va calcolato sulla base del massimale convenuto, con aggiunta degli interessi da calcolarsi al tasso legale ex art. 1224, comma 1, c.c. oppure al saggio di interessi corrispondente al maggior danno, se provato, in applicazione dell'art. 1224, comma 2, c.c

Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza 14 novembre 2018 – 12 febbraio 2019, n. 3976 Presidente Vivaldi – Relatore Fiecconi Rilevato che 1. Con ricorso notificato il 7/03/2017, F.L. , Ca. , M. , M.S. , A. , S. , G. e C. ricorrono per la cassazione della sentenza della Corte d’Appello di Roma n 5325/2016, non notificata, pubblicata il 9/09/2016, con la quale, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Roma - sezione distaccata di Ostia - n. 377/2011 -, condannava la Ergo Assicurazioni al pagamento in favore degli appellanti di un importo a titolo di risarcimento del danno da ritardo, causato da mala gestio. I ricorrenti deducono tre motivi di ricorso attinenti alla mancata o non corretta considerazione della domanda di mala gestio impropria e propria ai fini del calcolo del maggior danno subito dal proprio congiunto a causa del ritardo nel pagamento e alla errata applicazione delle tariffe forensi in tema di spese legali. 2. La parte intimata è rimasta contumace. Considerato che 1. Con il primo motivo ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, i ricorrenti denunciano la violazione e/o falsa e/o erronea applicazione degli artt. 1224, 2056 e 2900 cod. civ., il contrasto e/o la violazione degli artt. 3 e 23 Cost., la contraddittorietà e/o illogicità e/o insufficienza della motivazione su un punto decisivo della controversia, per non avere la Corte d’Appello considerato la richiesta di mala gestio propria e impropria, e comunque per non aver riconosciuto, a titolo di mala gestio impropria, la rivalutazione del massimale di polizza su cui ricalcolare interessi legali e rivalutazione, nonché il lucro cessante per mancato realizzo del credito, a titolo di mala gestio impropria. 1.1. Il motivo è infondato. 1.2. La Corte d’Appello ha qualificato la domanda come mala gestio impropria e, per il credito non pagato nei giusti termini per fatto imputabile all’assicuratore, ha riconosciuto la misura degli interessi legali perché essi si sono dimostrati superiori all’indice di svalutazione del tempo, riportandosi in ciò a quanto indicato da Cass. 13537/2014. 1.3. Sul punto la Corte ha qualificato la domanda come mala gestio impropria e tale qualificazione è incensurabile in tale sede di legittimità. La soluzione accolta dalla Corte d’Appello in tema di maggior danno dovuto da ritardo nel pagamento, equivalente al saggio degli interessi legali, è corretta se si considera che l’obbligazione dell’assicuratore, in caso di mora a lui addebitabile, rispetto a un’obbligazione complessiva che ha superato il massimale di polizza, costituisce un debito di valuta per l’assicuratore, dovendo il giudice liquidare un maggior danno solo ove il danno presunto dal legislatore - per la perdita dei frutti naturali del danaro - sia minore rispetto a quello effettivamente subito, ai sensi dell’art. 1224 c.c., comma 2. Sul punto, difatti, la Corte ha ritenuto che non vi fosse prova di un maggior danno da svalutazione in rapporto al saggio di interessi legali da applicare. 1.4. Per quanto qui interessa, il precedente richiamato dalla Corte d’Appello merita conferma in quanto distingue i vari effetti della mora debendi dell’assicuratore pur partendo dall’assunto che l’obbligazione dell’assicuratore della r.c.a., tanto nei confronti dell’assicurato, quanto nei confronti del terzo danneggiato, una volta liquidato il danno ai valori attuali, ha ad oggetto il pagamento d’una somma di denaro, pari al danno causato dall’assicurato, ed è normalmente soggetta al limite del massimale. Quando il danno causato dall’assicurato eccede il massimale, l’obbligazione dell’assicuratore tanto nei confronti della vittima, quanto nei confronti dell’assicurato è delimitata dall’importo del massimale. Essa, pertanto, in questo caso ha non solo il nome, ma anche gli effetti d’una obbligazione di valuta. 