Diagnosi non tempestiva causa decesso prematuro: i congiunti hanno diritto al risarcimento

In tema di responsabilità medica nel caso in cui risulti che per effetto dell’omissione della diagnosi di un processo morboso terminale il paziente perda la possibilità di sopravvivere per settimane o mesi in più rispetto al periodo temporale effettivamente vissuto si determina l’esistenza di un danno risarcibile alla persona .

Lo ha affermato la Suprema Corte di Cassazione con sentenza n. 16919/18, depositata il 27 giugno. Il caso. Il Tribunale di Cagliari accoglieva la domanda degli interessi volta ad ottenere il risarcimento dei danni subiti per il decesso del loro congiunto a causa della diagnosi errata del medico di un ospedale, condannando quest’ultimo e l’U.S.L. al pagamento del risarcimento. In particolare il medico diagnosticava una semplice nevralgia al paziente con rinvio a casa e il giorno seguente il medesimo decedeva in seguito ad un infarto acuto. La Corte d’Appello, adita dai soccombenti in primo grado, accoglieva il gravame, rigettando la domanda risarcitoria. Secondo la Corte territoriale, nonostante il riconoscimento dell’esistenza di una negligenza ed imperizia del sanitario per non aver disposto l’immediato ricovero del pazienze, la prospettiva di vita di quest’ultimo in termini di probabilità statistica non poteva ritenersi superiore ad alcuni mesi ciò anche ove la patologia in atto fosse stata immediatamente riconosciuta dal sanitario, e che alla luce degli accertamenti peritali vi era l’alta probabilità di un evento fatale intra-ricovero . Avverso la decisione di merito i danneggiati hanno proposto ricorso per cassazione. Responsabilità medica e diritto al risarcimento. I ricorrenti denunciano con il primo motivo di ricorso la violazione o falsa applicazione degli artt. 2043 ss. c. c. in quanto la Corte di merito aveva negato il risarcimento nonostante avesse accertato la possibilità di un prolungamento di vita posto che l’evento mortale non si sarebbe verificato tanto anticipatamente se l’infarto fosse stato tempestivamente diagnosticato e trattato. Il motivo è fondato. Infatti i Supremi Giudici nella sentenza in commento, richiamando i consolidati precedenti giurisprudenziali sulla questione, hanno affermato il principio di diritto secondo il quale determina l’esistenza di un danno risarcibile alla persona l’omissione della diagnosi di un processo morboso terminale, ove risulti che, per effetto dell’omissione, sia andata perduta dal paziente la possibilità di sopravvivenza per alcune settimane od alcuni mesi, o comunque per un periodo limitato, in più rispetto al periodo temporale effettivamente vissuto . In conclusione la Cassazione ha accolto il primo motivo di ricorso, dichiarando inammissibile il secondo relativo all’omesso esame di elementi istruttori, e ha cassato la sentenza con rinvio alla Corte d’Appello in diversa composizione.

Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza 27 aprile – 27 giugno 2018, n. 16919 Presidente Spirito – Relatore Scoditti Fatti di causa 1. Con atto di citazione notificato nel dicembre 1991 T.G., S.P., S.S. e S.M. convennero in giudizio innanzi al Tribunale di Cagliari la U.S.L. n. XX e Tr.Fr. chiedendo il risarcimento del danno per la morte del congiunto S.G. . Espose in particolare parte attrice che al S., recatosi in data omissis presso il pronto soccorso dell’Ospedale omissis per violenti dolori retrosternali, fu diagnosticata dal dott. Tr. semplice nevralgia, con rinvio a casa, e che il giorno seguente, dopo che nella mattinata a seguito di esame elettrocardiografico gli era stato diagnosticato infarto acuto con prescrizione di ricovero d’urgenza, era deceduto appena rientrato a casa. Aggiunse che in sede penale, con sentenza confermata in appello, previo riconoscimento della responsabilità del Tr., era stata dichiarata l’estinzione del reato per prescrizione. Si costituì la Gestione liquidatoria U.S.L. chiedendo il rigetto della domanda. La causa venne istruita mediante la produzione di documenti e l’assunzione di interrogatorio formale e testimonianze. 2. Il Tribunale adito accolse la domanda, condannando i convenuti in solido al pagamento della complessiva somma di Euro 1.876.038,47. 3. Avverso detta sentenza proposero distinti appelli il Tr. e la Gestione liquidatoria. Si costituì la parte appellata chiedendo il rigetto dell’appello. 