Equa riparazione per eccessiva durata della procedura fallimentare

In tema di equa riparazione per irragionevole durata del processo nel caso di specie una procedura fallimentare ai sensi della Legge Pinto, il diritto all'indennizzo in favore di lavoratori, creditori del fallito, sorge per la semplice ammissione al passivo dei medesimi e per l'eccessiva durata della procedura. Il fatto che gli anzidetti lavoratori abbiano potuto giovarsi dell'intervento del Fondo di garanzia dell'INPS e/o che abbiano ricevuto pagamenti parziali dei rispettivi crediti nel corso della procedura non vale ad eliminare radicalmente il diritto all'indennizzo potendo tutt'al più concorrere a ridurlo, se del caso, anche al di sotto dei limiti minimi previsti dalla legge e della CEDU.

Il caso. Una s.r.l. veniva dichiarata fallita nel 1992 con stato passivo approvato il 15.7.1993. Il decreto di chiusura del fallimento interveniva il 14.12.2011. Considerata la lunga durata della procedura fallimentare, alcuni creditori ammessi al passivo evidentemente si trattava di lavoratori considerato l'intervento del fondo di garanzia dell'INPS come si legge nel testo dell'ordinanza svolgevano domanda di risarcimento per irragionevole durata del procedimento ai sensi della Legge Pinto legge 24.3.2001, n. 89 . La Corte d'Appello di Napoli riteneva che per la procedura in questione la durata appropriata” sarebbe stata di 7 anni e calcolava così una durata eccessiva di ben 11 anni riconoscendo a ciascun richiedente 14 persone la somma di € 500 per ciascun anno di ritardo. Il Ministero della Giustizia proponeva ricorso in Cassazione fondato su tre motivi. La decisione della Corte. Con il primo motivo di ricorso il Ministero lamenta un asserito vizio di extra-petizione ex art. 112 c.p.c. del decreto della Corte d'Appello per aver liquidato un importo complessivo di € 15.000,00, mentre gli istanti avrebbero chiesto solo € 5.000,00. Il motivo è giudicato inammissibile dalla Cassazione perché attiene all'interpretazione della domanda che, al contrario, per giurisprudenza costante, è questione riservata al giudice di merito Cassazione Sezioni Unite 1513/2016 a meno che non si traduca in questioni di giurisdizione o in error in procedendo . Con il secondo e il terzo motivo il ricorrente sostiene che la Corte d'Appello non ha tenuto conto delle eccezioni svolte dal Ministero e cioè l'intervento del fondo garanzia dell'INPS e il versamento nel corso della procedura di un ulteriore acconto ai creditori in questione mediante un riparto parziale. Tali elementi avrebbero dovuto neutralizzare” la richiesta di equa riparazione o ridurla notevolmente rispetto a quanto riconosciuto invece dalla Corte. Oltretutto la determinazione di un importo identico per tutti i richiedenti 500 € all'anno per ciascuno sarebbe erronea perché non terrebbe conto delle differenti posizioni e delle rispettive peculiarità dei vari creditori. Secondo il Ministero infine la Corte d'Appello non avrebbe considerato adeguatamente l'entità ridotta del debito residuo non corrisposto dalla procedura ai creditori. La Cassazione respinge i motivi giudicandoli congiuntamente. Partendo dall'ultima censura, gli Ermellini osservano che in realtà la Corte territoriale aveva opportunamente valutato che la modesta entità residua dei crediti comportava un affievolimento del patema d'animo e quindi un effetto riduttivo dell'impatto dell'irragionevole ritardo sulla psiche dei richiedenti, tale da giustificare lo scostamento dai parametri indennitari fissati dalla Corte . Così pure l'intervento del Fondo di Garanzia dell'INPS - per giurisprudenza costante - non vale ad eliminare in radice il diritto all'indennizzo per irragionevole durata del processo, ma consente tutt'al più di ridurlo. Ciò si deduce a contrario dai principi enunciati da Cassazione 26421/2009 secondo la quale il mancato esperimento da parte del lavoratore ammesso al passivo fallimentare dell'azione nei confronti del Fondo garanzia dell'Inps non condiziona l'insorgenza del diritto all'indennizzo, potendo operare solo in sede di liquidazione consentendone una riduzione al di sotto del minimo indicato dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo. Nel caso di specie il diritto all'equa riparazione per irragionevole durata del processo sorgeva pacificamente considerato che i lavoratori erano stati ammessi al passivo del fallimento e che la procedura era durata eccessivamente 1992 anno del fallimento, 15.7.1993 approvazione dello stato passivo, 14.12.2011 chiusura del fallimento . Tuttavia le circostanze sopra indicate erano state debitamente considerate dalla Corte d'Appello e avevano consentito per l'appunto una liquidazione dell'indennizzo relativo in misura inferiore ai minimi previsti dalla Legge Pinto cioè 750 € per i primi tre anni di ritardo” e 1.000 € per i successivi. In effetti nella fattispecie la Corte territoriale, come detto, ha liquidato € 500 per ciascun creditore per ogni anno irragionevole” in più. La Cassazione condivide quindi la decisione della Corte d'Appello e il ricorso viene respinto.