1.5. La mora nelle obbligazioni di valuta è regolata dall’art. 1224 c.c., in virtù del quale il creditore inadempiente è tenuto al pagamento degli interessi legali dal giorno della mora, nonché del maggior danno ove provato come sussistente. 1.6. La Corte di cassazione, a Sezioni Unite, con ripetuti interventi ha precisato che la liquidazione del maggior danno ex art. 1224 c.c., comma 2, si sostituisce, e non si aggiunge, alla liquidazione degli interessi legali. Questi, infatti, rappresentano una liquidazione del danno effettuata ex ante e forfetariamente dal legislatore. Gli interessi legali nelle obbligazioni di valuta rappresentano dunque la liquidazione di un danno presunto. Qualora, di contro, il creditore dimostri che l’effettivo danno da mora sia stato superiore, e non è perciò ristorato dal solo pagamento degli interessi legali, il danneggiato avrà diritto al risarcimento di questo danno nella sua interezza, che dunque prenderà il posto della liquidazione forfettaria stabilita dal legislatore con la previsione degli interessi legali Sez. U., Sentenza n. 10796 del 16/12/1994, Rv. 489242 nonché, più di recente, Sez. U., Sentenza n. 19499 del 16/07/2008 . 1.7. Difatti, nel caso di ritardato adempimento di una obbligazione di valuta, il maggior danno di cui all’art. 1224 c.c., comma 2, può ritenersi provato in tutti i casi in cui, durante la mora, il saggio medio di rendimento netto dei titoli di Stato con scadenza non superiore a dodici mesi sia stato superiore al saggio degli interessi legali. Ricorrendo tali ipotesi, il risarcimento del maggior danno spetta a qualunque creditore, quale che ne sia la qualità soggettiva o l’attività svolta e quindi tanto nel caso di imprenditore, quanto nel caso di pensionato, impiegato, ecc. , fermo restando che se il creditore domanda, a titolo di risarcimento del maggior danno, una somma superiore, avrà l’onere di provare l’esistenza e l’ammontare di tale pregiudizio, anche per via presuntiva in particolare, ove il creditore abbia la qualità di imprenditore, avrà l’onere di dimostrare o di avere fatto ricorso al credito bancario sostenendone i relativi interessi passivi ovvero - attraverso la produzione dei bilanci - quale fosse la produttività della propria impresa, per le somme in essa investite il debitore, dal canto suo, avrà invece l’onere di dimostrare, anche attraverso presunzioni semplici, che il creditore, in caso di tempestivo adempimento, non avrebbe potuto impiegare il denaro dovutogli in forme di investimento che gli avrebbero garantito un rendimento superiore al saggio legale Sez. 6-3, Ordinanza n. 10839 del 17/05/2011, Rv. 618214 Sez. 3, Sentenza n. 19919 del 18/07/2008, Rv. 604904 Cass. Sez. U, Sentenza n. 19499 del 16/07/2008 . 1.8. Applicando i principi sopra esposti al caso di specie, la Corte d’appello era dunque tenuta a liquidare il danno da ritardato adempimento d’una obbligazione di valuta di importo pari al massimale assicurato secondo i criteri sopra enunciati. La mora nelle obbligazioni di valuta, per quanto detto, va liquidata accordando al creditore, in via alternativa a gli interessi legali sul capitale nominale, se il creditore non prova alcun maggior danno ex art. 1224 c.c., comma 1 b il maggior danno, in sostituzione degli interessi legali, nel caso contrario, ex art. 1224 c.c., comma 2. Tale maggior danno, ovviamente, può essere presuntivamente rappresentato anche dalla svalutazione monetaria, ove la parte danneggiata abbia dedotto che avrebbe acquistato beni rifugio per ripararsi dall’inflazione. 1.9. Nel caso di specie, pertanto, la Corte d’appello non ha riconosciuto la rivalutazione monetaria richiesta sull’assunto che all’epoca il danno da svalutazione richiesto si era dimostrato inferiore al tasso legale, e quindi non integrasse l’ipotesi di cui all’art. 1224 c.c., comma 2. Ne consegue che, non avendo ritenuto sussistere la prova del maggior danno ex art. 1224 c.c., comma 2, la Corte d’appello non poteva far altro che riconoscere gli interessi legali di cui all’art. 1224 c.c., comma 1, atteso che le previsioni ivi contenute sono, per quanto detto, tra loro alternative. 