4. Previa riunione delle cause ed espletamento di CTU, con sentenza di data 17 maggio 2016 la Corte d’appello di Cagliari accolse gli appelli, rigettando la domanda. Osservò la corte territoriale per quanto qui rileva, previo riconoscimento dell’esistenza della negligenza ed imperizia del sanitario per non avere disposto l’immediato ricovero del S. e tutti gli esami strumentali secondo l’arte medica del 1979, che, sulla base delle considerazione del CTU, la prospettiva di vita del S., nella gravissima situazione anatomica e funzionale dell’organo cardiaco, in termini di altissima probabilità statistica non poteva ritenersi superiore ad alcuni mesi 12 mesi secondo l’ipotesi più favorevole, tre mesi secondo quella meno favorevole , e ciò anche ove la patologia in atto fosse stata immediatamente riconosciuta dal sanitario, e che alla luce degli accertamenti peritali vi era l’alta probabilità di un evento fatale intra-ricovero. Aggiunse che secondo il CTU, anche ove la patologia fosse stata prontamente riconosciuta e fossero stati correttamente attuati in regime di ricovero tutti i migliori trattamenti disponibili nel 1979, la probabilità di morte intra-ricovero cioè ai 15-20 giorni dal momento della presentazione al pronto soccorso sarebbe stata intorno al 7080%, mentre la probabilità di morte ad un anno sarebbe risultata superiore e che il comportamento negligente e/o imperito del Tr. non poteva essere posto in rapporto causale con l’evento morte, non potendosi attribuire rilievo, sotto il profilo risarcitorio, ad eventuali differenze nella sopravvivenza quantificabili in periodi brevissimi. Concluse nel senso che la sopravvivenza del paziente non poteva ritenersi più probabile della morte neppure nel brevissimo periodo. 5. Hanno proposto ricorso per cassazione T.G., S.P., S.S. e S.M. sulla base di due motivi. Resistono con distinti controricorsi le parti intimate. È stata depositata memoria di parte. Ragioni della decisione 1. Con il primo motivo si denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 2043 sgg. cod. civ., nonché 40 e 41 cod. pen., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ Osserva la parte ricorrente che secondo il CTU, delle tre cause che avrebbero potuto condurre al decesso del S., e cioè la fibrillazione ventricolare, l’asistolia e l’attività elettrica in assenza di polso, le prime due, se prontamente riconosciute, avrebbero potuto essere trattate con una discreta possibilità di successo, circostanza non considerata dalla Corte d’appello, e che comunque era stata negata al S. anche la possibilità di vivere per un periodo più lungo, avendo la corte territoriale accertato la possibilità di un prolungamento di vita fino a 3-12 mesi. Aggiunge che tale persistenza di chance di vita era stata tranciata dalla condotta colposa del Tr., posto che l’evento mortale non si sarebbe verificato in maniera tanto anticipata se l’infarto fosse stato tempestivamente diagnosticato e trattato. 1.1. Il motivo è fondato. Il giudice di merito ha accertato che, ove fosse stato diagnosticato l’infarto occorso al S., vi sarebbe stato un limitato periodo di sopravvivenza, non quantificato, ma rispetto al quale per un verso ha affermato che in termini di altissima probabilità statistica non poteva ritenersi superiore ad alcuni mesi 12 mesi secondo l’ipotesi più favorevole, tre mesi secondo quella meno favorevole , per l’altro ha richiamato la conclusione del CTU secondo cui, anche ove la patologia fosse stata prontamente riconosciuta e fossero stati correttamente attuati in regime di ricovero tutti i migliori trattamenti disponibili nel 1979, la probabilità di morte intra-ricovero cioè ai 15-20 giorni dal momento della presentazione al pronto soccorso sarebbe stata intorno al 70-80%, mentre la probabilità di morte ad un anno sarebbe risultata superiore. Ha escluso quindi l’esistenza del nesso di causalità con la condotta colposa del sanitario non potendosi attribuire rilievo, sotto il profilo risarcitorio, ad eventuali differenze nella sopravvivenza quantificabili in periodi brevissimi. Integra in realtà l’esistenza di un danno risarcibile alla persona l’omissione della diagnosi di un processo morboso terminale, ove risulti che, per effetto dell’omissione, sia andata perduta dal paziente la chance di vivere alcune settimane od alcuni mesi in più, rispetto a quelli poi effettivamente vissuti Cass. 18 settembre 2008, n. 23846 . Non ricorre a questo proposito la novità della domanda, eccepita da entrambe le parti controricorrenti con riferimento al danno da perdita di chance, il quale presuppone in effetti una specifica domanda e non può ritenersi incluso nella generica istanza di risarcimento di tutti i danni subiti Cass. 29 novembre 2012, n. 21245 . La chance, in tale caso, rileva non come danno-conseguenza ai sensi dell’art. 