Corte di Cassazione, sez. II Civile, ordinanza 18 giugno – 6 novembre 2018, numero 28268 Presidente Petitti – Relatore Besso Oliva Fatti di causa Con ricorso depositato il 4.6.2012 C.D. , +Altri hanno adito la Corte di Appello di Roma per ottenere il riconoscimento dell’equo indennizzo per la durata irragionevole del processo in relazione alla procedura di fallimento dello omissis Spa, società dichiarata fallita con sentenza del Tribunale di Napoli numero 329/1992, con stato passivo approvato il 15.7.1993 e decreto di chiusura emesso il 14.12.2011. Con il decreto impugnato, depositato il 19.5.2017, la Corte di Appello di Napoli ha ritenuto ragionevole, per la procedura fallimentare, la durata di anni 7 dalla formazione dello stato passivo ed ha quindi ravvisato una durata eccessiva di 11 anni, riconoscendo a ciascun richiedente la somma di Euro 500 per ciascun anno di ritardo. Interpone ricorso per la cassazione di detto provvedimento il Ministero, affidandosi a tre motivi. Gli intimati non hanno svolto attività difensiva. Ragioni della decisione Con il primo motivo, il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 numero 4 c.p.c. perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente riconosciuto a ciascuno degli istanti la somma di Euro 5.500, senza avvedersi che in effetti gli stessi avevano concluso, in primo grado, invocando un indennizzo globalmente ammontante ad Euro 15.000. Ad avviso del ricorrente, il vizio di ultrapetizione sarebbe da ravvisare nella mancata considerazione del fatto che le conclusioni erano state formulate dagli istanti in modo unitario, che questi ultimi erano stati impersonalmente indicati nel ricorso come parte istante , che il valore della causa era stato indicato pari ad Euro 15.000 e che nella narrativa dell’atto introduttivo era stato indicato un indennizzo per anno pari ad Euro 1.250. Il motivo è inammissibile in quanto si rivolge contro l’interpretazione della domanda, che per costante giurisprudenza è riservata al giudice di merito, tranne quando riverberi in questione di giurisdizione Cass. Sez. U, Sentenza numero 1513 del 27/01/2016, Rv.638245 o in error in procedendo Cass. Sez. L, Sentenza numero 12022 del 08/08/2003, Rv.565844 Cass. Sez. L, Sentenza numero 15496 del 11/07/2007, Rv.598739 Cass. Sez. 5, Ordinanza numero 25259 del 25/10/2017, Rv.646124 . In ogni caso, nessuno dei vari argomenti utilizzati dal ricorrente appare decisivo al fine di dimostrare l’intento dei richiedenti di contenere la loro domanda nei limiti dell’importo globale di Euro 15.000. Infatti dalla lettura del ricorso si evince esattamente il contrario, posto che alla pag.15 si afferma che gli odierni intimati avevano concluso, nella fase di merito, invocando il risarcimento integrale dei danni subiti, quantificati in Euro 15.000,00 o in subordine in quella diversa misura, maggiore o minore, che codesta Ecc. ma Corte di Appello riterrà equa e giusta . Di fronte a tali conclusioni è irrilevante sia il fatto che nel ricorso sia stato indicato un valore di Euro 15.000, trattandosi evidentemente di dichiarazione formulata ai soli fini della quantificazione del contributo unificato dovuto per l’iscrizione al ruolo generale della procedura, sia la circostanza che i richiedenti fossero indicati complessivamente come parte istante . Del pari irrilevante è il fatto che nell’atto introduttivo i ricorrenti avessero indicato un indennizzo di Euro 1.250 per ciascun anno di ritardo, poiché la circostanza deve comunque essere apprezzata alla luce delle conclusioni rassegnate dagli odierni intimati ed il giudice di merito non è tenuto ad applicare l’importo richiesto dagli istanti come è avvenuto nel caso di specie, avendo la Corte territoriale riconosciuto una somma inferiore per ciascun anno di ritardo irragionevole . Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta l’omessa motivazione su un fatto decisivo, in relazione all’art. 360 numero 5 c.p.c., perché la Corte territoriale avrebbe omesso di esaminare le eccezioni mosse dall’Avvocatura nelle fasi di merito, aventi ad oggetto rispettivamente l’intervento del fondo di garanzia gestito dall’INPS il pagamento nel corso della procedura fallimentare di un acconto mediante il riparto parziale dell’attivo della procedura l’importo delle somme residue spettanti ai richiedenti. Ad avviso del ricorrente, la Corte territoriale avrebbe determinato l’indennizzo annuo in Euro 500 per ciascun richiedente, senza tener conto del pregiudizio concreto patito da ciascuno di essi, singolarmente considerato, e senza valutare se i maggiori tempi di durata del fallimento fossero collegati a maggiori realizzi sul piano dell’attivo della procedura. Inoltre, l’uniformità del criterio adottato dalla Corte di Appello Euro 500 per singolo anno per ciascuno dei richiedenti non terrebbe nel debito conto le peculiarità delle varie posizioni soggettive, documentate - tra l’altro - dal fatto che taluni dei richiedenti nella specie, G.L. e Li. avevano proposto opposizione al passivo fallimentare. Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta l’apparenza della motivazione in riferimento all’art. 111 comma 2 Cost. e all’art. 360 numero 4 c.p.c., perché la Corte territoriale avrebbe operato un generico richiamo agli interessi degli istanti, senza tener conto dell’entità effettiva della cd. posta in gioco e senza valutare entità del credito originario e prospettive di realizzo dello stesso. In tal modo, secondo il ricorrente la liquidazione equitativa del danno sarebbe stata operata dal giudice del merito in astratto e non in concreto. La seconda e terza doglianza, che possono essere esaminate congiuntamente perché tra loro connesse, sono infondate. Ed invero la Corte di Appello, nel decreto impugnata, ha affermato doversi riconoscere a ciascuno dei ricorrenti un indennizzo di Euro 500 per ciascun anno di ritardo, affermando che detto importo è da ritenersi ragionevole e idoneo ad assicurare un adeguato ristoro alla parte interessata e che la modesta entità residua dei crediti come rilevabili dallo stato passivo comportava un affievolimento del patema d’animo ed effetto riduttivo dell’impatto dell’irragionevole ritardo sulla psiche dei richiedenti, tale da giustificare lo scostamento dai parametri indennitari fissati dalla Corte . Trattasi di valutazione attinente il merito della questione, e segnatamente la determinazione del quantum dell’indennizzo, che si sottrae al sindacato della S.C. laddove essa sia, come nel caso di specie, sostenuta da adeguata motivazione. A ciò si aggiunge che nelle procedure fallimentari l’intervento del fondo di garanzia dell’INPS non ha effetto sul diritto all’indennizzo ma ne giustifica soltanto l’eventuale decurtazione cfr. Cass. Sez. 1, Sentenza numero 26421 del 16/12/2009 Rv.611955 secondo cui In tema di equa riparazione da durata irragionevole di una procedura fallimentare, il mancato esperimento, da parte del lavoratore creditore del fallito, dell’azione nei confronti del Fondo di garanzia gestito dall’INPS per il conseguimento delle prestazioni previdenziali di cui alla Legge numero 297 del 1982 ed al D.Lgs. numero 80 del 1992 non condiziona l’insorgenza del diritto all’indennizzo, ai fini della quale è sufficiente la prova del fallimento del datore di lavoro e dell’ammissione del credito al passivo, potendo invece rilevare in sede di liquidazione dell’indennizzo, così da giustificare una eventuale decurtazione del minimo annuo indicato dalla CEDU, ma l’onere di provare detta inerzia compete all’Amministrazione, al fine di argomentare da essa la minore penosità dell’attesa per la definizione del processo conforme, Cass. Sez. 6-2, Sentenza numero 7136 del 20/03/2017, non massimata . Nel caso di specie, la Corte di Appello ha considerato l’intervento del fondo di garanzia e ha affermato che di conseguenza, pur non trattandosi di questione meramente bagattellare in quanto inerente crediti da lavoro, si poteva tuttavia riconoscere un indennizzo contenuto in Euro 500 per ciascun anno di ritardo ingiustificato. Considerato che il giudizio è stato instaurato con ricorso depositato il 4.6.2012, la decisione appare conforme ai principi elaborati da questa Corte con riferimento al contesto normativo anteriore all’entrata in vigore del D.L. 22 giugno 2012 numero 83, che ha modificato la Legge 24 marzo 2001 numero 89, posto che l’indennizzo annuo accordato in concreto dal giudice di merito è addirittura inferiore all’importo base annuo di Euro 750 per i primi tre anni e di Euro 1.000 per i successivi cfr. Cass. Sez. 1, Sentenza numero 21840 del 14/10/2009, Rv.610458 e Cass. Sez. 61, Ordinanza numero 17922 del 30/07/2010, Rv. 614433 . Da quanto precede consegue il rigetto del ricorso. Nulla per le spese, alla luce del mancato svolgimento di attività difensiva in questo grado a cura degli intimati. P.Q.M. la Corte respinge il ricorso.