1.10. La tesi del ricorrente, poi, secondo cui il massimale della RCA debba essere rivalutato ai fini del calcolo degli interessi moratori per il colpevole ritardo dell’assicuratore si pone del tutto al di fuori del sistema delineato dal legislatore perché delle due l’una o si prova che vi è un diritto dell’assicurato e dei danneggiati in via di surroga a pretendere la copertura di tutto il danno, ultramassimale, per mala gestio propria, ove tale deduzione sia stata fatta e provata nei suoi fondamenti, o si deduce e si prova che vi è un diritto dei danneggiati a pretendere il danno da ritardo nel pagamento del dovuto a prescindere dal massimale convenuto, da valutare con i criteri di cui sopra. 1.11. Il massimale di polizza risulta, difatti, il fattore numerico di riferimento per considerare la misura del risarcimento da ritardo o da mala gestio impropria, dovuto oltre quel parametro per effetto della mora debendi. Inoltre, in tema di inadempimento dell’assicuratore della responsabilità civile all’obbligo di tenere indenne il proprio assicurato dalle pretese del terzo c.d. mala gestio propria , invece, non sussiste alcuna conseguenza pregiudizievole qualora il massimale resti capiente nonostante il mancato adempimento se, invece, il massimale è divenuto incapiente al momento del pagamento, l’assicurato può pretendere dall’assicuratore una copertura integrale, senza riguardo alcuno al limite del massimale v. anche Cass. Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 9666 del 19/04/2018 . 1.12. Pertanto, le due fattispecie in considerazione, pur essendo diverse, non possono essere comunque utilizzate al fine di considerare rivalutabile il massimale assicurativo, costituendo esso un semplice fattore numerico, costituente il limite massimo di risarcimento dovuto dall’assicuratore, sulla base del quale debbono svolgersi le diverse valutazioni in caso di mala gestio propria e impropria. 1.13. Il motivo va dunque rigettato in base al seguente principio di diritto nella liquidazione del danno da mala gestio impropria dell’assicuratore della r.c.a., se il credito del danneggiato già al momento del sinistro eccedeva il massimale assicurato, il danno da mala gestio impropria è debito di valuta e va calcolato sulla base del massimale convenuto, con aggiunta degli interessi da calcolarsi al tasso legale ex art. 1224 c.c., comma 1, ovvero al saggio di interessi corrispondente al maggior danno, se provato, in applicazione dell’art. 1224 c.c., comma 2 . 2. Con il secondo motivo, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, il ricorrente denuncia la nullità della sentenza per omessa pronuncia su una domanda, in violazione dell’art. 112 c.p.c., nella parte in cui la Corte d’Appello non ha operato la rivalutazione del massimale, deducendo un errore di calcolo del massimale da considerare per i conteggi del danno da ritardo, anch’essi da rivalutare. 2.1. Il motivo è assorbito da quanto sopra detto perché risiede sulla tesi - errata - secondo cui il massimale debba essere rivalutato in caso di mora debendi, come anche le ulteriori poste di credito. 3. Con il terzo motivo, ex art. 360 c.p.c., n. 3, il ricorrente deduce la violazione e/o errata applicazione e/o disapplicazione dell’art. 24 Cost., artt. 1223 e 2056 c.c., artt. 91 e 92 c.p.c., in combinato con i D.M. n. 127 del 2004, e D.M. n. 55 del 2014, anch’essi disapplicati e/o non applicati correttamente, ex art. 360 c.p.c., n. 4, la violazione dell’art. 112 c.p.c., nonché, ex art. 360 c.p.c., n. 5, il vizio di motivazione e/o insufficienza e/o illogicità della stessa su un punto controverso e decisivo, con riguardo alla mancata applicazione delle tariffe forensi secondo quanto disposto dalle leggi di riferimento valevoli per il primo e secondo grado di giudizio per la attività di assistenza di più parti, e senza alcuna considerazione dell’attività stragiudiziale svolta e del valore della controversia, pari a Euro 1.500.000 e dell’attività difensiva svolta per più parti. 3.1. Il motivo è inammissibile. 