1223 cod. civ., ma come danno-evento. Il punto di riferimento della causalità materiale è proprio l’evento perdita di chance in termini di perdita della possibilità di una vita più lunga da parte del paziente cfr. Cass. 27 marzo 2014, n. 7195 . Il nesso di causalità materiale fra la condotta colposa e l’evento va quindi posto in relazione non con riferimento all’evento morte sic et simpliciter, ma con riferimento alla perdita del detto limitato periodo di sopravvivenza. È rispetto a tale danno-evento che il giudice di merito deve valutare, sulla base della causalità giuridica ai sensi dell’art. 1223, quali conseguenze pregiudizievoli siano derivate dall’avere privato il danneggiato dalla possibilità di sopravvivere sia pure per un periodo limitato di vita. Sotto altro punto di vista, come precisato da Cass. 19 marzo 2018, n. 6688, è lo stesso uso dell’espressione chance, con riferimento alla perdita della possibilità di sopravvivenza per un periodo imitato, a non apparire pertinente perché il danno non attiene al mancato conseguimento di qualcosa che il soggetto non ha mai avuto e dunque ad una possibilità protesa verso il futuro, cui allude la chance, ma alla perdita di qualcosa che il soggetto già aveva e di cui avrebbe certamente fruito ove non fosse intervenuta l’imperizia del sanitario. Sempre a questo proposito ha precisato Cass. 9 marzo 2018, n. 5641 che qualora l’evento di danno sia costituito non da una possibilità - sinonimo di incertezza del risultato sperato - ma dal mancato risultato stesso nel caso di specie, la perdita anticipata della vita , non è lecito discorrere di chance perduta, bensì di altro e diverso evento di danno, senza che l’equivoco lessicale costituito, in tal caso, dalla sua ricostruzione in termini di possibilità possa indurre a conclusioni diverse . Sulla base di tale criterio la pronuncia in discorso ha quindi identificato la seguente ipotesi la condotta colpevole ha cagionato non la morte del paziente che si sarebbe comunque verificata bensì una significativa riduzione della durata della sua vita ed una peggiore qualità della stessa per tutta la sua minor durata. In tal caso il sanitario sarà chiamato a rispondere dell’evento di danno costituito dalla minor durata della vita e dalla sua peggior qualità, senza che tale danno integri una fattispecie di perdita di chance - senza, cioè, che l’equivoco lessicale costituito dal sintagma possibilità di un vita più lunga e di qualità migliore incida sulla qualificazione dell’evento, caratterizzato non dalla possibilità di un risultato migliore , bensì dalla certezza o rilevante probabilità di aver vissuto meno a lungo, patendo maggiori sofferenze fisiche e spirituali . Il giudice di merito dovrà in conclusione attenersi al seguente principio di diritto determina l’esistenza di un danno risarcibile alla persona l’omissione della diagnosi di un processo morboso terminale, ove risulti che, per effetto dell’omissione, sia andata perduta dal paziente la possibilità di sopravvivenza per alcune settimane od alcuni mesi, o comunque per un periodo limitato, in più rispetto al periodo temporale effettivamente vissuto . 2. Con il secondo motivo si denuncia omesso esame di fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione fra le parti, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ Osserva la parte ricorrente che non vi era traccia nella motivazione della probabilità, individuata dal CTU, che l’infarto fosse stato dovuto a fibrillazione ventricolare o asistolia, casi trattabili con apprezzabili possibilità di successo, e che la decisione sarebbe stata diversa se tali circostanze indicate dal CTU fossero state esaminate. 2.1 Il motivo è inammissibile. L’omesso esame di elementi istruttori, in quanto tale, può integrare l’omesso esame circa un fatto decisivo previsto dalla norma, salvo che il fatto storico rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti Cass. s.u. 7 aprile 2014, n. 8053 . Le circostanze evidenziate nel motivo costituiscono non fatti storici ma ipotesi formulate dal CTU circa la patologia cardiaca. Con riferimento alle risultanze della consulenza tecnica non si denuncia quindi l’omesso esame di un fatto storico, ma l’omessa considerazione di una valutazione del CTU con riferimento ai fatti di causa, che è profilo non rilevante alla stregua dell’ipotesi legislativa di vizio motivazionale. P.Q.M. accoglie il primo motivo e dichiara inammissibile il secondo motivo di ricorso cassa la sentenza in relazione al motivo accolto rinvia alla Corte di appello di Cagliari in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.