3.2. Sul punto vale il principio indicato da Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 2644 del 02/02/2018 secondo cui le spese di assistenza legale stragiudiziale hanno natura di danno emergente e vanno liquidate secondo le tariffe forensi la quantificazione del compenso dovuto per tale attività, se determinata in misura compresa tra i minimi e i massimi tariffari, costituisce oggetto di apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità . 3.3. Per le ulteriori questioni sollevate in merito alla mancata considerazione dell’attività effettivamente svolta il motivo manca di specificità, poiché non vengono indicate le voci, contenute nella parcella, non considerate dal giudice dell’appello, e l’incidenza della loro mancata considerazione. In sede di ricorso per cassazione, la determinazione del giudice di merito relativa alla liquidazione delle spese processuali può essere censurata solo attraverso la specificazione delle voci in ordine alle quali lo stesso giudice sarebbe incorso in errore, sicché è generico il mero riferimento a prestazioni, che sarebbero state riconosciute in violazione della tariffa massima, senza la puntuale esposizione delle voci in concreto liquidate dal giudice, con derivante inammissibilità dell’inerente motivo Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 10221 del 26/04/2017Sez. 3, Sentenza n. 10409 del 20/05/2016 . 3.4. Con riguardo alle norme applicabili ai pregressi gradi di giudizio, una volta che la statuizione sulle spese viene riformata, deve farsi riferimento al principio secondo cui, stante l’unicità delle prestazioni rese a fini difensivi nei diversi gradi di giudizio e prima del loro definitivo esaurimento in tema di spese processuali, agli effetti del D.M. 20 luglio 2012, n. 140, art. 41, il quale ha dato attuazione al D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, art. 9, comma 2, convertito in L. 24 marzo 2012, n. 27, i nuovi parametri, cui devono essere commisurati i compensi dei professionisti in luogo delle abrogate tariffe professionali, sono da applicare ogni qual volta la liquidazione giudiziale intervenga in un momento successivo alla data di entrata in vigore del predetto decreto e si riferisca al compenso spettante ad un professionista che, a quella data, non abbia ancora completato la propria prestazione professionale, ancorché tale prestazione abbia avuto inizio e si sia in parte svolta quando ancora erano in vigore le tariffe abrogate, evocando l’accezione omnicomprensiva di compenso la nozione di un corrispettivo unitario per l’opera complessivamente prestata Sez. U, Sentenza n. 17405 del 12/10/2012 Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 17577 del 04/07/2018 . 3.5. Non è condivisibile infatti l’opinione secondo cui, con riferimento a prestazioni professionali iniziate prima, ma ancora in corso quando detto decreto è entrato in vigore e il giudice deve procedere alla liquidazione del compenso, sia preferibile segmentare le medesime prestazioni nei singoli atti compiuti in causa dal difensore, oppure distinguere tra loro le diverse fasi di tali prestazioni, per applicare in modo frazionato in parte il precedente ed in parte il nuovo regime di regolazione delle spese processuali. Osta ad una tale impostazione il rilievo secondo cui - come anche nella relazione accompagnatoria del decreto ministeriale non si manca di sottolineare - il compenso evoca la nozione di un corrispettivo unitario che ha riguardo all’opera professionale complessivamente prestata e di ciò non si è mai dubitato, quando si è trattato di liquidare onorari maturati all’esito di controversie durante le quali si erano succedute nel tempo tariffe professionali diverse, giacché sempre in siffatte ipotesi si è fatto riferimento alla tariffa vigente al momento in cui la prestazione professionale si è esaurita. 4. Conclusivamente il ricorso è rigettato nulla si liquida per le spese, stante la mancata costituzione della parte intimata. P.Q.M. i. La Corte rigetta il ricorso Nulla spese. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.